Di tutto quello che accade senza che tu possa tenerlo a mente, e del massimamente profittevole giogo che ti aliena non ridere, né ti faccia difetto l’incoscienza.
Philippe Parreno nella prima antologica in Italia dal titolo “Hypothesis” realizza un monstrum, avverte che non fa sul serio, mette tutti sotto, lo guardiamo dal basso verso l’alto come in un lunapark; l’apparato teorico mira lontano, si introflette, fa luce e si oscura, dormiamo e ci svegliamo di soprassalto al suono di una sveglia. L’opera d’arte scompare, mentalizzata in un canovaccio stretto d’intenzionalità, che in essa e per essa muore.
Quanto ad Anselm Kiefer e ai suoi “Sette Palazzi Celesti” poi, a me pare che la sensazionale erezione sia ora completamente assorbita dalle cinque opere pittoriche installate nelle navate a fine settembre. Pare finita la festa.
Parreno bilancia Kiefer, lo soccorre. Nume tutelare Fausto Melotti, fuori, all’entrata. Patrick Tuttofuoco dentro, all’accoglienza, nell’atrio, gigioneggia con neon e divani, il ventre molle del sistema.
O forse sarebbe l’ora di parlare dei libri che enunciano linee di condotta, o forse no: le righe allargano i canali, chi vuole se le cerchi, ogni sequenza di dotta rimasticatura o ideologia in nuce è risputata, la disputazione bandita. Non c’è più volontà di nominare o afferrare l’involucro e i suoi semi direzionati.
Al Cimitero Monumentale di Milano senti la fama schiacciare, lo sbriciolamento del senno. Lì vive. Fuori dalle tombe. E cosa chi la combatte, signoreggiandola con logica ferrea e malmostosa, perde? Non è per chiunque questo posto. Camillo Boito, Arrigo Boito, Giuseppe Sommaruga, Bruno Munari, Leo Valiani, Salvatore Quasimodo, Carlo Cattaneo, Alessandro Manzoni, Amilcare Ponchielli, Candido Cannavò, Guido Crepax, Ambrogio Fogar, Giorgio Gaber, Francesco Hayez, Enzo Jannacci, Franca Rame, Paolo Grassi, Giovanni Raboni, Delio Tessa, Alda Merini, Giuseppe Meazza, Bob Noorda, Wanda Osiris, Antonio Maspes, Franco Parenti, Gabriele Basilico, Milla Sannoner non sono più qui e li abbiamo visti. Chissà dov’è Dio, e se ci ha già distrutti nella verità.
A tratti – dopo che è già passata un’ora, e siamo dalle parti di Largo La Foppa – si ripresenta la vertigine buia e muta. Brera, diretti alla biglietteria. Un addetto gaudente si premura di dirci che mancano “La cena di Emmaus” di Caravaggio e “Il bacio” di Hayez, volete entrare? Trentotto sale, uno dei più grandi musei italiani.
Giorgio Morandi nel suo “Autoritratto” chiaro ne sia inseguito. Da cosa? E perché Morandi e non il Tintoretto del “Ritrovamento del corpo di San Marco”? Tintoretto è in posizione di forza, è oltre il brusio melanconico della fama, scardina la macchina mitologica tramando sul corpo prospettico. L’espressione in Morandi è, invece, spenta, la bocca storta e cadente, la luce combatte con l’ombra, i colori faticano a resistere. O guardiamo De Pisis, per esempio. Preme lesta sulle dita del pittore e gli dice fatti da parte. La fama. Ovunque ci sia lei, non ci siamo noi.
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