[Qui la prima parte; qui la seconda.]
(…) Barthes ha ragione. Lo ammetto volentieri. Credevo mi scocciasse. E invece no. Guarda un po’ come sono fatto. Riesco ancora a sorprendermi, a volte. Non sono ancora morto. Non del tutto. Un po’? Vada per un po’. Barthes ha ragione. Puoi farci tutte le considerazioni teoriche che ti pare. Puoi esemplificare, strumentalizzare in funzione di questo o quello. Puoi farci tutti i discorsi che vuoi. Ma si finisce sempre per abbandonarsi al sollievo realistico. L’oggetto rispecchiato è lì. L’immagine è la sua impronta. Se ne sta lì, per conto suo. E tu non ci sei. Se ne frega di te. E questo attrae. Pacifica. Consola. Oppure colpisce, commuove, indigna e terrorizza. Ma consola. Va’ che è strano! Il tremendo che consola. Meglio non andare a vedere perché. Non indagare. Non smuovere le acque. C’è tutta una parte di me che sono contentissimo di evitare. Preferisco non conoscermi. Ignorarmi. Già non ho una grande idea di me, figurarsi se mi conoscessi del tutto! Potrei accettarmi? Non credo. Finirei per farlo comunque? Non voglio. Ma potrebbe migliorarmi! Sì, domani. Per certe cose una buona rimozione resta la soluzione migliore. Altro che scoperchiare il vaso! Sigillarlo e buttarlo via! Ma è la nostra natura! E allora? Deve essere per forza buona? Via anche quella! Se non va bene, si cambia. Nessuna pietà. Alla peggio, si ignora. Legittima difesa. Resta la cosa. L’artificiosità del taglio dell’immagine? La costruzione interna? L’adozione consapevole o meno di schemi iconografici? Il loro ribaltamento o la loro variazione? Bello! Interessante! Ma poi basta. C’è la figura, il gesto, il bimbo, il morto. La madre! La cosa madre. Il processo di produzione pratico, tecnico e sociale? Le implicazioni economiche e politiche? Messe tra parentesi. Felicemente trascurate. Cancellate! Le intenzioni artistiche? ma non facciamo ridere! Aspetta che mi appoggio alla poltrona che mi fa male la schiena. Cos’è ‘sta storia della fotografia come arte? C’è la cosa, il mondo. Uno strumento che lo riprende. Un occhio, uno solo, una mano o due, strumenti dello strumento. Un corpo che si sposta per il mondo perché la macchina lo vuole. Che guarda il mondo come la macchina ha insegnato a vedere. E come le cose hanno richiesto a lei. Comandato, più che richiesto. Così, ecco. Guarda! Imperativo categorico. Dimentichiamo l’occhio e la mano. Tra parentesi anche loro. Stiamo solo facendo “come se”? E allora? Tanto lo facciamo in ogni caso. In un modo o nell’altro. Resta la figura. La cosa. La luce. Il paesaggio. Molto bene!
Tra parentesi. E’ il titolo del saggio su La camera chiara, e Roland Barthes di Roland Barthes, che avevo pensato di scrivere in un primo momento. L’avevo pensato e divulgato prima del libro di Bolaño, e ci avevo già rinunciato quando questo è uscito. Mi piace ancora come titolo, però. L’idea era una lettura del libro sulla fotografia usando solo, o prevalentemente, ciò che è detto nelle parentesi. Le castronerie che uno si mette in testa! Perché Barthes ne fa largo uso. Di parentesi, sia chiaro. Anch’io, nel mio piccolo. Qui non ne ho messa nemmeno una di proposito. Ce n’era una e l’ho tolta. Nel quinto paragrafo. Indovinare quale. E’ vero che molte frasi potrebbero starci benissimo. Ma non ce le ho messe. Sarò un testone! Non voglio che si capisca cosa è principale e cosa secondario. Cosa detto sul serio e cosa per ridere. Magari quelle dette sul serio sono proprio quelle che fanno più ridere. Forse non dico niente sul serio. Forse tutto. Per esempio qui. Qui cosa? Forse fa ridere tutto, ma non nel senso che volevo io. E sia. Mi ero letto sull’argomento anche dei saggi di Luca Cignetti, che me li ha gentilmente inviati. Lo ringrazio di cuore. Sono una lettura molto stimolante. Uno dice, saggi sulle parentesi e sulle proposizioni parentetiche, ma dai! E invece no. Provare per credere. Avevo preso appunti, classificato, ritagliato e combinato. Il solito bricolage. E poi mi esce ‘sta roba! Magari un giorno lo scrivo. Magari in parte lo sto scrivendo qui, come posso. Senza accorgermene. O quasi. In modo indiretto. Parlando direttamente. Direttamente! Figurarsi! Cambiando di continuo la focalizzazione. Avanti. Chissà perché mi viene in mente un’altra cosuccia che mi ero appuntato qualche mese fa. La metto qui, come tra parentesi. E’ a proposito di “avanti!”. Poi riprendo. Eccola.
