SULFUREA, O DELL’AGRIGENTINO – Angelo Rendo

Nel primo occidente siciliano si fa ritorno. Sono risme di diavoli, invisibili, nascosti sotto terra, ma fumanti, a richiamarci.
Qui si viene per decrearsi e umettare gli angoli delle bocche sulfuree a chi vi abita. Qui l’uomo è zolfo, giallo, e distruttore di tutte le cose. Qui stranieri, baroni e gabelloti hanno sublimato all’inverso lo zolfo, annerendo terre e uomini. Disagio, depressione, decadenza, sciatteria, trascuratezza danno forma a Favara, e non basta il vivaismo culturale da Farm Cultural Park, roba per stranieri, baroni e gabelloti. Vezzo e ricreazione. Si è attratti dal ratto morto in pieno centro, non dai topolini dell’arte sloganistica e slogata, colorata e glamurosa.

Da Favara proseguiamo per Naro, imboccando la strada della diga Furore, punteggiata da vigneti, scaffe, avvallamenti, e monumentali discariche incendiate. Trentanove gradi. Naro, frontale, la fulgentissima, imponente col suo castello e il Duomo normanno propileico, un’ustione, fiammeggia e spara lingue di fuoco nell’etere. Il drago Naro.

Ma il mare non può essere spento. Imperterrito continua a prendersi le falesie di marna argillosa ed erode Eraclea, Giallonardo e la costa agrigentina tutta, solo Sciacca appare aperta, serena, forte, ognuno sembra stare al suo posto, sembra. Ancora per poco.

RESET – Angelo Rendo

È venuto da Marina di Ragusa, in vesti da lavoro e con una lisa magliettina a maniche corte, bello in carne e gioviale, accaldato, settantenne direi. Iperteso, diabetico, ma magari no. Si carica la bombola e sorride. Ridiamo guardandoci. E che cosa dobbiamo fare, ci hanno rizzittati (rassettati, riposizionati, resettati, azzerati) esclama in dialetto. Non c’è scampo, mi rimbecca, lei ha la mascherina, ma non c’è mascherina che tenga. Rimarrà chi è più forte. Dopo cinque minuti arriva un altro, in pantaloncini, lo stoppo subito, prima che esprima la sua richiesta, Anche lei viene da Marina di Rg, vero? Sì, è da due settimane che sono in pantaloncini. Ha ricci fitti, a guisa di anelletti per la pasta alla Norma, incollati al cranio, e l’occhio ha giurbino.

QUANDO ZIO SANTO MORÌ – Angelo Rendo

Con voce assai flebile mi disse di dargli il tovagliolo di carta appoggiato sul comodino. Glielo porsi.

Di fronte, la collina di San Matteo, che tutta si mostrava agli infermi.

Quel tovagliolo, conservato ora da qualche parte, servì quattro segni morenti, veloci.

Era la tarda estate del 2005, lo zio stava morendo, ed io lo assistevo.

L’ospedale Busacca ha una posizione invidiabile, accoglie luce da ogni parte, e fedelmente resta alla collinetta che guarda il colle San Matteo, e il centro tutto idealmente abbraccia.
Per chi muore la vista è lancinante e impagabile.

Leggevo, lui ritto mirava, fino a che non si fece prendere da un sussulto, e mi invitò a guardar bene il colle. Vedi la zattera? E vedi la libertà che guida il popolo? Balbettò Delà, Gericò, di lì a poco fu libero. Lasciò la zattera sul pezzo di carta. Entrò nella chiesa sconsacrata.

L’INCOGNITA – Angelo Rendo

Tuccio Tagliabua, scrittore, amava essere a corto di idee. No che gliene fregasse non averne, era più per gli altri, che ne avessero gli altri, e basta, di idee.
Non conosceva nessuno al mondo, non conosceva altri scrittori, cosa volevano, perché lanciavano grida, facessero i seri, ritornassero al loro antico mestiere.
Un giorno, attraversando il ponte della Triste Usazza, inciampò su una trista pietra; e fu allora che si imbattè per caso – gli ruzzolò fra le palle, diciamo – in Rocco Il Neonatologo, neoteologo, il quale non parve degnarlo, come fosse stato un vituperato trattatista ebraico, mentre era proprio lui, lui il pacificatore estremo delle rovine, lo scienziato, e tante altre cose, persino il costruttore, l’operaio, il sanpietrino, il trattatista, e avrebbe dovuto capire.

