Sulla poesia esodante – Ennio Abate

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lunga intervista ad Ennio Abate (Baronissi, Salerno, 1941, a Milano dal 1962) da parte di Ezio Partesana (Milano, 1963).

Abate presenta e descrive lungamente il suo concetto di “poesia esodante”, figlio della lezione politica di Franco Fortini, e le sue implementazioni comunitarie (sul web e in laboratori faccia a faccia), stilistiche (di cosa scrivono i poeti, usano o no la metrica) e di circolazione presso un mondo sempre meno attento a discorsi massimalisti.

Siamo nell’alveo dei samidzat o della stampa clandestina, una retroguardia fondata su un certo tipo di resistenza etica all’omologazione del pensiero, al silenzio imposto dal consumismo coatto, alla frammentazione delle comunita’ locali in nome di un globalismo di riporto. E’ un discorso, insomma, che parte dai contesti per giungere infine ai testi, fondato su una dialettica materiale che fatica a relazionarsi all’accelerato e superficiale vivere contemporaneo.

Abate e’ un militante fedele alla missione pedagogica che ha guidato la sua vita e tanto basta. Il giudizio sulla sua teoria e quello sui suoi testi passano oggi in secondo piano.

Il testo e’ scaricabile in .pdf e gratuitamente qui: SULLA POESIA ESODANTE – Ennio Abate.

Da “La superpotenza”, le poesie di Giuseppe Cornacchia – (XII) Ecco, qualcuno

[Ho scritto poesie tra i venti e i trent’anni, quest’anno ne compio quaranta: e’ il momento di una prima verifica di tenuta. Presentero’ in questa rubrica i venticinque testi inseriti nel recente volume “La superpotenza” (2012, ed. ilmiolibro.it) e raccolti sotto il titolo “Dell’iris ho il tramorto”. Costituiscono, a questo momento, il corpus ufficiale della mia produzione. A voi. GiusCo]

ECCO, QUALCUNO

Ecco, qualcuno già storce la bocca:
linguaggio un po’ troppo oggidiano,
non è parlando tra amici che scocca
la sapida procella.
Mi pare si dica che sto a giocare.

Dunque, qualcosa di simile accade
da quando sono nato,
in nessuna parte di mondo
mi posso accasare: mille contrade
e nessuna città per riparare.

Orbene, non fatene un torto
l’avere per sodale il grande genio
e detestare il loglio.
Invero, costa sforzo stare astemio
tra gli sfoggi del lepido volgo giullare.

Dipende da me che si vada
a puttane un po’ tutti?
L’accozzaglia di cocci tecnologici
impone a noi tufi attese spasmodiche
d’evento; io mi spendo volentieri al mare,

senza per questo sentirmi imboscato.
Ci tengo al mio cesello
e lo difendo in tono spiritato
invitando voialtri al gioco
di ricercare cosa spargo in queste righe

poi direte; ma davvero vi lancio
lo specchio dei tempi, nient’altro,
non per nulla ho chiamato
“Duemila”. Mi propongo l’aggancio
a cert’humour arguto tra Falstaff e il Piotta.

E poi basta! Tra tanti scalzacane
non sfigura uno spirito
libero! O forse conviene agli anziani
che taccia per rischio di morte
sociale. Ecco, il mondo è decadente,

aspetto l’ordalia puzzona
degli ultimi reietti.
Voi forse non capite che declamo
la Ballata del Popolo Italiano
come non sarà dato d’averlo in futuro:

ciò che l’uomo non fa lo fa la Storia
degli eterni ritorni
di fame e ricchezze maldate.
Non m’importa quel posto sul sipario,
tra starne fuori e farne parte non ho dubbi,

quello che conta è l’ostaggio. Sta scritto
nel testo di Sun Tzu
che debole è quel forte sordo
agli scricchioli. E certo sconfitto
uscirà, meditando la sorte dal dopo.

