Marsala

alla memoria di A. D.

Da Mazara del Vallo, a Marsala non s’arriva più, una strada lunga lunga lunga e provinciale scorre sopra il centro, sopra il mare; le macchine sembrano sole, gli uomini più soli, in una calura bassa e bianca.

Ciavolo, Ciavolotto, Digerbato, Scacciaiazzo, Carillume: razzi luminosi scagliati lontano, su un nastro che ritorna.

Nulla si vede, se non gente col riso sotto i baffi usa ad ascoltare. L’indicazione trattiene alla terra contro la tentazione del mare.

L’irreale espanso odor di mosto e un dogue de Bordeaux tale quale al padrone, la noia del lavoro e della guardia e la laboriosità informe di un popolo stretto al presente, ubriaco di passato.

I resti ribollono.

Francesco Lauretta – ‘L’infanzia assoluta’ (1 ottobre – 13 novembre)

 

Francesco Lauretta, Gli anni luce, 2010, olio su tela, cm 140 x 96, dettaglio

 


intervento audio di Diego Dall’Osto
testo di Cristina Grazioli

1 ottobre – 13 novembre 2010
inaugurazione: giovedì 30 settembre 2010, ore 18.00 – 24.00


Giovedì 30 settembre 2010 inaugura alla galleria DAC un progetto speciale di Francesco Lauretta intitolato “L’infanzia assoluta”. Partendo dall’idea di una mostra personale negli spazi genovesi, l’artista (nato a Ispica nel 1964, vive e lavora a Firenze) ha sviluppato un progetto site specific articolato e in collaborazione con due figure di spicco della cultura contemporanea, il compositore Diego Dall’Osto e la storica del teatro Cristina Grazioli.
La mostra personale si presenta dunque come una grande installazione ambientale che coinvolge tutte le sale della galleria: solamente due grandi dipinti dell’artista siciliano e un intervento sonoro di Diego Dall’Osto appositamente realizzato per l’occasione.
I due oli di Lauretta, uno per stanza, sono come squarci colorati nell’intonaco bianco della galleria. Gli anni luce, collocato in un angolo della sala, come fosse riposto in una nicchia, rappresenta un bambino intento a realizzare una decorazione votiva, i colori sono scuri, la luce ferma e distesa; Vis(t)i senza ossa, al centro della parete di fronte all’ingresso dell’altra stanza, appare invece come un’ampia finestra, protagonista un piccolo gruppo di bambini all’angolo di una strada con una corona di pane per la festività, i colori sono radiosi, la luce chiara. Quasi uno l’opposto dell’altro, sono dipinti pieni di meraviglia, forza e certezza, immagini essenziali nella loro composizione, ricche di dettagli e allo stesso modo estremamente concise.
Delle diverse impressioni che offre un tema ampio come quello dell’infanzia, l’artista sceglie di indagare quello positivo, magico, non aggredibile. Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi (David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani).
L’infanzia quale dimensione assoluta di libertà e incanto, senza condizioni, senza eccezioni, senza tempo.
Grazie all’intervento audio di Dall’Osto la mostra diventa esperienza percettiva assoluta. Il suono si diffonde ovunque, corre sui muri, echeggia tra un ambiente e l’altro, prende corpo nello spazio espositivo, si fa volume, scultura, architettura; avvolge completamente il visitatore annullando la distanza tra esecutore e ascoltatore, tra artista e spettatore.
Il progetto, inoltre, sarà corredato da un testo di Cristina Grazioli che apporterà ulteriori stimoli di riflessione all’installazione, parole che “si poseranno sul mio progetto come la ciliegina sulla torta” – Francesco Lauretta.
La galleria DAC inaugura nell’ambito di START, opening collettivo delle gallerie d’arte moderna e contemporanea del centro di Genova (www.genovastart.com).


FRANCESCO LAURETTA
Nato a Ispica (RG) nel 1964. Vive e lavora a Firenze.
Mostre personali recenti
2010 Guarda avanti, e tutto ciò che ami svanirà, Galleria La Veronica, Modica; 2009 Lacrimogeni, Allegretti Contemporanea, Torino. 2008 Wherever, centro ricreativo di quartiere, Galleria La Veronica, Modica. 2007 Privato, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano. 2005 Non saremo noi, C/O Care Of, Milano; Finisterre, Palazzo Bricherasio, Torino; Bubble Gum, Galleria Carbone.to, Torino. 2004 Le metafisiche, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano
Mostre collettive recenti
2010 Orde di segnatori, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano. 2009 Love Me Fender, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Bologna. 2008 XIII Biennale d’Arte Sacra Contemporanea, Museo Stauros, Santuario di S. Gabriele, Teramo; Questo mondo è fantastico. Vent’anni con Guido Carbone, Palazzo Bricherasio, Torino

