Tre settimane di poesia nei lit-blog italiani (VII)

[La pars destruens e’ piuttosto chiara. Sulla pars construens, invece, e’ Babele di retroguardia: come i ventriloqui, ci si affanna a dar vita a fantocci. Tuttavia, la fantoccita’ e’ una forma propria, mentre il ventriloquismo e’ mera emissione di fiato. GiusCo]

Cristiano Poletti: intrecci casuali alla ricerca di una qualche emergenza (1 Giu 2012, absolute poetry, http://www.absolutepoetry.org/Cristiano-Poletti)

Claudia Ruggeri: afflato epico molto originale e di alto livello formale (5 Giu 2012, la dimora del tempo sospeso, http://rebstein.wordpress.com/2012/06/05/linferno-minore-di-claudia-ruggeri/)

Claudio Pagelli: vitalita’ inattesa nella limitatezza di un orizzonte minimalista (7 Giu 2012, carte sensibili, http://cartesensibili.wordpress.com/2012/06/07/claudio-pagelli-e-papez-di-andrea-tarabbia/)

Daniele Santoro: cronache impettite da Auschwitz eppero’ informali, falsopiano con falsetto (10 Giu 2012, imperfetta ellisse, http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/598-Daniele-Santoro-Sulla-strada-per-Leobschuetz.html)

Alfonso Guida: la voce batte ma il bagaglio formale e’, al momento, poco coltivato (10 Giu 2012, Centraal Station, http://www.giugenna.com/2012/06/10/alfonso-guida-irpinia-e-altre-poesie-uno-speciale/)

Maria Borio: una pacatezza atona e semplice che manifesta sorpresa nell’esistere (14 Giu 2012, le parole e le cose, http://www.leparoleelecose.it/?p=5552)

Alessandro Ceni: narrato individualmente mitico che tenta di farsi mitopoiesi collettiva (14 Giu 2012, blanc de ta nuque, http://golfedombre.blogspot.it/2012/06/alessandro-ceni.html)

Silvia Bre: versi che si lasciano trascinare da un impressionismo tenue e non sofisticato (15 Giu 2012, poetarum silva, http://poetarumsilva.wordpress.com/2012/06/15/silvia-bre-testi-scelti-da-alessandra-trevisan-e-maddalena-lotter-con-una-nota-di-anna-toscano/)

Anna Lamberti Bocconi: continuo e sofferto anelito di elevazione dallo scarno quotidiano (18 Giu 2012, poetarum silva, http://poetarumsilva.wordpress.com/2012/06/18/anna-lamberti-bocconi-poesie-inedite/)

Stefano Lorefice: poesie come tracce di un passaggio pensoso ma non troppo pensieroso (18 Giu 2012, imperfetta ellisse, http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/600-Stefano-Lorefice-Frontenotte.html)

Flavio Santi: l’amore per la discorsivita’ annacqua alcune immagini ben riuscite (20 Giu 2012, le parole e le cose, http://www.leparoleelecose.it/?p=5634)

Sun Kil Moon, “Among the leaves” – di Stefano Ferreri

Sunshine in Chicago makes me feel pretty sad
My band played here a lot in the ’90s when we had
lots of female fans, and fuck, they all were cute
Now I just sign posters for guys in tennis shoes.

Il blocchetto degli appunti riporta in cima il suo nome e la scrittura è quella.
Non lo riconosceresti altrimenti, tra titoli chilometrici ed una copertina insignificante, da quaderno di brutta. Il desiderio di anonimato ti sorprende, come la rinuncia alla bellezza impagabile di quelle sue istantanee sgranate ma illuminanti. Anche le storie che porta in dote, in fondo, sono umili e dimesse. Non più la morte giovane e beffarda di un pugilatore orientale caro agli dei. Non il baratro esistenziale del più romantico degli assassini seriali, né gli sprofondi di un nihilismo sempre a tutto campo e sempre a pieno fuoco. Al contrario, un’antologia di sincere annotazioni accatastate alla meglio, private, lontane anni luce dalla ferocia universale e dagli amorosi sensi feriti dei pittori della casa rossa.
E’ un cantautore estremamente intimo e confidenziale quello che si lascia sbirciare dalla finestra di ‘Admiral Fell Promises’, lasciata aperta questa volta per un salutare cambio d’aria. Canta e suona per se stesso senza curarsi delle orecchie curiose, giù in cortile. Il tono è insolitamente solare e fresco, pur nell’assoluta parsimonia degli arrangiamenti, quasi casalingo visto il clima di serena tregua dalle angosce cristallizzate del cantastorie tormentato. Che nemmeno sarebbe lo stesso senza quel felice acume autobiografico, pasta spalmabile a base di ironia finissima ed equilibrio molto faticosamente conquistato. “Non volevo lasciar assopire me stesso, o altri, con la quintessenza dell’ennesimo Mark Kozelek”, ha raccontato lui con l’impeccabile amarezza del suo miglior sorriso. Ecco quindi la più grande serata di tutta una vita, confessata con la ritrosia patetica del vero campione di auto-deprezzamento. Ecco il mal di schiena tiranno che reclama non meno di otto ore di sonno, ed i molesti quarantenni in scarpe di tela al posto delle carinissime groupie di un tempo. Non la diresti la stessa penna di chi andava predicando il suicidio come un vangelo ed implorava al padreterno la benedizione di una pioggia senza fine. Ma oggi quei capelli sono sempre più corti e sempre più radi. Ha fatto capolino un po’ di pancia, chissà quando, e lo “straordinariamente talentuoso ma non così attraente uomo di mezza età” si è scoperto fragile all’improvviso, pur con lo stesso sguardo severo all’apparenza che indossava venti anni fa. Niente più voglia di stravolgere gli AC/DC per renderli interessanti, o i Modest Mouse, per un tributo da indirizzare prima del tempo.

