“La pittura dopo tutto” – di Francesco Lauretta

La pittura nasce insieme a noi e la sua presenza pare normale nella nostra esistenza come normale mi pareva quella luce che baciava l’asfalto di via IV novembre dove giocavamo coi calzoni corti e disegnavo storie – per me stesso, per altri bambini e, a volte, per mio nonno e il pittore Borgia – come le avventure di Lassie, di Rin Tin Tin, La Freccia Nera, più avanti Sandokan e Tarzan e infine le avventure degli eroi della Marvel. Era naturale: la pittura era insieme a noi dappertutto. Poi, fortunatamente, si cresce e non si vede più niente. Quando si è giovani non si vede niente o così è per la maggior parte di noi, o meglio si vede altro e altrove cose ma soprattutto sé stessi, narcisi innamorati tanto da vedere nient’altro, e quella pare vita. D’altronde cos’è la gioventù se non questa spensieratezza, questo vivere non vedendo? Questo meraviglioso ebetismo?, e se desideri di fare l’artista, e ti guardi intorno e non trovi niente, nessuno strumento e ti chiedi come e con cosa incominciare, comprendi immediatamente che la pittura se è vero che è il linguaggio più facile e diretto per iniziare è anche già cosa vecchia, remota.

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1999, via Matteo Pascatore 4, Torino, ore 18 inaugurammo per la seconda volta, una mostra in casa. Differentemente dall’anno precedente, io e Y non intitolammo l’evento e non comunicammo alla stampa la notizia della vernice né, tantomeno, invitammo galleristi, critici, collezionisti e compagnabella. Come in “Disumanesimo” occupammo tutti gli spazi possibili compresi il bagno, la cucina, stanze da letto eccetera. Per l’occasione esposi un’opera intitolata “Autoritratto” e misi alla prova due pittori che, senza esclusione di colpi, si misurarono ritraendosi l’un l’altro in quella che fu una vera e propria maratona, una vera e propria sfida delle proprie capacità, un duello, per dirla cinematograficamente. Avevo allestito un vero e proprio studio di pittore con colori, tavolozze, cavalletti e altri strumenti facili da immaginare che generalmente arredano lo studio di un pittore. I due pittori sono SG. e SG., due fratelli, due prodigi visto che da giovanissimi riuscivano a copiare con una felicità disarmante le opere impossibili come quelle di un Raffaello, di un Rubens o Bacon e lo stesso Richter. Chiesi loro di mettersi uno di fronte all’altro, di realizzare il ritratto dell’altro fratello e una volta finito il lavoro di firmare la tela col proprio nome. Questo comportava il fatto che il ritratto di Sergio portasse la firma di Salvatore G. e quello di Salvatore la firma di Sergio G. e l’intera opera la mia firma. Titolo: “Autoritratto”. L’autoritratto del pittore non poteva essere diverso da quello che desideravo mostrare: un mettersi in gioco delle vanità, uno scontro vanitoso di identità sempre in conflitto, un continuo cadere, un isolamento “spostato” – disturbato -. Questo  “Autoritratto” costituito non solo da un raddoppiamento ma anche da quello che definirei una deflagrazione dell’identità mi permise non solo di provare la distanza o lontananza di me come soggetto mettendomi in compagnia dell’alterità – vedi Bubblegum – ma anche del ruolo del pittore, e io mi ero servito di due ‘grandi’ pittori come pochi ne esistono oggi al mondo, di due pittori falliti. SG e SG sono falliti nel momento in cui hanno rispettivamente scelto di fare un’altra professione rispetto a quella di pittore che da sempre sognavano, e sognano di fare. Il fatto divertente è che oggi, entrambi, quando vedono una mostra di pittura, si fanno delle grasse risate.

