Istriano di origine, Lucio Klobas è nato nel 1944. Vive a Bergamo. Ha pubblicato numerose opere di narrativa e poesia, alcune delle quali tradotte all’estero. Galleria del vento (Geiger, 1976); Crudeltà mentale (Società di Poesia, 1983); Macchinazione celeste (Garzanti, 1990), Orari contrari (Theoria, 1993), Giorni contati (Il Saggiatore, 1994); Il verme solitario (Greco & Greco, 1997); Senza scampo (Manni, 1999); Il tempo vola (Greco & Greco, 2000); Passo felpato (Greco & Greco, 2002); Mono Trilogia (Greco & Greco, 2004); Relazioni sociali (Campanotto, 2007), Antichi mestieri (Flaccovio, 2008).
PROTAGONISTI: Andy Cabic (voce, chitarre), Kevin Barker (chitarra), Sanders Trippe (chitarra, cori), Brent Dunn (basso), Otto Hauser (batteria).
SEGNI PARTICOLARI: non più tardi di una decina di anni fa Andy Cabic suonava la chitarra e cantava in formazioni misconosciute come i Raymond Brake, in una scena folk-rock assolutamente marginale come quella del Nord Carolina. La scelta di trasferirsi a San Francisco insieme ad un paio di compagni, l’incontro con il giovanissimo Devendra Banhart ed i primi successi di quest’ultimo grazie al fiuto del grande Michael Gira, hanno rappresentato per Cabic l’occasione propizia per uscire dall’anonimato. Negli anni della recente fioritura del cosiddetto psych-folk californiano in tutte le sue svariate declinazioni, dal Naturalismo alla New Weird America, Cabic si è affermato come il più prezioso tra i fidati collaboratori di Banhart e ha anche fondato una nuova band, i Vetiver, all’esordio nel 2004 con un brillante album omonimo. Dopo le esplorazioni e le reinterpretazioni di alcune tra le pagine meno conosciute del country-folk statunitense dei primissimi anni settanta, raccolte in uno splendido album uscito appena qualche mese fa (‘Things Of The Past‘, con relativa appendice nell’EP ‘More Of The Past‘), i Vetiver pubblicano ora il loro quarto LP che è insieme una sintesi dei lavori precedenti ed un punto di svolta.
INGREDIENTI: quello dei nuovi Vetiver è un folk da fuoriclasse, maturo, rispettoso di una tradizione sconfinata che va da Gram Parsons a Donovan, da George Harrison ai Jefferson Airplane, articolandosi armonicamente in un background solido e ricco di influenze preziose. L’iniziale ‘Rolling Sea‘ funziona a dovere come emblema sonoro ed emotivo dell’intero album: luci soffuse, un’acustica nitida e gentile, la voce di Andy che passa delicata, al velluto, senza forzature ma sufficientemente evocativa e densa di belle sfumature, mentre le pennellate elettriche donano profondità ad un suono che è la perfetta manifestazione della serenità raggiunta dal gruppo. La band si mostra disinvolta e intenzionata a proseguire sulla falsariga del disco precedente, applicando a livello di scrittura l’ottima lezione dei classici prima esibita solo sul piano dell’interpretazione e svincolandosi ulteriormente dalle scorie riduttive dell’esperienza banhartiana. Rispetto a ‘Vetiver‘ o al successivo ‘To Find Me Gone‘, nelle nuove canzoni si avverte chiaramente il bisogno di una maggiore libertà espressiva e di evasione dai rigidi schemi di genere. Con ‘Another Reason To Go‘ il gruppo si addentra in scioltezza in territori più stravaganti ma non meno ispirati, accantonando i cliché del folk scapigliato e intriso di spleen romantico per giocare e divertirsi con sonorità meno seriose e più bizzarre (fondamentale il massivo ricorso ai fiati, in tal senso). Come l’irresistibile groove di ‘Sister‘ testimonia, c’è voglia di leggerezza ma senza rinunciare al gusto del dettaglio e alle ombreggiature sullo sfondo che conferiscono sempre quel particolare sapore ai brani. Qui le cadenze secche ed il ritmo sottilmente ammiccante si traducono in una forma di fascinazione addirittura sensuale, veramente sorprendente. Uno dei pregi di ‘Tight Knit‘ sta proprio nell’inesauribile freschezza che affiora, paradossalmente, in canzoni dai forti connotati vintage. Una vivacità che tende a prevalere e si concretizza in canzoni frizzanti e piacevolissime come ‘More Of This‘, episodio dalla spiccata e palpitante anima pop, curiosamente affine ad analoghe escursioni di marca tweediana, dai Minus 5 ai Loose Fur.