EPOMENI STASI SYGGROU FIX – Angelo Rendo

Le parole diventano umili, deboli e sconnesse; si piegano alla semplicità. Discettano sulle loro sorgenti. Compiono le azioni più scontate, vitali.

Uno scoppio nell’atrio del Museo Archeologico Nazionale ad Atene. Io che faccio la fila, Adriana alle mie spalle seduta. Adriana che svita il tappo della bottiglietta di acqua frizzante. E boooom! La bottiglietta rimane tramortita e ritta sul suo grembo, decollata, il tappo lì accanto giace. Nessuno che si preoccupa, l’acqua non si versa, ribolle, nemmeno sfiora le teste possa trattarsi di un attentato. Il botto è stato incredibilmente forte, da non credere. Adriana già si vede circondata dalle guardie, dai custodi. Io rido. Sono nel mio centro. Intronato. Gli altri ridono. Non è successo nulla, nessun controllo. Abbraccio il vaso del Dipylon.

Il Picasso in dialogo coi manufatti cicladici e dell’antichità greca al Museo Goulandris è terribile, gli basta niente, pochi gesti, per rimescolare le carte e diventare l’artefice cretese della testa di toro o il veggente scultore di idoli cicladico, il tebano, o il minoico appunto, il miceneo, distruttore di mondi. Questo fa Picasso, chiuso in una bolla temporale grande quanto l’orbe tutto. Fa confusione di ruoli.

Il maialino da latte a Kolonaki o le costolette di agnellone a Syntagma, il sovlaki di Pangrati. Epomeni stasi Syggrou Fix.

ATENE MANCA – Angelo Rendo

Il nero, vuoto e montuoso Peloponneso è ad una stretta di mano da Catania. Dall’alto, è una casa del cielo.
Un’ora e dieci per l’Attica. Atene. E il fondo, silenzio, nel lindo sottopasso del Venizelos a Spata.

Atene, ano d’Europa, e Grecia – panno usato e scosso da irresistibili venti occidentali – che teme, che desidera le coste turche, contro le quali impatterà, mentre le isole Egee, sconvolte da un ciclone indomabile, tentano di frenarne lo schianto, a guardar bene carta e forme.

Più l’occidente s’avvicina, meno si compattano le terre, e più l’oriente scarica le colpe al mezzo.

Rimane la rovina, la superba decadenza, l’angusto sentiero dell’abisso metafisico dentro quei volti strizzati e composti. La metro è un grande banco di prova, aiuta. Presa all’arrivo e mai più lasciata. Nessuna lingua straniera nelle viscere della terra. Gli Ateniesi covano il lutto. E da siciliano prendere parte all’ininterrotta processione dei treni è stato naturale.

Lo sguardo non è libero di vagare, come nei paesi dell’Europa del nord, ma deve dar conto all’umanità circostante. È per questo che non c’è più spazio. Atene manca. Secoli e secoli di esistenza non possono che condurre dritti alla tomba. Il tempo non batte più, come del resto se ne sbatte dell’Italia, il tempo.

Atene manca mi diceva Adriana. Certo, mi son detto, manca della morte, che la regalità sta apprestando per l’immondo futuro, o per il mondo futuro, abiotico.

LA COLOMBA – Angelo Rendo

Cos’è la vita? Non è forse una colomba, che instancabile vola per procurare il cibo ai suoi colombini? – mi ripete con dolcezza. A me manca la colomba, mi basterebbe accarezzarla, davvero. Invece la guardo volare, e cerco di imitarla, ma non so volare, mi limito a scavare la terra. E ne raccolgo i frutti per voi, non ho colombini che m’aspettano a casa. L’altro ieri, ho per caso sfiorato con la mano la spalla di una donna, sai come sono stato felice, ho lavorato da matti, senza fermarmi. Io che spesso patisco e facilmente mi scarico e tremo. Come ora, che vorrei fare alcune cose, ma una forza più grande mi ordina il contrario di ciò che sento. Mi tiene seduto, non mi fa muovere.