La sua voce sacrale entra nelle pagine di questo notes come la fiamma di un cerino in un buio cosmico, nell’alone gli svolazzi in slow motion della chitarra colibrì. Il nylon delle corde tradisce l’impulso di un songwriting finalmente sgravato dai calcoli e dalle cure maniacali, non più spagnoleggiante, ancora non elettrico. E ridotto alla sostanza espressiva e melodica, avvicina il grado zero del suo stile come ai tempi di ‘Down Colorful Hill’ – rigore, pulizia, pause ed illuminazioni – ma senza più quel canto invariabilmente distaccato e di sublime rassegnazione. Nella dedica all’amico artigiano ormai scomparso, lo scopri capace di una dolente e più corposa umanità rispetto al velo di insondabile ed oscura malinconia che rese la pelle d’oca di quei primi, sconcertanti dischi. Anche con la musica ridotta ad un trasparente accessorio di sfondo, anche nella frugalità affettuosa e fragile del suo incedere, Mark sa essere incredibilmente intenso ed evocativo. Il sole uccide la luna, sembrerebbe vero. Rarefatto e gentile in una doppia, elegiaca ninnananna, travestito da affilato desert folker oppure narcotico ed inesorabile in un filler di cordiale brutalità. E poi, bestemmia a parte, il mood intimo e vanamente giovanilista del Thurston Moore acustico, ancor più del solito Neil Young sulla spiaggia desolata, dei Simon e dei Garfunkel destati da un lungo viaggio mesmerico o di tutte le altre eroiche figurine dei bei tempi che furono, John Denver e Cat Stevens in testa.
Ti soffermi a fissarlo, più che ascoltarlo, e credi di aver riconosciuto il nuovo standard: meno etereo e più concreto rispetto alla norma quasi mistica delle sue esibizioni in questa o quella chiesa, più voracemente attratto dalle fascinazioni spicciole e un po’ crude del quotidiano, dagli umori altalenanti e dalle miserie belle del vivere marginale. Il respiro è corto, lontano il piacere fine a se stesso delle speculazioni sui massimi sistemi. Una considerazione esatta e bugiarda nel contempo, perché a tratti si riaffaccia l’angusto miniaturista con le ossessive orlature d’inquietudine del mai accreditato Nick Drake, con il broncio di ritorno e quel tono sempre così poco incline alle false speranze. I monotoni ed irresistibili cerchi di accordi descrivono come meglio non si potrebbe la routine di un amore giovane esposto ai rigori dell’inverno dei ricordi, mentre l’amore adulto, l’ispirazione, è pura fatica di Sisifo. Un cambio d’abito via l’altro e si convalida il rifiuto di tutti i filtri di coesione e di sintesi, mostrando a chi ascolta i tanti volti di un autore difettoso, non facile, mai accomodante. Sopravvivono così le impressioni seppiate, la grana sovraesposta degli scatti migliori e quelle vecchie montagne russe dimenticate, miracolosa architettura di ferro e legno ed insieme luogo d’elezione per un maestro di contemplazione nostalgica. Chi ha particolarmente amato la sua seconda stagione sarà saziato dall’unica sortita dell’elettrica in ‘King Fish’, ritorno agli spettri della grande autostrada, con quell’inclinazione tra il torvo e l’estatico che è autentica epica kozelekiana. A tutti gli altri basterà perdersi nel lungo brivido di franchezza della spoglia, luminosissima ‘Black Kite’, ultimo e più indecifrabile bozzetto sul taccuino.
Tutta la meraviglia dei Red House Painters abbandonata e confusa dentro sfumature ormai indefinite, senza più nemmeno l’urgenza di colmare il silenzio tra una nota e l’altra.