DIEGO DALL’OSTO
Nato a Roma nel 1961. Vive e lavora a Barcellona.
Compositore di musica contemporanea. Suoi lavori sono stati eseguiti in rassegne e festival internazionali quali: Festival Antidogma, Torino; Musica oggi, Vicenza e Thiene; Di nuovo…, Reggio Emilia; Computer Art Festival, Padova; Ferienkurse fur Neue Musik, Darmstadt; Festival Spazio Musica, Cagliari; a Venezia la Biennale, il teatro La Fenice, Fondazione Cini; MusicaOggi, Società per la musica nuova, Praga; il Festival de musica electronica italiana, Madrid, Festival de musica electroacustica, Rosario (Argentina).Ha scritto musiche per la danza che sono state eseguite in importanti teatri (Teatro Olimpico di Vicenza, Teatro Alcione di Verona, Teatro Valle di Roma, Baadisches Staatstheater di Karlsruhe, Göteborg Opera House, Festival El Grec a Barcellona, Royal Opera House Covent Garden, Frankfurt Ballet, Lucent Teather di Amsterdam, Teatro de la Zarzuela di Madrid, Teatro di Anversa, Det Kongelige Teater Kopenhagen, Stadttheater di Berna, Aspen SantaFe Ballet – USA, North Carolina Dance Theater – USA, …)

CRISTINA GRAZIOLI
Nata a Vicenza nel 1964. Vive e lavora a Padova.
Insegna Storia del teatro e dello spettacolo al Dams dell’Università di Padova. Collabora con diverse riviste specialistiche, italiane e straniere, e dirige l’équipe di ricerca dell’archivio informatico Herla della Fondazione Umberto Artioli di Mantova. Ha curato, con lo stesso Artioli, gli Scritti sul teatro di Rilke (Milano 1995), Il sistema dei ruoli nel teatro tedesco del Settecento di B. Diebold (Firenze 2002) e I Gonzaga e l’Impero. Itinerari dello spettacolo (Firenze 2005). È autrice di Lo specchio grottesco. Marionette e automi nel teatro tedesco del primo ’900 (Padova 1999).


DAC De Simoni Arte Contemporanea
piazzetta Barisone 2r, Genova
tel. +39 010 859 22 83

e-book: Giuseppe Cornacchia traduce John Koethe – il file completo

Giuseppe Cornacchia

nel parco che nessuno vuole visitare

traduzione di quattro poesie lunghe di John Koethe:
Boy’s life, 1968
Domes, 1973
The Late Wisconsin Spring, 1984
North Point North, 2003

gli originali non sono riportati per questioni di diritti sui testi in lingua inglese; i diritti su questi in lingua italiana appartengono a Giuseppe Cornacchia, 2010

Un estratto di queste traduzioni e’ inserito in Translations, audio libro di poesia per iOS

Pubblicate su carta a Settembre 2012 in La superpotenza, venti anni di poesie, scritti e traduzioni da G.Cornacchia e A.Rendo, ISBN 9788891027474

La medietà a buon mercato

Angelo Rendo, La medietà, Nuova Editrice Magenta, Varese 2004, pp. 143, euro 13.

[Vendo ultime copie de “La medietà”; chi volesse acquistarne una, può scrivere al seguente indirizzo mail: angelorendo@gmail.com

Prezzo: 9 euro, spese di spedizione incluse]

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Sotto, il risvolto di copertina e  le due recensioni al testo e la parte conclusiva di un saggio: la prima, apparsa su “Atelier” (marzo 2005), a firma di Stefano Guglielmin, ora contenuta in “Senza riparo. Poesia e finitezza”, La Vita Felice, Milano 2009; la seconda, ad opera di Giampiero Marano, pubblicata su “Poesia” (giugno 2005); la terza in Il regime della visibilità e la “poesia-problema” (L’Ulisse, Absolute Poetry, Nazione Indiana), sempre per mano di Marano.

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La poesia di Angelo Rendo, non è una poesia facile, né una poesia generazionale, ma un percorso autonomo. Il testo, corto, denso, sconvolgente per la grande intuizione dei significati poetici, proviene da un habitat dove l’io preme verso il suo annullamento, si estrania nell’oggettività pura della parola, diventa fondo, essenza, enigma.

E questa è la vera, sorprendente scoperta che farete in questo libro. Unica, ineffabile, a volte indecifrabile, la poesia di Angelo è solo apparentemente decentrata, in realtà vi è un arbitro sempre vigile e attento, al centro della pagina, dove la tentazione biografica è l’agguato mortale, inevitabile, per l’ossatura di un discorso poetico nuovo e riconoscibile.

