ESTHÉTIQUE DU MAL [V – VI] – Wallace Stevens (trad. Rendo)

V

Voi tutti amanti del vero, venite piano
senza le invenzioni del dolore o il singhiozzo
oltre l’invenzione. Nei limiti di ciò che permettiamo,
entro il reale, il caldo, il prossimo,
un’unità così grande, che è felicità ci lega
a chi amiamo. Per questo familiare,
questo fratello quasi dimenticato nella bocca della madre,
e queste insegne reali, queste cose rivelate,
questi lucori nebulosi nell’occhio strettissimo
del profondissimo segreto dell’essere, non ci lamentiamo
via, via gli ahi ahi

delle sfilate nelle più oscure selve.
Stammi vicino, vieni più vicino, toccami la mano, frasi
affettuose, due volte dette,
una dalle labbra, una dalle funzioni
del senso centrale, queste minuzie significano più
di nuvole, benevolenze, teste distanti.
Sono entro il consentito, l’al di qua
soave nella povertå contro i soli
dell’al di là, l’al di qua che trattiene gli attributi
con cui vestimmo, già, le forme d’oro
e la memoria damascata delle forme d’oro,
e il fiore dell’al di là e il fuoco delle feste
della memoria damascata delle forme auree,
prima di essere completamente umani e di conoscerci.

V

Softly let all true sympathizers come,
Without the inventions of sorrow or the sob
Beyond invention. Within what we permit,
Within the actual, the warm, the near,
So great a unity, that it is bliss,
Ties us to those we love. For this famiiar,
This brother half-spoken in the mother’s throat
And these regalia, these things disclosed,
These nebulous brillancies in the smallest look
Of the being’s deepest darling, we forego
Lament, willi gly forfeit the ai-ai

Of parades in the obscurer selvages.
Be near me, come closer, touch my hand, phrases
Compounded of dear relation, spoken twice,
Once by the lips, once by the services
Of central sense, these minutiae mean more
Than clouds, benevolences, distant heads.
These are within what we permit, in-bar
Exquisite in poverty against the suns
Of ex-bar, in-bar retaining attributes
With which we vested, once, the golden forms
And the damasked memory of the golden foms
And ex-bar’s flower and fire of the festivals
Of the damasked memory of the golden forms,
Before we were wholly human and knew ourselves.

VI

Il sole giallo clown, ma non un clown,
fa perfetto il giorno e poi fallisce. Dimora
nel già compiuto, eppure desidera ancora
una ulteriore realizzazione. Per il mese lunare
fa la ricerca più tenera, intento
a una trasmutazione che, vista, appare
deforme. E lo spazio è pieno dei suoi
anni respinti. Un grande uccello lo becca
per nutrirsi. L’appetito ossuto del grande uccello
è insaziabile come quello del sole. L’uccello
volò da una sua imperfezione
per cibarsi del fiore giallo del frutto giallo
caduto da foglie turchesi. Nel paesaggio
del sole, il suo grandissimo appetito diviene meno rozzo,
eppure, anche corretto, ha strane cadute,
scintillii, divinazioni di serena
indulgenza oltre ogni visione celeste.

Il sole è paese, dovunque sia. L’uccello
nel paesaggio più luminoso ruota verso il basso
disdegnando ogni astringente maturazione,
sfuggendo il punto del rosso, non contento
di riposare in un’ora o stagione o lunga era
dei colori del paese che si affollano davanti a lui,
poiché la mente dell’uomo-erba giallo è ancora immensa,
ancora promette perfezioni gettate via.

VI

The sun, in clownish yellow, but not a clown,
Brings the day to perfection and then fails. He dwells
In a consummate prime, yet still desires
A further consummation. For the lunar month
He makes the tenderest research, intent
On a transmutation which, when seen, appears
To be askew. And space is filled with his
Rejected years. A big bird pecks at him
For food. The big bird’s bony appetite
Is as insatiable as the sun’s. The bird
Rose from an imperfection of its own
To feed on the yellow bloom of the yellow fruit
Dropped down from turquoise leaves. In the landscape of
The sun, its grossest appetite becomes less gross,
Yet, when corrected, has its curious lapses,
Its glitters, its divinations of serene
Indulgence out of all celestial sight.

