MESSINA SINCRONICA – Angelo Rendo

Aveva pronunciato solo qualche sillaba, così mi ero convinto fosse di Catania la signora. No, sono di Messina. Andata via, a due minuti arriva un signore. Lamenta male alle reni, scendendo dall’auto. L’umidità, ma quale… l’età! Lei è di Donnalucata? No, sono di Messina. Non fa in tempo a spostarsi dall’ufficio, dove paga, al box, dove ritira, che alle sue ruote preme un altro signore, di Marina di Ragusa; a questo carico la bombola in macchina, quindi dritti verso l’ufficio. Mi giro senza accorgermene e miro la sua targa. Messina. Trilla Whatsapp: Gradirei una Birra Messina – un’amica. Tarderà, gliela faremo trovare. Ma la berrà lei.

Se decidi di raccontare la vita, chi ti legge non ti ascolterà; un sorriso di circostanza, asincronico, e Addio!

STRUNZU – Angelo Rendo

Mentre risistemavo e sfoltivo la libreria, è saltato fuori questo, stamattina. Dal nulla, lo spazio stretto fra libro e libro, è nato. Rinato. Eravamo diciassette in classe, l’anno scolastico era il 1994/95, l’ultimo. All’infuori di me, della qual cosa non ero evidentemente conscio, ben sette compagni, a quanto ho rivisto, compagne anzi (ché solo quattro i maschi), si espressero, al seguito della prima, a ruota, e mi dissero Strunzu, per salvarsi e farmi capro. Dirlo così STRONZO significa volersi bene. Ce ne volevamo, ce ne vogliamo. Poco fa ad alcuni di loro ho scritto BASTARDI, dopo avergli sottoposto la foto.

21 SETTEMBRE 2019 – Angelo Rendo

O forse qualche altro giorno tirerà
la coda lene dell’estate. Spentasi
la curva ed iniziato
il rettilineo, poco oltre il Piano
Grande, il mare
elemento non diverso
dalla terra. Nessuna meraviglia un giorno

qualcuno vi iniziasse a camminare.

Chiuso. E trepidante, giù
per i ciottoli, lasciata la macchina
sul ciglio della strada. Ecco,
la stretta, lingua di sabbia –
da luglio a settembre libera
terra di nessuno – svelare
lisce pietre e scogli timidi, riparo
per basse terre emerse. Prima
che l’acqua torni nel suo malmosto
ciclo d’indifferenza, cieco, furore.

IL MALOPPÈLO – Angelo Rendo

Poiché non dovrebbe fregarcene nulla – e invece poi uno ci cade, per amor del cielo, o di cose da poco – lascio aperta questa fontanella anteriore, strizzo gli occhi, e ricevo uno dei più saldi colpi uomo possa ricevere per potersi dire uomo.

Il maloppèlo? Cos’è?? Premesso a qualcuno interessi saperlo, non avrei voglia di dirvelo, sempre per stare a quella accortezza massima che distingue uomo da uomo, poi però uno ci cade, perché non è forse bello far notare le cose, chiamarle per nome, quando tutti se ne impipano e non vedono quanto siano reali, ci tocchino e ci facciano sparire, se vogliono, senza troppi scrupoli?

Il maloppèlo non è propriamente il garbuglio, si gloria, piuttosto, in carbonchio, in pustola. Chi ha il maloppèlo, ce l’ha dentro lo stomaco, quella rabbia cieca e dotta, quel villo andato a male, corrotto, quell’infezione covante nelle viscere e che cenere le fa. Se ne vedete uno, che soffre di maloppèlo, confortatelo, lui non vi può vedere, benché, da parte vostra, prendere il volo e torcere la frase per troppo umana pietà, lo libererebbe.

USO IMPROPRIO – Denis Montebello (trad. Angelo Rendo)

{Un racconto breve e strepitoso di Montebello, apparso sul suo blog.
Grazie Denis!}

Rileggendo un vecchio testo nel quale credeva molto, nonostante fosse giunto quasi alla fine, non smetteva di meravigliarsi. Molto tempo dopo, e dopo alcuni importanti rifiuti – cosa che, piuttosto, lo aveva oltremodo spinto a provarci con editori meno prestigiosi, poi con piccoli editori e persino con case clandestine o editori a pagamento – rileggendo questo manoscritto, in cui s’era imbattuto per caso durante delle grandi pulizie, e che aveva tirato fuori dal cassetto e aperto un’ultima volta, prima di distruggerlo, affinché di esso, nel quale lui aveva tanto creduto, non rimanessero che rimpianti, scopre, trent’anni dopo, di aver digitato (con l’indice della mano destra, che è sempre – sebbene sia passato dalla Remington alla tastiera, e si sia convertito con vero entusiasmo al computer – lo stesso dito a digitare) “mésuser” invece di “méduser”, ovvero ‘usare impropriamente’ invece di ‘sbalordire’. E poiché non c’era un correttore, un Robert che non s’era preso la briga di consultare – aveva fretta di finire ed era sicuro dell’ortografia – il refuso era rimasto. Che lo contempli pure sbalordito ora, e al tempo stesso rassicurato. Dentro questo guscio tutto ciò che c’è di più banale, che ci farebbe al massimo sorridere, egli vede – non riesce ancora a schiodarsi – le ragioni del suo insuccesso.

Bookbreakfast – Angelo Rendo

Stamattina mi alzo, fresco, alle 7:17. Non penso che a dirigermi in cucina, in testa un desiderio. Arrunchio in fretta una tovaglia, la dispongo sul tavolo: latte, due fette biscottate con crema Pan di Stelle, quattro gocciole Paresi extradark. Malauguratamente, mi viene la felice idea di sollevare alta la tovaglia per meglio sistemarla, come fosse stato un vassoio, e combino un lacio. Provvedo a rassettare il tutto, scomposto e pericolante, e a passar di straccio il pavimento. E a rimettere il latte sul fornello. Intanto penso a Petunia Ollister, intensamente. E al libro che ha fatto perdere l’equilibrio alla tovaglia. S’era nascosto sotto e non era picciol cosa convincerlo a venir fuori. Ecco il caso di un oggetto, soggetto alla moda, dannifico e che la moda spernacchia.

Nato con la camicia – Angelo Rendo

Ma perché lei che lavoro faceva? Chi io, io sono nato con la camicia, la vede, e si prende il bavero e me lo mostra e tutta se la tasta, e non me la tolgo mai, la bacio di continuo. È un brav’uomo. Sono entrato nel mondo del lavoro grazie alla legge 285/77 nel 1979, quanti giovani entrammo in massa nella pubblica amministrazione in quella tornata! Dieci anni prima del previsto, poi, mi sono messo in pensione con la legge 104, la mia mamma era malata di Alzheimer, e io figlio unico. Stipendio regionale, e gran bella pensione, ho perso solo duecento euro, impiegato di terzo livello. Nel nostro piccolo museo eravamo in cinquanta circa. Dei dirigenti facevo la busta paga. Da tremare. Già tremavo per le mie, e ringraziavo la camicia.
La politica li usava come termiti, per mangiarsi lo Stato. Loro se la minavano, per lo più, spargendo seme velenoso sulle rovine.