Stefano Ferreri

La voce – Francesco Lauretta

Pietro Di Lorenzo Busacca, benefattore (Scicli), foto Santo Abbattista
Pietro Di Lorenzo Busacca, benefattore (Scicli), foto Santo Abbattista

Turiddu, ecculu qua, a piazza, u Cianu u ciamamu nui, ci dumannu pirchì s’inniu a Santa Maria Maggiore a fari a missa. Iddu ma spiega, seraficu. Stavu taliannu a televisioni, i sira e già eru co pigiama quannu na vuci na testa mi ciamau: Turiddu, Turiddu chi fai caintra a chiesa tinnaghiri, a missa a fari. Prima rimasi a ucca aperta, ma qu’è ca mi chiama, cu è chistu, astura? E allura, ancora: Turiddu, ancora scavusu sii, susiti, curri a chiesa ca a missa a celebrari, avanti! Scantatu mi susì e di cursa ma fici, senza scarpi trasii a chiesa e u parrinu stava cirimuniannu, a genti c’era, magari a ma soru. Allura mentri ci fu un po’ ri confusioni rittu all’altari minnì e a muttuna spustai o parrinu ca nun mi vulia lassari stari u microfunu. E mentri facia sti cosi a vuci mi parrava forti: Bravu, accussì a fari, avanti uora parra dall’altari. Ma mancu rissi, Prigamu tutti, na scucciata di coddu m’arruau ca a testa mi fici girari, a ma suoru era: Pazzu, sì pazzu, chi stai faciennu? E mi pigghiarru. A Busacca mi purtarru, o manicomiu di Scicli.  Ora sugnu sotto cura, imbottito sugnu. E io, Ma scusami, non ti vergognavi?, perché sei voluto andare, non sentivi che non era normale fare una cosa del genere? E mi guarda: Avrei volutu a viriri a tia. Ch’è ca putia affari, cià via ddiri No, o Signuri?

Due poesie di Carol Ann Duffy tradotte da Giuseppe Cornacchia

[Carol Ann Duffy insegna a Manchester ed e’ Poet Laureate del Regno Unito dal 2009. Una sua intervista recente si trova su Stylist.co.uk. Le due poesie sono tratte da “The Bees”, Picador, 2011]

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LE API DI VIRGILIO (clicca per l’originale)

Benedetta la delizia dell’aria,
miele d’api, intrisa di trifoglio,
calendule, eucalipti, timo,
le centinaia di aromi del vento.
Benedetto l’apicoltore

che sceglie per i favi
un punto sorgivo tra violette, non boschi
non echi. Canti la luce, s’insinui, verde
o dorata colori di regine
e gioia sia, assoluta ma viva,
in armonia con epilobi e rive,
con i caldi e le brezze dell’estate,
il corpo di ogni ape
sul suo brillante fiore, incantato,
zompettando le fragranze, affascinato.

Per questo,
arrivino i giardini alla distanza
delle rose, zafferani, buddleje;
liddove le api pregano, cantano, lodano
in alberi di pero e prugno; api
truppe dei frutteti, protette dai giardini.

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FREDDO (clicca per l’originale)

Era cosi’ fredda, la palla,
che si scioglieva tra le mani
e quando la misi su altra neve, crebbe
fino a che mi ci sedetti sopra
e ripensai alla casa
dove fredda era la stanza
in cui m’ero svegliata prima,
le finestre chiuse dal ghiaccio,
il mio respiro nudo nell’aria.
Fredde pure le dita impenetrate
nel manto della neve che si posa
per le braccia facendomi pupazzo,
le mie dita intirizzite negli stivali;
e la voce di mia madre
che mi chiama ad entrare e ripararmi.
E fredde le sue mani, che
pelavano e bagnavano patate,
nel farsi incavo del viso della figlia,
un bacio per ciascuna fredda guancia,
un bacio per il freddo naso.
Ma niente cosi’ freddo come la notte
di Febbraio che aprii la porta
della Cappella del Riposo
dove mia madre giaceva ne’ giovane
ne’ vecchia, dove le mia labbra
ritornandole il bacio sulla fronte
conobbero quel che freddo vuole dire.


Traduzioni di Giuseppe Cornacchia, Giugno 2012, diritti riservati; inserite in TRADUZIONI per iOS e disponibili gratuitamente, come aggiornamento, a chi ha gia’ acquistato

Pubblicate su carta a Settembre 2012 in La superpotenza, venti anni di poesie, scritti e traduzioni da G.Cornacchia e A.Rendo, ISBN 9788891027474

Appunti dal buon senso senza senso (7) – Angelo Rendo

Ci sono scrittori che non interessano a scrittori, e scrittori che interessano a scienziati. L’attività di uno scrittore è solitamente sfogata tutta nella ricerca della fossa, è lì scavata. Si opera una continua ristrutturazione della fossa, non spesso né volentieri, ma in alcuni casi tempo e volontà si uniscono alla sorte. Lo scienziato, invece, perimetra le mura di fossa e sorte, solca terre, estende il proprio ritmo alle mappe eterne. Battere liberamente  – questa è dell’ultimo l’occupazione -, nella mancanza di una forma che ne specifichi l’essenza intermedia, pare l’esatta e giusta via d’uscita, tale giudicata perché conveniente al tocco lieve e mefitico. Lo scrittore perimetra le mura di fossa e sorte, solca terre, estende il proprio ritmo alle mappe eterne, insolitamente. Entrambi accolti, nessuno seguito.