La parola coincide con il frutto nelle sue forme biologiche fino a comprenderne il gusto tra buccia e polpa, o nella dolce velenosità del seme.

Del resto, l’ambiguità del titolo rimarca questa oscillazione tra la condizione di chi sta nel mezzo e chi continuamente deve scegliere tra l’esperienza della tradizione letteraria e l’innovazione della parola duttile, che si fa scavo “nell’estasi dormiente /…/ e non senti / e forse tiene un rosario in mano / la giustezza che c’aprirà”.

Dunque parola nuova, radicale, metafisica che agita il mare della poesia contemporanea, con l’autorevolezza di chi sa portare agli estremi della ricerca gli strumenti della versificazione.

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Raramente un’opera prima sa fondere l’urgenza biografica nel solido di una scrittura essenziale, smussata intorno alla forma-periodo e venuta a galla perfettamente asciutta dopo aver attraversato il diluvio dell’interiorità. La medietà, in effetti, mostra l’impossibilità della confessione in senso rousseauiano, quel raccontare di sé per rigenerarsi attraverso l’opera, che fu la scommessa (perduta) del filosofo ginevrino; Angelo Rendo, al contrario, mostra la degenerazione dell’identità colta sulla superficie alchemica della lingua e lo fa da spettatore disincantato, che ripercorre il vissuto di un io “sanusanu”, ossia ingenuo, vittima d’un mondo inattendibile. Questo io-terza-persona, a cui Rendo presta la voce, grida il proprio desiderio di “parola chiara”, trasparente a sé e agli altri, pur sapendo che “angelo è il suo contrario” (p.34) e quindi scrive “fuori/ dalla significazione” (p.129), abbondando in ellissi e reticenze, e vive dominato dall’olfatto (senso animale per eccellenza) che si fa “vista” (p.30), “sigillo” capace di inglobare, mutandola in carne, l’identità. Tutto questo gioco di rimandi tra io narrante, autore e scrittura ricorda l’idea lacaniana della forza autre del linguaggio, che si dà al soggetto (similmente all’es gibt heideggeriano) decentrandolo, collocandolo a lato del suo stesso progetto poetico. E ciò inevitabilmente, giacché, appunto, la lingua si parla, parla sé in un’eccedenza che mai collima con l’identità del parlante. Preso, ma non irretito, in questo vortice senza centro, il poeta lascia i suoi fluidi alla lingua e poi li condensa, li cesella, per nascondere il malessere che traspare; ma anche, al tempo stesso, si vieta che la censura diventi assoluta, rimarcando, all’io sciolto nel suo monologo, una vaga inadeguatezza sostenuta però con orgoglio, a ribadire l’autenticità del sentire. In questo movimento prismatico – nel quale trovano fra l’altro collocazione sia l’esperienza amorosa, decostruita dall’interno al punto da essere quasi irriconoscibile (cfr. il capitolo “Il fatto interno”) e sia la prosaicità quotidiana (“apro il frigo e freddo contro/ il petto dentro c’è, il cuore/ e, con le spighe, il grano e/ la saponata, dopodiché, sul viso:/ è mattino e devo/ andare a lavorare.”, p.85) – si gioca la poesia di Angelo Rendo, la cui eticità si mostra anzitutto nell’uso di verbi ruvidi, dal forte impatto materico, e sintagmi che rinviano alla fatica e al dolore “dell’aperta campagna”, come recita l’ultima poesia del libro, secondo gli stilemi della migliore letteratura siciliana, da Verga a Sciascia a D’Arrigo. Alcuni esempi: “un volo scaricato”, “la linfa avvitata alle spalle”, “sarai remato”, “svitai l’osso del collo”, fino all’incipit “io: mi deturpo papà” (p.87), che apre la più profonda lacerazione del libro, quasi una confessione alla Rousseau subito glissata, per pudore, verso l’idioletto, in un versificare dove l’io parlante e l’io parlato s’intrecciano per spiazzare il lettore e distoglierlo da quella piaga personale, che tuttavia non scompare nei testi successivi, mescolandosi invece a considerazioni fattuali (“e tutto fugge sul più bello/ via via e lascialo stare”, p.91), ad incomprensioni amorose (“mi suona la carica e scappa/ si fascia la testa dipinge/ le labbra mi cadono/ lo scopo resta, ai piedi”, p.92), fino a fondersi con l’impossibilità dell’anamnesi (e dunque, appunto, della confessione): “se fosse inenarrabile l’atto”, si chiede l’autore, tentando quasi di giustificare filosoficamente le incompiutezze precedenti, e comunicando invece al lettore quella “medietà ansiosa” che attraversa il libro sin dai primi versi, nei quali l’umana salvezza è cercata circuendo “i sensi”, così da sottometterli alla ragione (p.11).

