Tanto vi rilassa questo, quanto l’altro, quello in alto, vi sfinisce – Angelo Rendo

Capita che uno pensi – più del dovuto, sempre, o distrattamente – a quanto, in letteratura, fra una parola e l’altra si attorcano liane di ansia, relitti e miao metadiabolici. Che insieme, tutti, infestano il pensiero.

Un sistema binario, e le sue istruzioni, o un ribobolo informativo, invece, quanto siano capaci di disperdere le nebbie, chetare l’anima, esaltarla nel senso e in quale, potremmo affermarlo senza alcuna prevenzione. Tanto vi rilassa questo, quanto l’altro, quello in alto, vi sfinisce.

La poesia è un topicida – Angelo Rendo

Dal cuore aperto e placido della colonnina era possibile che il cane scappasse verso i covili e tutto odorasse senza troppo indugiare. Dunque, non conveniva armarsi di sospetto, meglio fermarsi ad asciugare le lacrime dell’animale, ché la gratitudine afferra alla nuca e prepara il giaciglio alla poesia.
Se due volte ti giri, comprendi. Con una sola volta, sbandi. Se pienamente vai, sfondi ogni posa. La ragione è questa.
Nella prosa mancano i vuoti campi gravitazionali, il discorso ammicca ad una compiutezza da pattern.
Nella poesia, invece, c’è l’errore – evidente all’occhio prima ancora che all’orecchio – un’oscura coltre del respiro, che genera fallimentari cadute, allentamenti. O riprovevoli altezze.
Qualcosa di simile a una carrozza è il nulla; perché non propriamente una carrozza, non chiedetemelo. Ché forse il nulla trasporta la nullità? E dove è la nullità? Non c’è. Il moto eterno nel silenzio che si taglia.
Ho un ricordo minimo, del quale poco mi pento, dell’attività letteraria, sono sempre stato un pelandrone letterario, un puledrone da spavento. Ho affrontato la parola da laconico, letto per disperazione. In una terra non mia.
Per quanto non esista, e, di massima, non segua i distinguo dell’intelligenza, dall’arguzia non si scappa. Chi è caduto nei suoi tentacoli, non scappa. Sigillato nella poesia.
In quel punto, lì, proprio lì – non temere – dove la strada s’allarga, lì, accanto al pantano posavano le anime della distrazione, giganti forti del loro fuoco.

Bisogna rispettare il tempo dieci
dodici ore al giorno il ragno fila.
Otto strade ferme e nere
quattro avanti quattro indietro
passi mi si passi
ora dentro
silenzio ragno.

I sette versi di questa poesia – dettatami dal ragno ieri visto sul muro di fronte alla camera da letto – fanno rientrare dalla finestra la sempre cacciata mosca in posa sul vaso di Pandora. Se rimaniamo alla lettera, il graffio non copre che una tara persa, il sogno dell’incivilimento della massa non è altro che la disperazione prodotta dalla fama.
Questo appunto pare scivolare di gradino in gradino per un difetto di visione: fino a che non si capovolga lo schermo e risistemi il piano.
La poesia naturalmente parla di nascosto, non che non si capisca cosa dica; ma nemmeno dice quel che non dice e non pensa; la massa poetica sta nel recinto, subito dietro il cancelletto, pronta ad accogliere il minimo scambio di parole, e già da un’altra parte, se la prevaricazione a tre gambe si apposta nel morbido giaciglio che lei appresta per gli spregiatori, i rovistatori che scartano i regali e svenano, tutti i ladri in falso contatto, la cui anima aperta alla sensiblerie più ruffiana del creato succhia la dannazione. Non più condanna divina, ma cartello in campo aperto a gloria imperitura per il poeta e monito, mina per l’invasore.
La parola ‘amore’ non necessita che di ‘nulla’. Ovvero della sparizione improvvisa di ogni calcolo. Perciò pronunciarla (scriverla), e per giunta come sigillo ultimo del libro – come fa Ben Lerner nel suo pamphlet “Odiare la poesia” – non è che lo svelamento di una pratica innocua. E di un poeta vecchio.
Che poi l’odio faccia cadere anzitempo i denti dell’ingranaggio poetico risulta manifesto dal tarlo poetologico di un’editoria prolassata.

Il topo continui a figliare prosa:
la poesia è un topicida.
Una poesia generi topi
e non s’opponga dopo.
Breve osservi fra le carte
rosa come il maschio
colore della prosa. Lunga
testa e coda.

Trenodie dal Terzo Millennio – Angelo Rendo

Mi piace immergermi dentro questa bolla di risorgenza situazionistica, che ha nella memetica la punta di diamante. Tante le declinazioni di questo fenomeno da tardoturbocapitalismo. Di interesse, fra le molte, le più navigate pagine di Bispensiero ed Eschaton. Di quest’ultimo a breve in libreria troveremo ‘Teoria della classe disagiata’ per Minimum Fax. Si tratta di autori poco più o poco meno che trentenni. All’attacco virale lanciato dal primo (Bispensiero) dal titolo “Alzati e boldrina” ho partecipato col collage qui sotto.