Infine, leggevo nella notte che Wyndham-Matson, sotto torchio, mostrò a Rita due accendini: ”Guardali. Sembrano uguali, no? Bè, ascoltami. In uno di essi c’è la storicità”.”Non la senti? La storicità?”. ”Che cos’è la storicità?” chiese lei. ”E’ quando un oggetto ha la storia dentro di sé. Stammi a sentire. Uno di questi due Zippo era nella tasca di Franklin D. Roosevelt quando venne assassinato. E l’altro no. Uno ha storicità, anzi ne ha un sacco; più di quanta un oggetto ne abbia mai avuta. L’altro non ha niente. Non c’è nessuna ‘mistica presenza plasmatica’, nessuna ‘aura’ che lo circonda”. ”Dai” disse la ragazza, intimidita. ”E’ proprio vero? Che aveva uno di questi con sé, quel giorno?””Certo. E io so qual è: Capisci il mio punto di vista? E’ tutto un grosso imbroglio; Voglio dire, una pistola viene impiegata in una famosa battaglia, come quella di M-A, ma se non fosse stata usata sarebbe esattamente la stessa. A meno che tu non lo sappia. E’ tutto qui”(1), e continua e anch’io continuo.

(1) La svastica sotto il sole di Phil Dick.

FRANCESCO LAURETTA, Guarda avanti, e tutto ciò che ami svanirà, 7 agosto – 3 ottobre 2010, LAVERONICA Arte Contemporanea, Modica

Laveronica arte contemporanea è lieta di presentare dal 7 Agosto al 3 Ottobre “Guarda avanti, e tutto ciò che ami svanirà”, mostra personale di Francesco Lauretta, a cura di Elio Grazioli.
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Questo è lo stato dell’arte oggi, per Francesco Lauretta, che la pittura restituisce meglio di qualsiasi altro medium: stiamo per chiudere, affrettatevi ad uscire! I visitatori lo troveranno detto esplicitamente alla fine della mostra, al neon: “Uscite, uscite, stiamo chiudendo!”. Intanto, a riceverli ci sarà una gabbia, vuota. Doveva contenere un gallo da combattimento, di quelli sgargianti nei colori delle sue penne e aggressivi, cresciuti per la lotta: bella metafora dell’artista e dell’uso della pittura. Ma ora dov’è? Il doppio senso del titolo aiuta a comprendere: Ex stasis, assenza e estasi insieme, stasi e movimento insieme. Eccolo infatti lì accanto, in pittura, il gallo assente, ma ormai trasformato in pollo arrosto, non senza gustoso contorno di patate al forno. Ah, la carne è debole e caduca, nello stesso tempo in cui è succulenta e invitante! Ah, la morte è sempre in agguato! L’estasi è solo dello spirito. La morte incombe in questa mostra, ma la tonalità dell’arte di Lauretta è insieme allusiva e seducente, triste e impavida, assertiva ma aperta, decisa ma malinconica, non forza lo spettatore ma lo interroga, poeticamente, avvolgendolo, quasi raccontandogli una storia. Il quadro centrale, il quadro grande della mostra è uno di quelli con una processione tipica delle feste religiose siciliane, come Lauretta ne ha già dipinte, ma questa volta il momento fissato – fotograficamente – è quello del cedimento, del crollo di alcuni portatori che rovinano sotto il peso del baldacchino che sta per cadergli addosso. Una festa che finisce male, una caduta che è immagine dei nostri tempi. L’apocalisse, com’è noto, è anche rivelazione – apo-calipsis –, svelamento. È forse quello a cui allude il ritratto che costituisce l’altro quadro della stanza, una sorta di centro eccentrico dell’esposizione: grottesco ma lucente,dal titolo illuminante: Lo splendore portato come un mantello. Una visione di un cimitero di lapidi segnate con soli numeri chiude la mostra prima che la scritta al neon ci ingiunga di uscire al più presto. Si chiude dunque, ma che cosa veramente? La pittura, dicevamo, esprime meglio di qualsiasi altro medium questo stato delle cose, perché non lo rappresenta solamente ma lo è intrinsecamente.
Affrettatevi, si chiude.
Elio Grazioli
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Francesco Lauretta
“Guarda avanti, e tutto ciò che ami svanirà”
a cura di Elio Grazioli
dal 7 agosto al 3 ottobre 2010
Inaugurazione: sabato 7 agosto ore 21.00
Orario galleria: dal martedì alla domenica
15:00 – 22:30. Fuori orario su appuntamento
via Grimaldi 55 – Modica (RG)
cell. +39 3392429308
Ufficio Stampa:
Rosa Carnevale
+39 339 1746312

Il Chlebnikov di Ripellino (IV)

“Io vedevo: una tigre”

Io vedevo: una tigre, seduta vicino ad un boschetto,
con un sorriso soffiava nel tronco di una zampogna.
Andavano come onde reliquie di belve
e gli sguardi sprizzavano fiamme di scherno.
E con elegante flessione del capo
le diceva una vergine elegante.
Le diceva: o tigri e leoni!
Mancate d’arte melodica.