© Giuseppe Cornacchia

Pubblicata su carta a Settembre 2012 in La superpotenza, venti anni di poesie, scritti e traduzioni da G.Cornacchia e A.Rendo, ISBN 9788891027474

Appunti dal buon senso senza senso (41) – Angelo Rendo

Non so, non credo vi siano o siano stati orsi a Piazza Armerina, a meno di non voler forzare la serratura: Paolo Orsi vi scavò nel 1929.
Allo stesso modo credo bene che l’impossibilità di definire un circolo chiuso dia molto al lavoro dei mortali e venga prima del regesto critico e che combatta contro ogni forma illusoria e patetica di registrare la bellezza. Enfisematosa e scoppiata bolla.

Da “La superpotenza”, le poesie di Giuseppe Cornacchia – (XI) L’ardore risuscita i morti

[Ho scritto poesie tra i venti e i trent’anni, quest’anno ne compio quaranta: e’ il momento di una prima verifica di tenuta. Presentero’ in questa rubrica i venticinque testi inseriti nel recente volume “La superpotenza” (2012, ed. ilmiolibro.it) e raccolti sotto il titolo “Dell’iris ho il tramorto”. Costituiscono, a questo momento, il corpus ufficiale della mia produzione. A voi. GiusCo]

L’ARDORE RISUSCITA I MORTI

L’ardore risuscita i morti, galvanizza,
trasfigura merdine in condottieri,
piante rigogliose di floride radici;
l’argilla nella betoniera, il silicio,
il pietrisco inconsistente, il legamento,
l’acqua piovana in taniche assai coraggiose.
L’amore sventra, osservò Delacroix,
bisogna cogliere il suicida mentre cade
per rubargli la vita sulla tela.
Delacroix sventra, rimarcò Baudelaire.
“È la maitresse più esigente che conosca”
-l’arte- ammetteva, non voleva amanti.
Povero Warhol che se ne riempiva,
povero Bohr nel suo modulo astratto
e povero Einstein, veloce, troppo,
dovendo fare l’occhio a tante cose
mentre Cassano intossica pazienti
con intrugli da stregone (meccanicista!).

© Giuseppe Cornacchia

Pubblicata su carta a Settembre 2012 in La superpotenza, venti anni di poesie, scritti e traduzioni da G.Cornacchia e A.Rendo, ISBN 9788891027474

Appunti dal buon senso senza senso (40) – Angelo Rendo

La statua scendeva dalla nicchia, nessuno la vedeva, lo faceva di giorno, cadeva senza peso e sola portava la mano sinistra ossessa e tamburellante al seno sinistro, quella destra, invece, a soffocare il pube; girava la testa a destra, ed entrambi gli occhi ai loro spigoli supremi, forzandoli.
Stava a una altezza, rispetto alla strada, di tre metri. Il palazzo ospitante aveva aperture nella parte posteriore, nella facciata lei, e nessuna finestra o finestrone o balcone o buchi per piccioni o gatti, nemmeno tegole a spiovere. Una innocua parete di massi stondati e lisci, una murata gialla, con un occhio al centro.

Appunti dal buon senso senza senso (39) – Angelo Rendo

La vera importanza è dell’avaro, avido, lercio, e pezzo di spugna retinata pregna d’odio, come se non esistessero fanfare silenti, dita martellate. Che fai gli disse e chiuse la porta. Dopo il becchime, la voce grave tonò e si perse; il tratto gentile lingueggiò prima di ritrarsi e lo scheletro sputò tibia e ulna: ogni estremo perde le giunture. L’intelletto bruscamente finisce per cozzare contro il malosentire.

E voi che chiedete modestia, risalto e ironia allo scrittore, raccapriccio e risa riconsegnate prima, poi avrete tutto, quando con vesti lise e giornali sottobraccio andremo gentili a prender posto.

Da “La superpotenza”, le poesie di Giuseppe Cornacchia – (X) Le ossa

[Ho scritto poesie tra i venti e i trent’anni, quest’anno ne compio quaranta: e’ il momento di una prima verifica di tenuta. Presentero’ in questa rubrica i venticinque testi inseriti nel recente volume “La superpotenza” (2012, ed. ilmiolibro.it) e raccolti sotto il titolo “Dell’iris ho il tramorto”. Costituiscono, a questo momento, il corpus ufficiale della mia produzione. A voi. GiusCo]

LE OSSA

Le ossa a me che chiedo polpa
A me che vedo melograno
A me che porto lingua al fico
E mi lavo nel babà. Ho sapor
D’ananasso appena colto
Steso alle lenzuola sotto al sole,
Dell’iris ho il tramorto.