“Riassunto della propria vita.
In 3 parole: Niente da dire.
In 2 parole: Dire niente.
In 1 parola: Niente.
In 1 parola, versione remix: Dire.”
Sa un po’ di Beckett, adesso che la rileggo. Non ci posso fare niente. E’ la pura verità. La verità! Mi vien da ridere. Tiro in ballo volentieri Beckett perché non ne parla più nessuno o quasi. Non è più di moda, se mai lo è stato. Sì, una volta sì. Ma per il teatro. Quanto alla prosa, sono più quelli che ce l’hanno con lui. Quel cane di Beckett! Bravo, come no? Ma non si fa così! Dove sono finite le buone maniere? Non puoi metterli tutti col culo per terra. Imbrattargli l’innocenza. Sverginarli così apertamente. Meglio dimenticare. Fare come se non ci fosse mai stato. Alé a raccontare come se niente fosse! Il mondo lo reclama. Il mondo! Il referente! Chiusa la parentesi. Avanti! Mi vien da ridere.
Eh, ma anche andare avanti non è così semplice. A volte mi scatta la molla e via! Altre, non so da che parte girarmi. Avessi un ragionamento da costruire, sarebbe diverso. Fossi capace di seguirne i fili. Il fatto è che in fondo di Barthes, insisto, mi importa meno di quanto vorrei. E sì che ci metto tutta la mia buona volontà. Di sicuro è un buon interlocutore. Bontà mia. Su questo non ci piove. Fossi io alla sua altezza. Ma sarebbe meglio, ovunque io sia, se non fossi d’accordo su così tante cose. Preferirei uno con cui fare a pugni. Prendiamo l’inizio di Roland Barthes di Roland Barthes. Il primo frammento. Vale per il “direttamente”, stavolta. “In ciò che scrive vi sono due testi. Il testo I è reattivo, mosso dall’indignazione, dalle paure, dalle riposte intenzioni, dalle piccole paranoie, dalle difese, dalle scenate. Il testo 2 è attivo, mosso dal piacere. Ma scrivendolo, correggendolo e piegandosi alla finzione dello Stile, il testo I diventa anch’esso attivo; da quel momento perde la sua pelle reattiva, che non sussiste se non a macchie…” Dopo “macchie” ci sarebbe una parentesi. Solo che io qui non posso metterla. Ne va dell’onore. Nella parentesi c’è scritto: in piccole parentesi. Niente male davvero. Sottoscrivo. Ma una volta sottoscritto, finisce lì. Dovrei continuare? Cosa? Come? Aggiungo? No. Aggiungere in certi casi fa solo danni. Allora si deve deviare, se si vuole continuare. Non lo faccio apposta. Cause di forza maggiore. Ma in quale direzione? Non troppo differente, ma nemmeno troppo simile. Se troppo vicino, si ripete. Guai! Se troppo lontano, si rischia che non c’entri. Almeno in apparenza. Preferisco. Inoltre è divertente. Saggiare qua e là. Fare qualche piccolo errore. Anche grande. Esageriamo! Errare! Ariosto. Oppure aprire una parentesi. Mettermi io, tra parentesi, per esempio. Che è sempre una buona idea. Peccato che la rispetto di rado. Va bene, mi metto tra parentesi. Ma nella parentesi ci sono. Sono fuori e dentro. Dentro la parentesi, ma anche dentro il testo da cui, mettendomi tra parentesi, mi chiamo fuori. Fingo di chiamarmi fuori. E da lì guardo, rido, commento, piango, e scalcio. Tutto, tranne stare fermo. Scalcio come in un ventre. Lo diceva anche mia mamma. Vivo nel testo e del testo come in un ventre che mi ha generato e di cui mi nutro mentre lo sto deformando. Poi me ne andrò. Forse. Ma lo avrò trasformato per sempre anche quando sembrerà tornare esattamente come prima. Come un testo da cui sono state espulse le parentesi. Cancellate. Rimosse. Sradicate. Evirate! E esso resterà in me quando mi sarò disfatto delle parentesi che mi avvolgevano. Quando crederò di vivere fuori parentesi. Amen. Continua a leggere →
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