Un libro dunque complesso, questo di Angelo Rendo, stratificato, che tiene insieme scontrosità e apertura, diffidenza per i saperi costituiti ma anche desiderio di rifondarli, in una miscela esplosiva che diventa cifra stilistica ed etica nel contempo, esercizio della finitezza che si mette in gioco fino in fondo.

Stefano Guglielmin

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Da tempo alcuni fra i più lucidi esponenti della “generazione dell’Ottantanove” (cioè quella dei poeti nati negli anni Settanta, formatasi nell’epoca del crollo del comunismo e forse dell’esaurimento dell’intero ciclo moderno, a cui ha potuto assistere letteralmente in presa diretta) lavorano a una coerente, profonda ricerca che ha ormai anche un nome antico e suggestivo: trobar clus. Mi riferisco in particolare ad autori come Sannelli e Giovenale, nei cui testi appare evidente la volontà di sottrarsi all’egemonia della poesia “chiara” che, affermatasi (a partire dagli anni Ottanta, e dopo lunga incubazione) con il legittimo desiderio di rivalutare la dimensione del tempo e della comunità, non ha mantenuto nessun equilibrio dinamico tra la parola e la res ma si è pericolosamente sbilanciata a favore dell’ultima di queste entrambe indispensabili polarità. Alla promessa di conciliazione implicita nel trobar clus si rifà anche, come già evidenzia il titolo, La medietà dell’esordiente Angelo Rendo, siciliano del ‘76. Nella poesia-problema di Rendo il forte richiamo alla tradizione non si presenta tanto come accidente della forma (ciò che a volte avviene nella poesia degli anni Novanta) quanto nei termini di una realtà sostanziale: e allora l’espressione più riconoscibile di tale rapporto è l’etica, lo stile antagonista che si oppone al mito della leggibilità, all’annullamento della polisemia, alla trasparenza che ignora il conflitto, la tragedia. Questa responsabilità investe l’autore integralmente, chiamandolo addirittura per nome («ci vuole una parola chiara / ed angelo è il suo contrario»), gli impone di scegliere e di schierarsi contro la compiutezza, ben disciplinata ma priva di fughe prospettiche, così caratteristica della parola-immagine: «resto a turbinare fuori / dalla significazione, mi sconsolo / lucido quel che c’è da lucidare / chiamo il fresco a riposare / il pesce a puzzarmi / negli interstizi, fra i denti»». La pars construens viene invece rappresentata dal fluire, ancora piuttosto acerbo nonostante l’auspicabile anelito alla forma («leccare il seme, farsi / pianta»), di un’energia che veicola la tragica «decisione di non essere indulgenti» cara a Milo De Angelis: «perché non sondiamo l’eroe, / il governo esploso?», si chiede infatti Rendo. A una così impegnativa interrogazione corrisponde non un movimento di esplorazione/aggressione indirizzato verso l’esterno ma il tentativo di sondare l’altro e l’interiore, di scoprire dentro sé «come il tuo corpo contiene tuo / fratello, accucciato nell’estasi / dormiente, che ti fa scavo e / non senti…» (immagine di derivazione sapienziale che, a parte l’evidente diversità di registro, può essere utilmente confrontata con un testo di Magrelli da Nature e venature: «Una scissura, / la stessa che riga le forme / stampate nella plastica, / divide me in due versanti (…) Anche in certe condanne / il vivo veniva legato a un cadavere») – un proposito, questo, che conduce la poesia di Rendo fino alle soglie del silenzio in un tempo sospeso e circolare, «fermo fermo». Ne deriva un’occupazione dello spazio letterario coraggiosamente apodittica e antinarrativa («dal volere, trarre, del sapere / l’annuire: un gesto e tramonto»), sempre in bilico tra il nulla e la rappresentazione, quindi del tutto analoga sotto questo aspetto alla dialettica visionaria “moto”-“quiete” tipica di Dino Campana: «come il miraggio ruppe il ritmo, / lo riconsacrò, il ritmo, venne / compiuta la stasi», scrive Rendo, rievocando peraltro gli “spazi metrici” sonori di Amelia Rosselli. Proprio per questa via, attraverso la riscoperta della musica della parola non parafrasabile, la gaia arte della medietà può dire di sì alla poesia, alla vita: «che si possa / che simile sapere / sciolga ritmi, / emicicli in testa».