“O citta’ mangianuvole”

O citta’ mangianuvole! che porti avanti un rogo di catene, [dal becco d’aquila!
Dove piu’ fragorosa di mille tori
mugghiava la gola di case di vetro.
Come una secchia tu afferri inesausta lo spazio celeste.
Attingeva notturne bufere nel ferrotramaglio di case,
l’abitabile vela di vetro ravvolta in edera di strade,
larga come una botte cava.
Valle di vetro, scogliere di vetro, cui s’attorceva delle strade il [luppolo.
Ancora tetra, ancora maldestra
la citta’ intera si affrettava come navi,
dove strapiombavano le nubi
da lenti occhi di corde.
Come prima andava la pianta su un bastone di verde tinta,
l’intera citta’ per lo stesso viottolo andava, -pianta di bianco [verde,-
bramando d’essere erba di vetro.
Afferrava con gli occhi la risacca delle notti in un tramaglio da [pesca.
E non ingannarono nessuno i suoi occhi diafani,
quando attraverso di loro splendeva il sole.
Il vecchio delle ferree vetrocarni
si impiglio’ come caviale di ferro
in mezzo a un fiume di libri aperti –
elastico, tenace e grande.
Il vecchio della pelliccia di vetro,
dai capelli capanna su capanna,
disteso l’alveare dei suoi riccioli,
dove il meriggio si smarri’ come pallottola,
con le vene gonfie sulla mano
gettava ferroreti
nella profondita’ notturna,
dove sono mille occhi,
pescatore ostinato,
una palla di reti dietro l’altra.
Il ragno dei ponti avviluppo’ le strade,
gettando raggi di fili tenaci.
Tu citta’ di stufe pensanti
e citta’ di mangiasuoni,
dove sono travi di tonfo,
tetti di teneri fischi,
e cena di crepuscolo e di fremito d’ali farfalliche
sulla battigia d’un marino litorale,
dove le pietre sono tempo.

“Dove si assopisce l’impossibile”

Dove si assopisce l’impossibile sui palmi dell’ammaestramento,
perche’ i liberi fiumi, vene del corpo terrestre,
li strappino alle accorte mani della tomba.
Cosi’ sottrae una madre i propri figli
alla lama di mucche infuriate.
Mescolate ogni cosa in una bevanda comune:
le parole “noi teneri!”, “amiamo!”, “ci rammarichiamo!”
e il canto della tenera foschia di un azzurro monsone
gettateli alla ghisa dalla testa taurina.
Con un serto di mughetti – la mascella d’una lupa;
con un assassino – una donzella pensosa;
coi secoli – il fruscio di lievi istanti;
e con l’ebbrezza delle viti – bicchieri di veleno;
con la brodaglia delle bestie da cortile – l’azzurro;
e il canto delle vergini – con un sordomuto dal labbro [squarciato;
al ferro aguzzo – la betulla;
e al verro – un sacro sogno, –
perche’ i due capi dei discorsi
confluiscano in un unico ruscello,
e d’un tratto si stendano, come cadaveri del tempo,
presso le travi canore d’una capanna.

e-book: Giuseppe Cornacchia traduce Paul Muldoon – la raccolta completa

Traduzioni in italiano di ventuno testi da Paul Muldoon, compiuta da Giuseppe Cornacchia negli anni 2008 e 2009.

Una consistente selezione e’ stata presentata su questo blog. Una poesia (“the eel”, l’anguilla di Montale da me riportata in italiano partendo da Muldoon) e’ apparsa su TESTO A FRONTE n.39, 2009, Marcos y Marcos. La traduzione della poesia “the stoic” e’ su TESTO A FRONTE n.44, 2011, Marcos y Marcos.

Non sono stati inseriti i testi originali in inglese per questione di diritti riservati. Un estratto di queste traduzioni e’ presente in Translations, audio libro di poesia per iOS

Pubblicate su carta a Settembre 2012 in La superpotenza, venti anni di poesie, scritti e traduzioni da G.Cornacchia e A.Rendo, ISBN 9788891027474