DENSITA’ DI QUALITA’: uno degli aspetti più evidenti del leggero (ma significativo) cambiamento di impostazione voluto da Cabic per il nuovo album risiede nell’abilità con cui i Vetiver sono riusciti a plasmare un suono più morbido, penetrante e meno dispersivo rispetto ai primi due dischi, affidandosi alle classiche sonorità da West Coast ma rivestendole di un’insolita aura di atemporalità: una dimensione che pare giovare alle nuove canzoni (‘Through The Front Door‘, la magica ‘Strictly Rule‘), sviluppate di fatto come favolosi anacronismi. La purezza e il nitore delle chitarre, vero marchio di fabbrica della band di Cabic, sono corroborati da un sound finalmente vario e corposo e da una voce che non è mai stata tanto delicata e ruvida allo stesso tempo. Colpisce come la ricetta dei Vetiver continui ad essere incredibilmente efficace e riesca a disegnare atmosfere tanto ammalianti, nonostante l’assoluta economia dei mezzi impiegati. Fa specie come questo gruppo sappia suonare sofisticato ma non professorale, intimo ma non noioso, amichevole e per nulla chiassoso. Come ‘Everyday‘ sembra chiarire inequivocabilmente, in ‘Tight Knit‘ non c’è cittadinanza per gli eccessi, in qualsivoglia forma. La chitarra è più vivace, le cadenze si fanno più briose e la voce si colora di gradazioni variabili: ancora una volta vengono raggiunti livelli melodici e di profondità emotiva apprezzabili e sempre senza calcare la mano, pacatamente, evitando di infarcire il brano di effetti, stratificazioni e martellamenti ritmici che snaturerebbero l’estetica della band. Anche il respiro country-folk molto yankee di ‘On The Other Side‘, con il suo andamento come a dorso di cavallo, è controllato quanto basta per non scadere nel caricaturale. Il finale di ‘At Forest Edge‘ porta questa disciplina alle estreme conseguenze, accogliendo l’ascoltatore in punta di chitarra e con avvolgenti percussioni per poi spingerlo in un clima sospeso ed onirico. Una prova della potenza folk psichedelica di cui i Vetiver sono capaci, con una melodia suadente e ripetuta come all’infinito mentre sullo sfondo si addensano strane nubi minacciose. Non mancano sprazzi dal retrogusto beatlesiano che sono la ciliegina di un pezzo magistralmente suggestivo e piacevolmente inquietante, narcotico, prospettico, ingannevole: la vetta dell’album.
VELOCITA’: nel loro incedere tranquillo ma dondolante, canzoni come la già citata ‘Strictly Rule‘ esercitano un potere ipnotico non indifferente.
IL TESTO: “I always seem to make something out of nothing / but I can’t make you appear”, da ‘Everyday‘.
LA DICHIARAZIONE: Andy Cabic: “Alcune delle canzoni sono state riprese nelle registrazioni di questo disco senza sostanziali differenze rispetto a come le abbiamo suonate dal vivo per diverso tempo. Altre canzoni hanno ricevuto un’ultima spazzolatura in studio. Alcune altre, infine, sono state invece completamente rielaborate nella forma rispetto a come le eseguivamo in concerto. Ci sono brani che mostrano una relazione con tutto ciò che ho fatto come autore dai tempi del mio esordio, mentre altri hanno dentro qualcosa che io ho forse sempre e solo abbozzato, fino ad oggi”.