Giampiero Marano

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6. Angelo Rendo

La medietà (34), opera prima di Angelo Rendo, chiama espressamente in causa la responsabilità antagonista del trobar clus: «ci vuole una parola chiara / ed angelo è il suo contrario». Contro i miti dell’alta definizione e della comunicazione, contro la perspicuità disciplinata e senza sbavature della parola-immagine, Rendo si affida a un’eresia promiscua e da sempre incompiuta: «resto a turbinare fuori / dalla significazione, mi sconsolo / lucido quel che c’è da lucidare / chiamo il fresco a riposare / il pesce a puzzarmi / negli interstizi, fra i denti». Mentre i codici comportamentali della cultura contemporanea impongono il volo a bassa quota, un’energia d’urto che ricorda per certi effetti dirompenti l’”esordire” di Antonio Moresco chiede alla poesia l’assunzione di un ruolo tragico, autoriale, generativo e non neutralmente testimoniale: «perché non sondiamo l’eroe, / il governo esploso?» (35). L’aggressività e gli eccessi intemperanti del gai saber («bastare», cioè rimanere giudiziosamente entro i confini prestabiliti dai poteri politico-culturali, «sarebbe come credersi in empio / disegno») trovano completamento nell’interferenza di un vedere metafisico (ma nell’accezione non dualistica conferita al termine da Artaud) che consente a Rendo di raggiungere appunto la medietà: allora è proprio in questa chiave che possono essere letti i riferimenti al doppio che ci abita osservandoci in silenzio («come il tuo corpo contiene tuo / fratello, accucciato nell’estasi / dormiente, che ti fa scavo e / non senti…»), all’illusorietà del tempo fluente in uno spazio «fermo fermo», alla sola parmenidea realtà della stasi «compiuta».

Giampiero Marano

Viaggio in Salento – di Stefano Ferreri

I miei ultimi viaggi in Salento non sono state vacanze, sono state ricerche. Ritorni a casa, esplorazioni di un piano forse insondabile che è logico chiamare origini. Anni e anni di ferie ad oltranza, spensierate quanto prive di vera consapevolezza, non mi hanno mai permesso di andare al di là di una generica superficie umana e culturale, di un folklorismo buono al più per il turista occasionale e senza legami nei confronti di una terra sempre vampirizzata ed in fondo mal vissuta. Mancavo da tre anni, ma devo ammettere che quest’assenza è stata degnamente ripagata. Mi ha accolto un clima benevolo in tutti i sensi, senza il fastidio di una fugace velatura al sole, senza il classico tormento dell’afa africana, ad anni luce di distanza – ma questo era scontato – dall’avvelenante frenesia universale della grande città. E poi il mare, che quest’anno ha rasentato la perfezione: sempre placido, sempre cristallino, senza meduse, senza inconvenienti di sorta. Una tavola azzurra adagiata sugli scogli alti della litoranea neretina. Con buona pace di chi ama le spiagge (e non parlo degli immondezzai liguri o romagnoli), io ho accuratamente evitato di addentrarmici, se si eccettua una puntata in quel di Torre Colimena, provincia di Taranto, pianificata però con intenti da “fine contemplativo”, spendendo buona parte del tempo nella visita ad un’enorme salina e nella passeggiata in un villaggio di pescatori che sembra fermo a cinquant’anni fa (e mi ha ricordato remoti angoli della Grecia meno devastata dal turismo). A parte il piacere inarrivabile del godersi il mare, l’intenzione fondamentale – direi quasi l’imperativo – è stata quella di fare miei svariati frammenti di autenticità salentina, in qualsiasi ambito mi si presentassero, a patto di evitare come la peste quella convenzionalità farlocca che l’industria turistica ha costruito pezzo dopo pezzo in oltre quindici anni di scellerata campagna promozionale, propinando agli ignari villeggianti un prodotto più che un territorio, un luogo comune invece che un luogo reale, un macchiettismo da