Il dato politico – avvolto dalle mentite spoglie che la progressiva decadenza confeziona per chi governa senza aver rotto lo specchio – è mimesi di un limite ultimo, contro il quale questi intellettuali cozzano.

neo-avanguardia inattuale vs incalcolabile vastità del mare

[Su Nazione Indiana in questo Marzo 2013 si e’ tornato a parlare di poesia sperimentale vs poesia lirica. Ne e’ sortito soprattutto un duello in punta di verso fra Gilda Policastro e Natalia Castaldi, seguito da un contributo teorico di Lorenzo Carlucci. Una buona occasione per fare il punto dei lavori, dei saperi e delle inclinazioni. GiusCo]

Penso che un punto di incontro fra l’approccio teorico dell’una parte e quello pratico-condiviso dell’altra possano essere alcuni testi di Gabriele Frasca: erudito e consapevole, ma anche talentuoso e scorrevole. Presentare e discuterne alcuni potrebbe forse aiutare l’avvicinamento. Rimangono di base, a mio avviso, forti differenze di postura e di aspettative: piu’ orientate al mestiere e ai titoli gerarchici nell’ala a supporto di Policastro, piu’ orientate alla comunanza su base solidale e resistente in quella a supporto di Castaldi. Resta inteso che in questo esatto momento storico, tecnologico e sociale in Italia, i due approcci si equivalgono e che dunque possiamo permetterci di avvicinare i testi senza remore da parruccheria (ostilita’ pregresse, snobismi, ecc.).

Se tutti condividiamo la “sintassi del linguaggio” [livello 1] italiano, le differenze saranno in “strutture concettuali” piu’ grandi [livello 2] (idiomi, ma anche algoritmi e strutture dati) e nei processi [livello 2a] implementativi per raggiungere un determinato obiettivo. I “pattern” [livello 3] alzano il livello di astrazione su cui si progetta e si discutera’ quindi delle scelte progettuali. Il Gruppo 63 ha avuto il merito di astrarre la poesia italiana al livello 2, quel che in seguito l’informatica (negli anni ’90) ed ora i linguaggi applicati delle scienze dure (chimica, imaging applicato alle neuroscienze, genomica, ecc.) hanno portato al livello 3 per uso industriale e dunque ingegneristico. Detto banalmente: dalla “poesia” [livello 1, diciamo la lirica nell’Italia pre anni ’60], passando per la “poesia procedurale” [livello 2, diciamo Sanguineti e le rigatterie epigonali a lui seguite] fino alla “poesia della progettazione” [unico esempio contemporaneo per me significativo: il flarf, oltre ai generatori automatici di poesia tipo quello di Roberto Uberti qualche anno fa].

Qualche anno fa guardavo gli studi sugli invarianti universali del linguaggio umano del Prof. Nigel Fabb (http://www.strath.ac.uk/humanities/courses/english/staff/fabbnigelprof/), ma la dimostrazione della loro fondatezza o meno e’ in mano al neuroimaging, che per adesso non se ne occupa direttamente (http://www.poetryfoundation.org/poetrymagazine/article/240250). Un’altra via puo’ essere impostata teoreticamente applicando alla poesia il lavoro del Prof. Hartry Field (http://philosophy.fas.nyu.edu/object/hartryfield) e questa e’ la strada che mi intriga di piu’ ma carmina non dant panem, dunque se ne occupera’ qualcuno dei triennalini aggiornati di Lettere o qualche dottorando di impostazione filosofica. In Italia abbiamo il gagliardissimo Umberto Eco (per esempio qui http://www.umbertoeco.it/CV/Combinatoria%20della%20creativita.pdf), ma non credo possa applicarsi alla poesia se non come mitopoiesi invece che forma propria del linguaggio.

Insomma, molto si puo’ fare. Chi ne ha voglia?

Mi costruisco un sistema di pensiero (e una poetica)

[Ennio Abate ha ripescato un mio vecchio intervento teorico del 2001 e lo ha riproposto su Moltinpoesia. Lo ringrazio. Ripropongo qui, per completezza e in file .pdf gratuito, l’altro contributo di pensiero e di poetica che mi rappresenta. GiusCo]

“Di partenza sto sul versante Quine, nel filone delle “Ricerche filosofiche” di Wittgenstein.”

“È inutile, nelle mie attuali condizioni di vivente immerso in un così chiamato secolo Ventunesimo dell’era cristiana in Europa Occidentale, fare il vareliano: posso tranquillamente cavarmela con le simulazioni: mi basta imitare e modellare la fenomenologia osservabile, sicuro di ricavare un quadro già fedele anche per i nostri scopi letterari; gli affinamenti successivi e il senso complessivo li lascio a studiosi di professione. Resta da definire a cosa può servire la poesia, collocata negli strumenti a forte capacità induttiva più che simulativa.”