IL SITO: ‘Vetiverse.com’ e ‘Myspace.com/vetiverse’.
[Rassegna stampa: Stefano Zangrando recensisce il libro su “Alias” del 14 febbraio 2009, postata qui il 16 febbraio 2009; Angelo Orlando Meloni su “Stilos”, qui]
Luigi Grazioli è uno scrittore della distinzione, dal percorso ferreo e scolpito. Un legislatore. Appartiene a quella schiera di scrittori unica, che ogni istituzione tende a tenere in disparte, perché cosa preziosa.
Con “Il primo Congresso del Sindacato dei Profeti Viventi” (Effigie 2008) Grazioli ha scritto un libro di racconti “buono buono”, acquattato dietro un cespuglio, pronto a balzare di soppiatto, la belva. O l’agnello.
Lontano anni luce dai libri dei narratori della bruma – la qual fa capolino, idealmente, ma cambiata di segno, s-tediata, abbigliata da “non vista della consistenza”, in un passo iniziale a pag. 17 – il libro di Grazioli è una sfida alla istituzione Letteratura. La spia che ci si trova a vagare e divagare lungo il bosco, a distanza di sicurezza dalle pianure, ci è fornita dalla risolutezza della parola-gesto, che svela quel che è senza infingimento, a testimonianza della ferinità, la più pregevole.
Così, la “sintassi molto complessa, persino confusa a prima vista, ma che si dipana non appena ci si affida […]” (pag. 26) rappresenta la goffaggine del composto. La compulsione fra asfissia e produzione del monstrum. La vividezza, l’esilaranza di un passo che registra la vertigine del volo. Si tratta di una scrittura alla quale non conviene torcere nemmeno un capello, così nutrita di seriale da divampare nel campo dell’assolutezza.
La testa (Due coche, Il trasportatore), il centro (Lezioni di volo, Versare il latte), la coda (Il primo Congresso del Sindacato dei Profeti Viventi, La voce). L’ultimo racconto, La voce appunto, una prosa poetica a sigillo dell’intero libro: la poesia sparsa dal corpo, il fuoco fatuo della struttura, dello scheletro, il risucchio ultimo colpo, il sacrificio, estrema vita di ogni vero scrittore.
Un maggiore costretto alla minorità, a farsi schiena per meglio riflettersi, a far esplodere allegoricamente il reale, costituente interno alla lingua come personaggio. Dinanzi al rischio di finire nel mucchio, nell’illecebra spicciola, Grazioli sgattaiola dal catalogo, dalla lapide.
Certamente il tempo, sempre più gravido, lavora per l’allegoria, ne è stato assunto per assottigliare la storia e ridurre il residuo umano ad agente minerale.