cartolina che non è meno preconfezionato delle orecchiette vendute in pacco regalo direttamente con i cocci di ceramica decorata. Bandite le false facilitazioni per non finire subito fuori strada, bandita la falsa veracità bastarda che di originale non conserva più nulla, nemmeno l’involucro. Rispetto agli anni passati ho provato a vivere maggiormente il posto addentrandomi nei paesi, quelli fuori dagli itinerari scontati e dagli opuscoli dei settimanali, quelli dell’interno. Non che non l’avessi mai fatto ma questa volta si è trattato di una scelta fortemente voluta più che di una collezione di coincidenze. Per poter tradurre in qualcosa di concreto questo mio desiderio ho puntato ad un affinamento emotivo, direi quasi spirituale, provando ad immergermi nello spirito del posto, nella sua anima più primitiva e resistente alle contaminazioni unilaterali, quelle che impoveriscono anziché arricchire, per catturarne almeno qualche bagliore di riflesso. Musica e feste di tradizione popolare sono stati i miei campi di battaglia, un po’ come in passato ma con molto più costrutto. Posso allora lasciare la testimonianza di un evento fragoroso cui ho avuto la fortuna di presenziare, la lunga notte dedicata a San Rocco, tra il 15 ed il 16 Agosto, in quel di Torrepaduli, frazione di Ruffano. Di ciò di cui ero in cerca qui si è colta l’essenza in tutta la sua asprezza, resa dal suono regolare, ossessivo ed ipnotico, di centinaia di tamburelli suonati fino alle prime luci dell’alba dai vecchi come dai bambini, scandendo un ritmo di frastornante follia per accompagnare danze e rituali di corteggiamento che da secoli si rinnovano immutati. Grandi cerchi occasionali di suonatori, le ronde (quelle buone), creatisi dal nulla per dare sfogo a nuovi cerimoniali danzanti, simulando il gioco della vita con la giusta miscela di seduzione e morte, in linea con i precetti della cultura greca e nella forma attualmente più pura di tarantismo. Dare un suono alle pulsioni elementari per esorcizzarne la potenza distruttiva, chiuderle in una rappresentazione che è forse troppo difficile da raccontare. Un po’ come la danza delle spade (la pizzica scherma, un tempo non mimata ma eseguita con veri coltelli) che ha preso vita intorno alle tre di notte con analoga spontaneità nel piazzale antistante il santuario, ancora più curiosa, animata ed indescrivibile: una via di mezzo tra un ballo ritmato ed un gioco, con la competizione però lasciata da parte in nome di un fenomenale spirito di fratellanza tra i partecipanti. Da un secolo sentivo parlare di queste cose e di Torrepaduli, finalmente ne sono stato testimone. Non c’è dubbio che l’impatto sia forte ed è innegabile come la più genuina radice di queste usanze si sia mantenuta, almeno nelle linee generali. Spiace invece constatare come l’evento non sia sfuggito alle logiche ed al richiamo della massa, pur limitati in sostanza ad una dimensione localistica (pochi gli accenti non salentini uditi), con decine di migliaia di presenze (sciami di “mazzari” del posto e orde di alternativi da strapazzo le categorie più odiose, le stesse che infestano l’ormai prescindibile concertine di Melpignano) ed un mostruoso carrozzone commerciale a base di porchettari, venditori di ciarpame religioso (con punte kitsch sublimi ed una varietà di articoli strabordante, va detto) e giostrai di tutte le fogge. Ancora una volta la pubblicità che fa solo danni, per una manifestazione oggi meno affascinante di come doveva apparire solo pochi anni fa ma, va beh, si prende l’intero lotto e amen. Considerando il buio assoluto nelle distese di ulivi attorno a Ruffano, con la possibilità di ammirare il cielo stellato come in poche altre parti d’Italia, è facile ammettere che i pro siano ancora largamente superiori ai contro.
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Elio Grazioli su Francesco Lauretta