MESSINA SINCRONICA – Angelo Rendo

Aveva pronunciato solo qualche sillaba, così mi ero convinto fosse di Catania la signora. No, sono di Messina. Andata via, a due minuti arriva un signore. Lamenta male alle reni, scendendo dall’auto. L’umidità, ma quale… l’età! Lei è di Donnalucata? No, sono di Messina. Non fa in tempo a spostarsi dall’ufficio, dove paga, al box, dove ritira, che alle sue ruote preme un altro signore, di Marina di Ragusa; a questo carico la bombola in macchina, quindi dritti verso l’ufficio. Mi giro senza accorgermene e miro la sua targa. Messina. Trilla Whatsapp: Gradirei una Birra Messina – un’amica. Tarderà, gliela faremo trovare. Ma la berrà lei.

Se decidi di raccontare la vita, chi ti legge non ti ascolterà; un sorriso di circostanza, asincronico, e Addio!

IL MALOPPÈLO – Angelo Rendo

Poiché non dovrebbe fregarcene nulla – e invece poi uno ci cade, per amor del cielo, o di cose da poco – lascio aperta questa fontanella anteriore, strizzo gli occhi, e ricevo uno dei più saldi colpi uomo possa ricevere per potersi dire uomo.

Il maloppèlo? Cos’è?? Premesso a qualcuno interessi saperlo, non avrei voglia di dirvelo, sempre per stare a quella accortezza massima che distingue uomo da uomo, poi però uno ci cade, perché non è forse bello far notare le cose, chiamarle per nome, quando tutti se ne impipano e non vedono quanto siano reali, ci tocchino e ci facciano sparire, se vogliono, senza troppi scrupoli?

Il maloppèlo non è propriamente il garbuglio, si gloria, piuttosto, in carbonchio, in pustola. Chi ha il maloppèlo, ce l’ha dentro lo stomaco, quella rabbia cieca e dotta, quel villo andato a male, corrotto, quell’infezione covante nelle viscere e che cenere le fa. Se ne vedete uno, che soffre di maloppèlo, confortatelo, lui non vi può vedere, benché, da parte vostra, prendere il volo e torcere la frase per troppo umana pietà, lo libererebbe.

USO IMPROPRIO – Denis Montebello (trad. Angelo Rendo)

{Un racconto breve e strepitoso di Montebello, apparso sul suo blog.
Grazie Denis!}

Rileggendo un vecchio testo nel quale credeva molto, nonostante fosse giunto quasi alla fine, non smetteva di meravigliarsi. Molto tempo dopo, e dopo alcuni importanti rifiuti – cosa che, piuttosto, lo aveva oltremodo spinto a provarci con editori meno prestigiosi, poi con piccoli editori e persino con case clandestine o editori a pagamento – rileggendo questo manoscritto, in cui s’era imbattuto per caso durante delle grandi pulizie, e che aveva tirato fuori dal cassetto e aperto un’ultima volta, prima di distruggerlo, affinché di esso, nel quale lui aveva tanto creduto, non rimanessero che rimpianti, scopre, trent’anni dopo, di aver digitato (con l’indice della mano destra, che è sempre – sebbene sia passato dalla Remington alla tastiera, e si sia convertito con vero entusiasmo al computer – lo stesso dito a digitare) “mésuser” invece di “méduser”, ovvero ‘usare impropriamente’ invece di ‘sbalordire’. E poiché non c’era un correttore, un Robert che non s’era preso la briga di consultare – aveva fretta di finire ed era sicuro dell’ortografia – il refuso era rimasto. Che lo contempli pure sbalordito ora, e al tempo stesso rassicurato. Dentro questo guscio tutto ciò che c’è di più banale, che ci farebbe al massimo sorridere, egli vede – non riesce ancora a schiodarsi – le ragioni del suo insuccesso.