*

Mia nonna parla d’ellesponto
E pomi d’oro, un’altra vita
Una vita come questa ma nel sole
E la pioggia boscosa. Mia nonna
Che da giovane andava coi capretti
In prati perennemente in fiore
E i capri non erano contenti, lei sì.
Questa donna ancora giovane
M’insegna che nel cuore c’è una sferza
Che vale ogni promessa
Che chiama nostalgia.

© Giuseppe Cornacchia

Pubblicata su carta a Settembre 2012 in La superpotenza, venti anni di poesie, scritti e traduzioni da G.Cornacchia e A.Rendo, ISBN 9788891027474

La lucina, di Antonio Moresco (contiene SPOILER!)

[AVVISO: questa lettura rivela trama e finale del racconto, evitarla se si vuole conservare la suspance! GiusCo]

Deve essere un caso -o forse no- se questo ultimo lavoro di Antonio Moresco viene reso disponibile al pubblico una settimana dopo l’annuncio di Papa Ratzinger / Benedetto XVI circa le sue dimissioni. Pare infatti di vederlo, il vegliardo teologo stanco di banchieri, pedofili, corvi e secolarizzazione, ritirarsi in cima al Monte a preparare il congedo terreno a contatto solo della sua Fede. Ed in effetti questo lungo racconto di Moresco inizia con un uomo -presumibilmente piegato da sofferenza e solitudine- che si ritira a vita privata in una casa diroccata, in mezzo alla vegetazione ed in solitudine. Il recupero degli atti primordiali di una vita slegata dal vacuo rumore urbano -il modico mangiare, il dormire, il lavare i panni- si fonde in breve tempo con un apprezzamento crescente del mondo altro, quello vegetale, dei suoi suoni (i movimenti degli animali nel silenzio della notte) e dei suoi colori (il fogliame, i fiori). Un uomo separato da tutto cio’ che e’ relazione, salvo venirne riattirato quando nota una lucina accendersi su, in cima al monte, nella notte. Una lucina verso cui e’ irrresistibilmente attratto. Qui il racconto si fa commosso, il presagio dell’ultimo viaggio si fonde con il fantastico della narrazione: su in cima vive, infatti, un bambino morto che si comporta da vivo, va a scuola di notte assieme ad altri bambini morti nella stessa scuola del paese dove di giorno vanno i bambini vivi, fa i compiti, si prepara da mangiare, fa il bucato. L’uomo entra in quello che possiamo definire meccanismo del trapasso (o forse di tutto un sogno preparatorio, premonitore, lucina e bambino inclusi) quando chiede al bambino come e’ morto e quello risponde: “Mi sono ucciso, mi facevano del male”, quando cioe’ guarda dentro la propria vita e quel che e’ stata, ritrovando la sua innocenza creaturale. Da qui in avanti e’ una preparazione al colpo di scena dell’ultimo capitolo, che avviene dopo un giorno e una notte di bufera nevosa che ha colorato tutto di bianco, come a rappresentare la Luce o l’indistinto. E’ un trapasso laico, pero’, irrisolto: l’uomo, dopo una notte insonne e di bufera, si preoccupa del bambino morto che vive tutto solo nella casa in cima al monte e va a prenderlo per portarlo con se’, dove non si sa. Nelle ultimissime pagine del libro la voce narrante diventa quella del bambino che sente battere l’uomo alla porta della casa, cosicche’ non si capisce chi sia l’uno e chi sia l’altro o forse si capisce che la vita -come quella degli animali e della fitta vegetazione- e’ solo un ciclo di nascite e morti, di vecchi animali/fiori/uomini che rinascono animali/fiori/bambini e vengono a loro volta salvati da vecchi che rinascono bambini. Un panteismo laico, la risoluzione della vita dentro la vita stessa e non in una metafisica uscita verso un Che. Lo stesso dubbio che puo’ aver colto il vecchio Papa Ratzinger, ora solo nei suoni e nella vegetazione, con la sua lucina in cima al Monte.

© Giuseppe Cornacchia, 15.3.2013