Chiudo la parentesi e ne apro un’altra. C’entra di meno, ma per me è importante. Barthes mi capirà. Ha le spalle larghe e io ne approfitto. Faccio il monello. Il monello triste però, stavolta. Ho una piccola confessione da fare. Amo un albero. In realtà sono due. Due pioppi che crescendo hanno fuso i tronchi tanto da essere ormai un unico grande albero un po’ divaricato, con una sola, imponente chioma. Sta in fondo al prato accanto a casa mia, davanti alla cascina con il bar di cui ho parlato in un racconto. Ogni volta che esco lo vedo sullo sfondo e ogni volta sono felice di vederlo. Anche se prendo la direzione opposta, sapere che è lì è una delle consolazioni della mia vita. Quando faccio il giro dell’isolato, me lo trovo di fronte, inquadrato da due pinetti in fondo alla via come guardie d’onore. Quando torno a casa lo vedo da lontano e resta nella visuale fino all’ultima curva. Se esco a fumare, resto lì a fissarlo, a parlarci insieme. Gli ho fatto molte foto nel tempo, come a uno di famiglia. Un fratello. Un padre. Un figlio no. Non per fare delle belle foto. Perché lo amo. Il giorno dopo aver terminato la divagazione sul viaggetto a Reggio, nella quale tra l’altro parlavo proprio degli alberi, lo hanno tagliato. Sono uscito di casa e non l’ho visto. Al suo posto c’erano un camion e un’escavatrice. E operai e due o tre che stavano a guardare come se niente fosse. Il cuore ha preso a battere di corsa. Ho fermato l’auto. Volevo scendere, ma avevo una cosa urgente da fare. Ho scattato due foto alla scena e sono ripartito. Un’ora dopo, al ritorno, ho parcheggiato davanti casa e mi sono precipitato a vedere. Il camion era sparito. C’era solo l’escavatrice che aveva già riempito l’enorme buca delle radici. Due uomini stavano lì a controllare il lavoro. Il padrone del terreno e un mio vicino. Ho fatto delle foto al prato e allo spazio ormai vuoto davanti alla cascina. Poi mi sono avvicinato e ho fotografato la terra che ha riempito la buca, il suo perimetro. Per farlo sono entrato nel prato, con i due che mi osservavano con sospetto, anche se mi conoscono bene. Ho chiesto come mai. Il mio vicino, che non c’entra niente, a meno che abbia rilevato la legna, ha detto che era tutto marcio. Poi il padrone del terreno ha parlato della pericolosità dell’albero per i fili della luce. Ha detto che tempo fa hanno già speso 6000 euro per farlo potare un po’, che l’Enel non voleva assumersene il carico, che rischiava di crollare. A me sembrava sanissimo. Le foglie bellissime, il tronco, all’esterno, perfetto, i rami robusti e senza segni di malattia. Era dentro, hanno detto, e sotto. Le radici erano tutto un verminaio. L’interno del tronco poltiglia. Sarà. Poi ho sentito altre versioni. Che il padrone temeva che il pezzo di terreno fosse espropriato proprio a causa dell’albero. Che l’aveva già venduto. Che ci avrebbe rimesso trecento metri quadri. Trecento. Come i soldati di Salamina. Ho pensato che il verminaio era dentro di loro. Che erano loro. La buca che non c’è più l’ho dentro io invece, e ci sono sprofondato. Era lì da sempre, il mio albero, già grande trentatre anni fa, quando mi sono sposato e sono venuto a abitare qui. Non avevo dubbi che mi sarebbe sopravvissuto, che sarei andato a sedermi alla sua ombra anche da vecchio e poi magari a girovagare tra i suoi rami da morto. Appollaiato a guardarmi attorno, nascosto tra le foglie. Continuando a parlarci del più e del meno, come fanno i morti. Dovrò cercare un altro rifugio. Se qualcuno ne resta. Amen.
[Edoardo Sanguineti, ricordo, lo vidi insieme a Michel Chion, se non sbaglio, in un palazzo vicino alla chiesa di S. Francesco a Pisa, in occasione di un incontro di non so più cosa, anno 1995, fine anno, primo d’università. Mai più visto. Letto alla rinfusa e senza spasmo né voglia. Per me ha rappresentato la vecchiaia; gli avanguardisti si pensano giuovani; ma è sempre letale scegliere, ancora di più scegliere la gioventù, ancora di meno conta la vecchiaia. La settimana scorsa mi è capitato fra le mani un foglio piegato in quattro. Annotato un sogno; da altri indizi recupero una data, agosto 2007. Eccolo sotto.]
Su un letto, pareva di morte, lo studioso Edoardo Sanguineti. Io accanto, a reggergli un tubo di gomma posizionato dentro uno squarcio alla gola o allo stomaco. Da esso sgorgavano sangue e altri interni umori.
Il tubo si gettava in bottiglie di plastica, che io reggevo e riempivo. 1, 2, …
Ad un certo punto, chiedo a mia madre se continuare a riempirne.
Mi risponde: “Che ne devi fare, ne abbiamo a sufficienza, lascia perdere.”.