Parole o cose?

La mia grande perplessita’ sulle “cose”, cioe’ la politica sui siti letterari (ultimo, Le Parole e Le Cose), nasce da una considerazione di rappresentanza (a nome di chi parla colui che parla) e di rappresentativita’ (a nome di quale rilevante attributo parla colui che parla).

Ogni contributore, da chi posta ai commentatori, non mette in chiaro il proprio rifarsi all’una o all’altra. Dubito che l’agora’, soprattutto in rete, abbia l’effettiva forza per incidere su qualcosa, a meno di farsi massa critica. Ogni discorso sulle “cose” rimane dunque monco perche’ non e’ seguito da alcuna azione, a differenza di quanto accade con le “parole” letterarie, che hanno storicamente tanto uno statuto di rappresentanza (come nel caso dei “competenti” che fanno il mestiere, alla stregua di un sindacato) quanto di rappresentativita’ (nel caso di chi ha “talento” in proprio e si fa opinion maker su base carismatica).

Il luogo fisico nel quale portare questi contributi sulle “cose”, a livello di cittadini comuni, dovrebbe dunque essere la sezione di un partito (in una logica di rappresentanza) o, in forma meno vincolata, una sala associativa preventivamente dichiarata (in una logica di rappresentativita’). In assenza, si tratta di atti sostanzialmente innocui, una specie di talk show all’incontrario al quale siedono sempre gli stessi invitati / commentatori ormai da anni.

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Il punto forte, a proposito del giudizio di qualita’ letteraria spettante alla “competenza” accumulativa, orizzontale di chi e’ del mestiere e di chi si inquadra nella sua pratica sociale, piuttosto che al “talento” una tantum di chi crea in proprio e riconosce pari creatori in modo verticale, e’ drammaticamente evidente nel seguente scambio (su Nazione Indiana):

>Stan: Sì, Moresco enuncia se stesso come “accerchiato”; però dichiara fin da subito che sta parlando a nome suo e di nessun altro.

>>Rovelli: Anch’io sto parlando a nome mio, e le letture possono essere opposte – tanto dei libri quanto delle lettere. Dopodiché che dire, alle sensazioni non c’è argomento che tenga.

La lettura di Rovelli vale piu’, parimenti o meno di quella di Moresco? Datevi una risposta e vi posizionerete automaticamente nel parlamentino della Repubblica delle Lettere 2011.

Stupidaire – sei anni di commenti in Nazione Indiana

Rileggendo sei anni di commentario nel blog piu’ trendy d’Italia, mi rendo conto di quanto il mezzo mi abbia istupidito, messo sotto sale, infine consegnato al chiacchiericcio saccente e parvenu, il cui tono e’ molto probabile appartenermi di natura.

scarica qui lo Stupidaire, tutti i commenti dell’ineffabile GiusCo.

Addosso alla dittatura mediatica! E poi scoprire di esserne foraggiati…

DUE ESEMPI DA MANUALE

EVELINA SANTANGELO: “A me non interessa il «messaggio» in sé, che sento parola pericolosissima, se brandita come una spada, né interessa (in assoluto) chi ha prodotto quell’opera e con quanti soldi (perché tutto ciò avrebbe a che fare con un altro genere di riflessioni e un altro genere di problemi, rilevanti, ma di natura diversa. Problemi, per inciso, che mi riguardano, certo, e mi toccano personalmente, avendo pubblicato anche io con Einaudi gran parte dei miei libri).”.

Evelina Santangelo, palermitana, domina con queste parole (tratte da un intervento a chiusura di questo post su Nazione Indiana, qui) la “dannazione”.

Quale forza, a monte della professoralità – che pasce a valle ruminante -, mi chiedo, dovrebbe possedere autore ed opera e per quale strada andare o quale spada brandire colui che ha fatto sfida al tempo con la popolarità vanesia del ruolo? Come può?

A me interessa il messaggio, da dove viene, e il suo effetto di trascinamento; la relativizzazione, snobberia della più bell’acqua, è una tana.

GABRIELE FRASCA: “Il mio rapporto con l’editoria è ambivalente. Mi trovo a lavorare sia per la piccola editoria che per la grande editoria, come per esempio può essere per Einaudi e in questo caso parliamo proprio del nemico perché Einaudi ormai è Berlusconi. Per altre cose, invece, cerco disperatamente di trovare altri editori e di lavorare in una maniera diversa per rifuggire alla massificazione che è inevitabile nel caso della grande editoria.

Il mio lavoro per Einaudi mi lascia totale libertà ma soltanto perché mi occupo esclusivamente di due settori particolari. Uno è la poesia. La poesia non vende e quindi sulla poesia non intervengono anche perché sarebbe inutile visto che il più delle volte le poesie non si capiscono. Il secondo sono le traduzioni beckettiane e lì si tratta di un’opera che già esiste e quindi non si può bloccare.

Credo, invece, che scrittori che lavorano per Einaudi, come ad esempio i Wu Ming, abbiano dei problemi ben più seri; penso che loro debbano rimanere per forza su un target, non potrebbero mai scrivere una cosa diversa da come la scrivono. Volendo metterla su questo piano, i Wu Ming si sono venduti da subito. […]

Ho scelto di non fare lo scrittore di professione, perché altrimenti non sarei stato libero, però, ovviamente, faccio il lavoro più vicino a quello dello scrittore, cioè insegno.”.

Gabriele Frasca, napoletano, sembra affiorare da una nicchia (qui, l’intervista da cui le sue parole), lavora o, come dire, tiene famiglia, scrive poesie, la poesia non è capita, traduce Beckett, un classico; pensa di farla franca. Di nuovo, come sopra, e con in più l’inserto moraleggiante per i teneri Wu Ming, nell’insegnante che scrive c’è conflitto fra idealità supposta e pratica realizzazione.

Insomma: estenuatezza, maestria nel calcolo alfanumerico, manualizzazione della parola.

Non scappa nulla alle menti brillanti che certosinamente e con pazienza fanno quel che c’è da fare. Senza il minimo sospetto che il tempo si perde.

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Angelo Rendo, diritti riservati, ottobre 2009