[Inizia settembre, Cornacchia ritorna sui suoi passi e resta dormiente in Nabanassar; il teologo Vito Mancuso, invece, si illumina tutto ad un tratto e lascia Segrate; noi pubblichiamo il testo integrale di Elio Grazioli su Francesco Lauretta, per gentile concessione. A. R.]

 


 

‘Ex stasis’

Questo è lo stato dell’arte oggi, per Francesco Lauretta: stiamo per chiudere, affrettatevi ad uscire! I visitatori lo trovano detto esplicitamente alla fine del percorso della mostra, scritto al neon: “Uscite, uscite, stiamo chiudendo!”.

Altri artisti della sua generazione sembrano condividere e lanciare un messaggio simile: la festa è finita, è come se fossimo arrivati in ritardo, quando la stanza è ormai in disordine e sono rimasti solo gli ultimi ospiti malinconici; qualcuno forse guarda la televisione, qualcuno ancora discute di qualcosa, parlando o troppo sommessamente o, al contrario, alzando la voce, probabilmente perché non ricorda più da dove era partito; un paio di persone scambiano sornione battute d’intesa sulla porta, rinnovando promesse che si sono scambiate durante la serata.

Anche in letteratura e in musica si respira spesso un’aria del genere. Francesco me ne segnala appena può, e io mi affretto a leggerla e a sentirla, sicuro della sua acutezza, perché sono un po’ il suo testo e la sua colonna sonora. È un punto anzi che credo vada sottolineato, non solo perché contestualizza la sua opera e la sua sensibilità, ma perché mi pare indispensabile per distinguere la sua pittura da altra che si continua a fare, più formalistica o euforica o incosciente. Qui si tratta di altro, innanzitutto di una tonalità completamente diversa, di un’intelligenza tesa e concentrata che, invece che accanirsi sulla novità o sull’icona, si guarda intorno, nella stanza della festa agli sgoccioli, e riflette con fare poetico su ciò che vede. Guarda non con distacco ma sì un poco da fuori, come uno appunto arrivato a cose ampiamente avanzate e che vive l’imbarazzo di inserirsi nei discorsi altrui. Questo gli permette di pensare e di dire altro, nel momento in cui si inserisce. È l’importanza di questo che non è solo un “tono”, un “atteggiamento”. Quest’arte, letteratura, musica, carica di senso tutto quanto ha a disposizione, che usa con grande senso di responsabilità, non con specificità né con presunzione di rispecchiamento, bensì con penetrazione e partecipazione, cercando aspetti inediti dei temi che affronta, facendo risuonare metafore diverse, cercando timbri nuovi, rispondenti alla visione delle cose.

Certo la visione non è per niente ottimistica, questo è evidente. Ma non è introvertita, anzi è un appello, non un retorica speranza, ma una ricerca vera e appassionata. Il tono di malinconia non deriva né dalla rinuncia né dalla costernazione critica, piuttosto dall’amarezza per lo spettacolo – in tutti i sensi! – che si staglia davanti agli occhi e per il timore della rassegnazione altrui. La situazione, vorrei dire, è un po’ quella che Walter Benjamin ha chiamato della “obsolescenza”: nel momento in cui qualcosa – qui un medium, come si usa dire oggi – ma non solo, la condizione generale stessa –, sembra o è alla fine del suo percorso storico, perché sostituito da un altro più avanzato, dicevamo, ha una sorta di colpo di coda e finisce con il prefigurare qualcosa che va addirittura al di là, oltre ciò che lo sostituisce. Benjamin ha esemplificato questa idea ricordando il diorama, sostituito dalla fotografia e che però prefigurava in realtà già il cinema. Lauretta sembra cercare nella pittura questa possibilità, la prefigurazione di qualcosa che vada al di là di ciò che la sta per molti aspetti sostituendo. Ma, dicevo, non solo per quel che riguarda il medium, per la pittura, ma anche per la sensibilità e per i contenuti.

Ciò  che qui importa soprattutto è che questo modo di intendere guarda avanti invece che indietro, non è nostalgico ma proteso nella ricerca. D’altro canto questa pittura di Lauretta non si riallaccia a quella che fa i conti con la fotografia, ma è fotografica e iperrealistica nel senso piuttosto di Jean Baudrillard, cioè della sparizione non del mondo che ritrae ma di noi nel mondo, immagine squillante della realtà che fa a meno di noi. Ha questo senso il finire della festa, Baudrillard direbbe dell’“orgia”, di cui si diceva sopra. Ma, Baudrillard a parte, l’iperrealtà di Lauretta è altra cosa ancora, che tiene enigmaticamente insieme passato e futuro, veramente con un “suono” diverso e inconfondibile. Per spiegarlo in qualche modo mi viene in mente l’idea di Roland Barthes di “futuro anteriore”, di immagine di memoria in cui vediamo già ciò che avverrà in seguito, come nel volto del bambino l’adulto che sarà, ma in maniera più estraniante, cioè più nella direzione di quell’“impazzire per la pietà” e quell’“estasi fotografica” che Barthes descrive subito dopo. Ogni immagine dovrebbe catturarci al punto da turbarci, non come un ricordo di qualcosa che abbiamo vissuto ma piuttosto come un déjà-vu, ritorno di qualcosa che non abbiamo vissuto e che ci si presenta come presagio di qualcosa che verrà. La “follia”, l’“estasi” sono allora la manifestazione commossa di fronte a questa smagliatura nel tempo, a questo nodo di passato e futuro.

Io credo che questo effetto i dipinti di Lauretta lo ottengano attraverso il particolare contrasto che li caratterizza tra la lusinga iperreale della figurazione, del colore, dell’immagine ben decifrabile, e qualcosa che ogni volta è strano, fuori fase – potrei azzardare il gioco di parole: qualcosa che torna (nel senso che ho detto, quando non addirittura del rimosso) proprio perché non torna (nel conto della normalità) –, una distorsione della figura, un’acidità dei colori, un dettaglio, una sovradeterminazione, una metafora; ma anche, appunto, tra la seduzione della pittura e qualcosa che la disturba, la distrae, un neon, un oggetto, una particolare installazione, talvolta perfino un essere vivente…

Torniamo dunque alla nostra mostra: a ricevere i visitatori c’è dunque significativamente una gabbia, vuota. Doveva contenere un gallo da combattimento, di quelli sgargianti nei colori delle sue penne e aggressivi, cresciuti per la lotta: metafora efficace dell’artista, e forse anche della pittura stessa. Ma ora dov’è? Il doppio senso del titolo aiuta a comprendere: Ex stasis, assenza e estasi insieme, stasi e movimento insieme.

