Al fondo c’è la gaffe – Angelo Rendo

Non ci vuole niente
quel poco che basta
a se stessi.

Ogni grande interno
spoglia e niente
dice.

A me non interessava affatto tenere a mente l’altro; una forza indissociabile dal pensiero mi riempiva. E se si crede che l’estensione del giusto e del bello a campi di memoria indifferenziata debba avere la meglio su questo torrido pianeta nero, di certo si tratta di errore.

Sempre meno e sempre tu
al più che io possa.

Le lamentazioni, quelle grasse
e cucite pance teoriche.

Franzen è uno scrittore rabbioso e saputo e bacchettone, troppo preoccupato di cosa gli altri pensino di lui. E pensa a Bloom e teme Pynchon e ammira il padre ma vuole superarlo. Sta col metro sempre aperto da adolescente; quando scrive di Updike e della sua [di Updike] scrittura regolare come una cacata quotidiana, vado in bagno.

Pe quale motivo la finitezza ci spinge a far piccolo tutto ciò che ci è prossimo, finanche questo mozzicone di sigaretta vicino al mio piede?

Quando leggo teatro mi accade che tutte le voci si mescolino e non importi più chi parla. Parlo io.

È chiuso da un coperchio, che nella parte interna ha uno specchio, in una bara chi dà consigli o pratica poetiche.

Al fondo c’è la gaffe.

Libri – Angelo Rendo

Quando mi trovo a osservare i libri della mia libreria, non immagino mai di vedere, mi piace stare a guardarli da lontano, sentirne tutto il peso e grandezza, leggerne i bei titoli, e dirmi vedi un po’. E anche se su una fila è appoggiata una giacca a vento blu mal raggomitolata e mezza pendente da molti mesi e sparsa sugli altri ripiani c’è molta polvere, nell’unica colonna, qui, nel gabbiotto di cemento armato, e anche se la visione non è proprio libera per chi sta di fronte a causa di due estintori rossi che murano un ripiano e mezzo, sono libri. Un sovrappiù dell’umanità ficcato in un sac à poche sfuggito di mano.

Lampo imaginale – Angelo Rendo

Ho finito di leggere una recensione a ‘Paura reverenza terrore’, l’ultimo saggio di Carlo Ginzburg. E mi ha preso un lampo imaginale.
Primi anni del 2000, Pisa, mi dirigo alla stazione per andare chissà dove.
Sotto le logge di viale Gramsci mi imbatto in Ginzburg e Adriano Sofri. Il primo in talare rosso ponsò e galero è tutto orecchi per il secondo in clergyman e collarino bianco, ciondolante e stanco. Mi faccio il segno della croce.

Quattro poesie di Charles Simic da “Hotel Insonnia” – traduzione di Angelo Rendo

Paesaggio con stampelle

Quante stampelle. Ora anche per la luce del giorno,
anche per il fumo che sale. E le baracche –
una per persona – che si spostano
in unica fila con difficoltà,

volevo dire, con sforzo infernale…

e gli alberi, dietro, lì lì per inciampare,
e le formiche sulle stampelle giocattolo,
e il vento con la sua stampella fantasma.

Nessuna pace qui intorno:
il pane sui suoi arti finti,
una bambola senza testa sulla carrozzella,
e mia madre, pensate, che si serve di due coltelli
come stampelle piegata per pisciare.

A Landscape with Crutches

So many crutches. Now even thr daylight
Needs one, even the smoke
As it goes up. And the shacks –
One per customer – they move off
In a single file with difficulty,

I said, with a hell of an effort…
And the trees behind them about to stumble,
And the ants on their toy crutches,
And the wind on its ghost crutch.

I can’t get any peace around here:
The bread on its artificial limbs,
A headless doll in a wheelchair,
And my mother, mind you, using
Two knives for crutches as she squats to pee.