The sun is the country wherever he is. The bird
In the brightest landscape downwardly revolves
Disdaining each astringent ripening,
Evading the point of redness, not content
To repose in an hour or season or long era
Of the country colors crowding against it, since
The yellow grassman’s mind is still immense,
Still promises perfections cast away.

A quarant’anni – Angelo Rendo

A quarant’anni hai una sedia
E una palla o un trono e una
Botte o un forcone senza un dente,
Un occhio pesto.

A quarant’anni sei un cane
Una poesia
L’a capo facile
Che non va.

A quarant’anni ringrazi
Come sempre
Mamma e papà

Ma forse non sai
D’averlo fatto.

A quarant’anni hai una compagna
La vita
È fatta
Spezzato il pane.

A quarant’anni c’è ancora
Chi stinge i panni col colore
dell’uomo nuovo.

A quarant’anni c’è colui
Che è gonfio come un morto
Dio ci scansi.

A quarant’anni senza nulla
Togliere a chi venti
A chi ottanta ne ha

È probabile l’età non conti
Il numero è l’immagine
Che mima te stesso.

Se passa l’angelo – Angelo Rendo

Mi sono scoperto imbambolato, con due assi, intersecantisi nel punto più stretto fra occhio e occhio, saldati – uno, l’asse verticale – alla fronte, l’altro, all’ombelico. Accade sempre questo, quando passa l’angelo. Che gli oleandri, storditi dal vento, i pini marini, pacati, portino la pace, a voce bassa. Al di là del visibile, quattro specchi. Assorbivano la bava del mio labbro cadente.

ESTHÉTIQUE DU MAL [III – IV] – Wallace Stevens (trad. Rendo)

III

Le sue salde strofe sono sospese come arnie nell’inferno
o quel che era l’inferno, poiché ora cielo e inferno
sono un’unica cosa, e sono qui, o terra infedele.

La colpa è di un dio umanissimo,
che per compassione si è fatto uomo,
indistinguibile, quando piangiamo

perché soffriamo, il nostro più antico genitore,
compagno del popolo del cuore, il più rosso signore,
venuto prima di noi.

Se solo non avesse così grande pietà di noi,
indebolisse il nostro destino, alleviasse dolori
piccoli e grandi, compagno fedele del destino,

questo troppo, troppo umano dio, simile alla pietà
di sé e genesi senza coraggio…Sembra
che la salute del mondo potrebbe bastare.

Sembra che il miele dell’estate comune
potrebbe bastare, che i favi d’oro sarebbero
parte di un nutrimento di per sé sufficiente,

che l’inferno, così modificato, svanirebbe,
che il dolore, non più mimica satanica, potrebbe
sostenersi, che di sicuro troveremmo la nostra via.

IV

Livre de Toutes Sortes de Fleurs d’après Nature.
Fiori di ogni sorta. Questo è il sentimentale.
Quando B. si metteva al pianoforte e faceva
una trasparenza in cui udivamo suoni trasparenti, suonava
note di ogni sorta? O ne suonava una
in un’estasi di note,
variazioni nei toni di un singolo suono,
l’ultimo, o suoni così singoli da sembrare uno?
E poi quello spagnolo della rosa, avvolta
nel fuoco e nerosangue, salvava la rosa
dalla natura, ogni volta che la vedeva, facendola,
quando la vedeva, esistere nel suo occhio speciale.
Possiamo immaginare che la curasse di meno,
che mancasse verso la padrona per le diverse cameriere,
preferendo alla passione più nuda lo scalzo
libertinaggio? … Il genio del male
non è un sentimentale. È
quel male, male nell’io, da cui
nel santificare disperato, nel gesto rozzo, la colpa
cade su ogni cosa: il genio della mente,
il nostro essere, sbaglia e sbaglia,
il genio del corpo, il nostro mondo,
è consumato nei falsi combattimenti della mente.

***

III

His firm stanzas hang like hives in hell
Or what hell was, since now both heaven and hell
Are one, and here, O terra infidel.

The fault lies with an over-human god,
Who by sympathy has made himself a man
And is not to be distinguished, when we cry

Because we suffer, our oldest parent, peer
Of the populacy of the heart, the reddest lord,
Who has gone before us in experience.