Intanto resta una gabbia, metafora non meno efficace, che, come sappiamo già per averlo anticipato, cortocircuiterà, illuminandosi così di luce diversa, con la scritta del neon finale: “Uscite, uscite…”. A chi si rivolge infatti quell’ingiunzione? Resta, dicevo, la gabbia come un oggetto, una scultura, molto disegnato, dalle forme geometriche e pulite che fanno un po’ il verso a uno stile che non appartiene a Lauretta, il minimalismo, che contrasta e “stona”, stride, con il resto della mostra. È un ulteriore modo per evidenziare il vuoto lasciato dal gallo. Ma ecco poi lì accanto, in pittura, qualcosa che lo può richiamare, ma ormai trasformato in pollo arrosto: destino crudele. Succulento pollo arrosto, con tanto di contorno di patate, ma i colori insospettiscono, il pollo ha riflessi inquietanti, le patate hanno toni verdi da putrefazione. Ah, la carne è debole e caduca! la morte sempre in agguato! L’estasi è solo dello spirito. Il titolo del quadro, Come una forma di pane, è al solito estremamente allusivo, volendo tenere insieme gli opposti: il rimando al pane introduce un che di festa, di semplicità e di veridicità, ma anche di rito, cui rimanda forse il doppio senso della parola “forma”.

Il quadro centrale, il quadro grande della mostra è appunto uno di quelli con una processione tipica delle feste religiose siciliane, come Lauretta ne ha già dipinte in altre occasioni. Questa volta però il momento fissato – fotograficamente, nel senso indicato sopra – è quello del cedimento, del crollo di alcuni portatori che rovinano sotto il peso del baldacchino che sta per cadergli addosso: una festa che finisce male, una caduta che è immagine dei nostri tempi. Come un vaso rotto, dice il titolo, e poiché la scena è inequivocabile, a me piace riportare allora la metafora al medium: è la pittura che è qui come un vaso rotto, non un medium rivendicato per la sua integrità, ma a sua volta in fase di caduta, di obsolescenza, dicevamo.

Ma anche la caduta più rovinosa, la rottura più incombente, non sono assolute. Per citare ancora Benjamin, e coniugarlo anche stavolta a Barthes, raccogliamo il loro monito: ogni immagine andrebbe considerata nel modo di un ricordo che si presenta improvvisamente nel momento del pericolo. O per dirla in altro modo, si ricordi che “apocalisse”, oltre a indicare la massima tragedia finale, significa anche rivelazione – apo-kalypsis –, svelamento.

E’ forse quello a cui allude il ritratto che costituisce l’altro quadro della stanza, una sorta di centro eccentrico dell’esposizione: grottesco ma lucente, dal titolo luminoso e illuminante: Lo splendore portato come un mantello. È un volto che evoca una storia, una vita, un’umanità che potremmo dire d’altri momenti, se non d’altri tempi. È una persona ora scomparsa, una persona cara a Lauretta, ma che resta anonima per noi, cioè propriamente il volto della storia che resta sconosciuta, anonima, dimenticata, la storia dei vinti, come si diceva una volta, dei senza storia. A restituirgli una individualità, una peculiarità, paradossalmente è la deformazione cui il volto viene sottoposto, la smorfia che assume e che lo rende diverso e riconoscibile.

Se egli è  l’individuo, l’indivisibile, la visione di un cimitero di lapidi segnate con soli numeri chiude la mostra appena prima che la scritta al neon ci ingiunga di uscire al più presto. Questi sono, come dice il titolo, I precipitati, quelli caduti sotto il baldacchino, quelli rimasti senza nome. È un’immagine desolante ma avvincente al tempo stesso, fatta di pietre e di fiori, di anonimato e di poesia. È il cimitero di Ispica, il paese natale di Lauretta: nascita e morte dunque cooptate insieme nell’immagine. È tutto un omaggio accorato e amaro alla sua terra di origine questa mostra.

Dunque, infine, si chiude, ma che cosa veramente? Il cimitero? la storia? la mostra? la pittura? Decida ciascuno, ma in ogni caso ci si affretti, non si indugi. (Vedete, anche quest’ultima “opera”, apparentemente ingiuntiva e allarmista, contiene invece un invito, una chiamata e un incitamento: Forza, uscite, non lasciatevi chiudere dentro, non lasciatevi sopraffare).

Elio Grazioli