***

Stanco di proporzioni epiche

Mi piace quando Achille viene ucciso
e anche il suo compagno Patroclo –
e quella testa calda d’Ettore –
e anche quando tutta la giovinezza
d’oro greca e troiana è massacrata
per quanto con alterna perizia

così finalmente pace e quiete
(gli dei per un momento zitti)

si può sentire un uccello cantare,
una figlia chiedere alla madre
se può andare alla fonte
e certamente può
per quel delizioso viottolo
che si snoda attraverso l’uliveto

My Weariness of Epic Proportions

I like it when
Achilles
Gets killed
And even his buddy Patroclus –
And that hothead Hector –
And the whole Greek and Trojan
Jeunesse dorée
Are more or less
Expertly slaughtered
So there’s finally
Peace and quiet
(The gods having momentarily
Shut up)
One can hear
A bird sing
And a daughter ask her mother
Whether she can go to the well
And of course she can
By that lovely little path
That winds through
The olive orchard

***

Il grande gufo cornuto

Un mattino il Grand Seigneur
è così buono da farsi vedere.
Su un albero scheletrico
del mio giardino sta.

Quando lo chiamo forte,
gira la testa
e mi guarda
quasi non ci crede.

Gli mostro la mia cintura,
come devo stringerla ultimamente
fino all’ultimo buco.

Arruffa le penne,
esamina la legnaia vuota,
la vecchia Chevy rossa sui blocchi.
Ahimè! E’ ora di andare!

The Great Horned Owl

One morning the Grand Seigneur
Is so good as to appear.
He sits in a scrawny little tree
In my backyard.

When I say his name aloud,
He turns his head
and looks at me
In utter disbelief.

I show him my belt,
How I had to
Tighten it lately
To the final hole.

He ruffles his feathers,
Studies the empty woodshed,
The old red Chevy on locks.
Alas! He’s got to be going.

***

Ad uno del piano di sopra

Autorità di tutte le autorità dell’universo.
Signor Sotutto, capo traffichino plagiatore,
e qualsiasi altra cosa in cui sei bravo.
Vai, scozza i tuoi zero questa notte.
Intingi nell’inchiostro code di comete.
Spilla la notte con luci di stelle.

Faresti meglio a leggere i fondi del caffè,
o sfogliare le pagine dell’Almanacco dell’Agricoltore.
Ma no! Ami darti arie,
e coltivare la tua famosa serenità
mentre siedi al grande scrittoio
con niente di niente nella cassetta della posta in arrivo
e niente di niente nella cassetta della posta in uscita,
e tutta quell’eternità sparsa intorno a te.

Non ti fa rabbrividire sentirli implorare in ginocchio,
farfugliare tenerezze come se tu fossi
una bambola gonfiabile a grandezza naturale?
Di’ loro di riprendersi e andare a letto.
Smettila di fingerti troppo occupato per accorgertene.

Le tue mani sono vuote come i tuoi occhi.
Non c’è niente su cui mettere la tua firma,
anche se tu sapessi come ti chiami,
o credessi ai nomi che continuo a inventare
mentre scribacchio questa nota per te
nel buio.

To the One Upstairs

Boss of all bosses of the universe.
Mr. know-it-all, wheeler-dealer, wire-puller,
And whatever else you’re good at.
Go ahead, shuffle your zeros tonight.
Dip in ink the comets’ tails.
Staple the night with starlight.

You’d be better off reading coffee dregs,
Thumbing the pages of the Farmer’s Almanac.
But no! You love to put on airs,
And cultivate your famous serenity
While you sit behind your big desk
With zilch in your in-tray, zilch
In your out-tray,
And all of eternity spread around you.

Doesn’t it give you the creeps
To hear them begging you on their knees,
Sputtering endearments,
As if you were an inflatable, life-size doll?
Tell them to button up and go to bed.
Stop pretending you’re too busy to take notice.

Your hands are empty and so are your eyes.
There’s nothing to put your signature to,
Even if you knew your own name,
Or believed the ones I keep inventing,
As I scribble this note to you in the dark.