If only he would not pity us so much,
Weaken our fate, relieve us of woe both great
And small, a constant fellow of destiny,

A too, too human god, self-pity’s kin
And uncourageous genesis . . . It seems
As if the health of the world might be enough.

It seems as if the honey of common summer
Might be enough, as if the golden combs
Were part of a sustenance itself enough,

As if hell, so modified, had disappeared,
As if pain, no longer satanic mimicry,
Could be born, as if we were sure to find our way.

IV

Livre de Toutes Sortes de Fleurs d’après Nature.
All sorts of flowers. That’s the sentimentalist.
When B. sat down at the piano and made
A transparence in which we heard music, made music,
In which we heard transparent sounds, did he play
All sorts of notes? Or did he play only one
In an ecstasy of its associates,
Variations in the tones of a single sound,
The last, or sounds so single they seemed one?
And then that Spaniard of the rose, itself
Hot-hooded and dark-blooded, rescued the rose
From nature, each time he saw it, making it,
As he saw it, exist in his own especial eye.
Can we conceive of him as rescuing less,
As muffing the mistress for her several maids,
As foregoing the nakedest passion for barefoot
Philandering? . . . The genius of misfortune
Is not a sentimentalist. He is
That evil, that evil in the self, from which
In desperate hallow, rugged gesture, fault
Falls out on everything: the genius of
The mind, which is our being, wrong and wrong,
The genius of the body, which is our world,
Spent in the false engagements of the mind.

Quel che se ne va – Angelo Rendo

Si guardò allo specchio, e non si riconobbe. È proprio così che l’uomo che se ne va cade nelle mani infiacchite di chi segue e non vede. Se vi è un mancato carico, il proposito non dista dalla chiacchiera che una manciata di millimetri. Nello spazio intercorrente si alza sempre la voce. Non un dialetto senza pretese o di contrabbando, o un’affilata, analitica koinè di primitivismi emozionali, ma una superiore lingua, che compone bruscoli di memoria in tornita ceramica.

ESTHÉTIQUE DU MAL [I – II] – Wallace Stevens (trad. Rendo)

I

Era a Napoli e scriveva lettere a casa
e, fra l’una e l’altra, leggeva paragrafi
sul sublime. Il Vesuvio brontolava
da un mese. Era bello star seduto lì,
mentre le intuizioni più soffocanti e tremule

saettavano angoli nel vetro. Poteva descrivere
il terrore del suono perché il suono
era antico. Provò a ricordare le frasi: dolore
percettibile a mezzogiorno, che tortura se stesso
dolore che uccide il dolore nel punto esatto del dolore.
Il vulcano tremava in un altro etere,
come il corpo trema alla fine della vita.

Era quasi l’ora di pranzo. Il dolore è umano.
C’erano rose nel fresco caffè. Il suo libro
garantiva la più corretta catastrofe.
Se non dipendesse da noi, il Vesuvio avvolgerebbe
nel solido del fuoco le parti più estreme della terra
senza dolore (ignorando i galli che ci tiran su
per morire). Questa è una parte del sublime
di fronte alla quale indietreggiamo. Eppure, tranne che per noi,
tutto il passato nulla provò quando fu distrutto.

II

In una città in cui crescevano acacie, si coricava
sul balcone di notte. I trilli diventavano
troppo neri, troppo distanti, troppo gli accenti
del sonno travagliato, troppo le sillabe
che si sarebbero formate, nel tempo, e avrebbero comunicato
il segreto della sua disperazione, ed espresso
quel che la meditazione non aveva mai del tutto raggiunto.

La luna si levò come se fosse sfuggita
alla sua meditazione. Evadeva dalla sua mente.
Era parte di una supremazia sempre
sopra di lui. La luna era sempre libera da lui,
come la notte era libera da lui. L’ombra toccava
o solo sembrava toccarlo mentre recitava
una specie di elegia trovata nello spazio:

Il dolore è indifferente al cielo
a dispetto del giallo delle acacie, il loro
profumo nell’aria che ancora aleggia forte
nella notte biancosospesa. Esso non ha occhi
per questa libertà, questa supremazia,
e nella sua allucinazione non vede mai
che quello che lo respinge alla fine lo salva.

I

He was at Naples writing letters home
And, between his letters, reading paragraphs
On the sublime. Vesuvius had groaned
For a month. It was pleasant to be sitting there,
While the sultriest fulgurations, flickering,

Cast corners in the glass. He could describe
The terror of the sound because the sound
Was ancient. He tried to remember the phrases: pain
Audible at noon, pain torturing itself,
Pain killing pain on the very point of pain.
The volcano trembled in another ether,
As the body trembles at the end of life.

It was almost time for lunch. Pain is human.
There were roses in the cool café. His book
Made sure of the most correct catastrophe.
Except for us, Vesuvius might consume
In solid fire the utmost earth and know
No pain (ignoring the cocks that crow us up
To die). This is a part of the sublime
From which we shrink. And yet, except for us,
The total past felt nothing when destroyed.

II

At a town in which acacias grew, he law
On his balcony at night. Warblings became
Too dark, too far, too much ethe accents of
Afflicted sleep, too much the syllables
That would form themselves, in time, and communicate
The intelligence of his despair, express
What meditation never quite achieved.

The moon rose up as if it had escaped
His meditation. It evaded his mind.
It was part of a supremacy always
Above him. The moon was always free from him,
Or merely seemed to touch him as he spoke
A kind of elegy he found in space:

It is pain that is indifferent to the sky
In spite of the yellow of the acacias, the scent
Of them in the air still hanging heavily
In the hoary-hanging night. It does not regard
This freedom, this supremacy, and in
Its own hallucination never sees
How that which rejects it saves it in the end.

Riccardo Pedrini è uscito dai Pooh – Angelo Rendo

Ho letto poco fa (http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/con-ms-kakashnikov-wu-ming-perde-pezzi/) che Wu Ming 5 (Riccardo Pedrini) ha rotto coi Wu Ming. Pare abbia subito una dura reprimenda dai compagni per aver rinnegato quel marchio di fabbrica cheap. Ha scritto un ‘romanzo in prima persona’.
Si era stancato dei filtri, della fiction, dei meccanismi aziendali del collettivo.
Ha comunque scelto di mantenere disonorevolmente la spendibile maschera del Senza Nome 5.
Il monolitismo di questa frangia di illuminati inizia a vacillare, ma, al netto della polemica interna al politburo, questo avvenimento per me, morto di sonno stamane e nei secoli dei secoli, vale quanto la decisione di Riccardo Fogli di abbandonare i Pooh per Patty Pravo.

Colore e veleno – Angelo Rendo

image

Questo dipinto, mi viene di trarlo via. Astrarlo, tanto è disarmante. Le volte che mi irretisce, e sono tante, lo allungo da parte a parte; resiste solo il verde cerniera e l’occhio di un cavallo. Sono incredulo. Nessuno, nemmeno il pittore, tantomeno appunto i cavalli reagiscono. A comporre questo scontro venefico, al quale proprio nessuno, ripeto, sembra credere, pensano quell’occhio di balena e una pietosa narice che freme.Tutto il resto è veleno, colore, scansione, comica immobilità.

Becchime – Angelo Rendo

{Questa serie di poesie non potrebbe avere altra destinazione che questa. Dove la metti e metti, sta, a patto che non si consideri il divieto posto dall’urbanità alle visioni d’occorrenza una “triste piega”. A questa pensano i becchini. A.R.}

IL PAVONE

Da ciò che non si dice forma
La cadenza che taglia il ponte

Con l’ostensione si va
In coda.

IL NEGATIVO

Guardando il negativo appare
Un animale al quale
Poter dire nulla
È concesso.

CONTROLLORI

A quattro a quattro premevano
Tenendo cresta e foro
Piedi in una forma

E triste piega.

NERO

Arrivano sempre ch’ogni
Giorno è poco
E sempre dicono
Che a far luce è nero.

Rissa e festa – Angelo Rendo

Cosa abbiamo in comune? Solo il sangue. Non riconosco i volti le voci gli arti i musi gli artigli, quando si mescolano. Sia che assista a una rissa sia che assista a una festa.
L’interesse invetra il sangue. Nell’indifferenza invece il sangue sbocca, allagando le terre circostanti.
La piena del sentimento affoga l’odio, e della perdita non si fa calcolo.