“Le teorie cambiano all’aumentare della penetrazione logica (che mano mano accantona le vecchie teorie, aprendo alle nuove, che a prima vista possono anche sembrare del tutto nuove) ma l’aspetto relazionale di fondo, quello che le teorie sottendono, rimane lo stesso, e quello è il limite conoscibile: è l’aspetto relazionale del mondo esterno ad essere indagabile, non il mondo esterno in sé. Le teorie parlano delle relazioni e non di cosa è il mondo esterno.”

“Scrivere in informatichese (partendo cioè da un sistema sintattico) afferma una scelta razionale: la superiorità della sintassi sul segno o, meglio, la riducibilità del segno alla sintassi o, ancora, la valenza nella sintassi prima che nel segno. Tornando all’Eco citato da Marchese e dunque alla poesia: le parole sono scelte dal ritmo; ovvero, economicamente: le stringhe sono scelte dalla sintassi, rigettando l’ermeneutica e la storia delle singole parole. Rimanendo sul piano della sintassi, le neuroscienze sembrano confortare: il cervello pare strutturato sintatticamente, non ritmicamente.”

“E il lettore? A lui conoscere e condividere l’enciclopedia delle sintassi, dopo di che ragionerebbe sulle stringhe. L’adozione della “stringa economica” quale natura base dell’espressione poetica, circoscriverebbe la poesia al modo di dire le cose senza parole inutili e costituirebbe un punto d’arrivo fisiologico prima che pragmatico. Ermetici (iniziati), gnostici (esiliati), alchimisti (simbolici), ermeneuti (interpreti), sociologi (giudici) sarebbero tutti fuori gioco, giacché nel mondo fattuale regna il principio di economicità, rigidamente ma liberamente sintattico, agonistico, comparativo rispetto alle isotopie possibili e precedente le elaborazioni della pragmatica.”

scarica la versione completa in formato .pdf:
Mi costruisco un sistema di pensiero (ed una poetica) 3.0, marzo 2008

“La pittura dopo tutto” – di Francesco Lauretta

La pittura nasce insieme a noi e la sua presenza pare normale nella nostra esistenza come normale mi pareva quella luce che baciava l’asfalto di via IV novembre dove giocavamo coi calzoni corti e disegnavo storie – per me stesso, per altri bambini e, a volte, per mio nonno e il pittore Borgia – come le avventure di Lassie, di Rin Tin Tin, La Freccia Nera, più avanti Sandokan e Tarzan e infine le avventure degli eroi della Marvel. Era naturale: la pittura era insieme a noi dappertutto. Poi, fortunatamente, si cresce e non si vede più niente. Quando si è giovani non si vede niente o così è per la maggior parte di noi, o meglio si vede altro e altrove cose ma soprattutto sé stessi, narcisi innamorati tanto da vedere nient’altro, e quella pare vita. D’altronde cos’è la gioventù se non questa spensieratezza, questo vivere non vedendo? Questo meraviglioso ebetismo?, e se desideri di fare l’artista, e ti guardi intorno e non trovi niente, nessuno strumento e ti chiedi come e con cosa incominciare, comprendi immediatamente che la pittura se è vero che è il linguaggio più facile e diretto per iniziare è anche già cosa vecchia, remota.

***

1999, via Matteo Pascatore 4, Torino, ore 18 inaugurammo per la seconda volta, una mostra in casa. Differentemente dall’anno precedente, io e Y non intitolammo l’evento e non comunicammo alla stampa la notizia della vernice né, tantomeno, invitammo galleristi, critici, collezionisti e compagnabella. Come in “Disumanesimo” occupammo tutti gli spazi possibili compresi il bagno, la cucina, stanze da letto eccetera. Per l’occasione esposi un’opera intitolata “Autoritratto” e misi alla prova due pittori che, senza esclusione di colpi, si misurarono ritraendosi l’un l’altro in quella che fu una vera e propria maratona, una vera e propria sfida delle proprie capacità, un duello, per dirla cinematograficamente. Avevo allestito un vero e proprio studio di pittore con colori, tavolozze, cavalletti e altri strumenti facili da immaginare che generalmente arredano lo studio di un pittore. I due pittori sono SG. e SG., due fratelli, due prodigi visto che da giovanissimi riuscivano a copiare con una felicità disarmante le opere impossibili come quelle di un Raffaello, di un Rubens o Bacon e lo stesso Richter. Chiesi loro di mettersi uno di fronte all’altro, di realizzare il ritratto dell’altro fratello e una volta finito il lavoro di firmare la tela col proprio nome. Questo comportava il fatto che il ritratto di Sergio portasse la firma di Salvatore G. e quello di Salvatore la firma di Sergio G. e l’intera opera la mia firma. Titolo: “Autoritratto”. L’autoritratto del pittore non poteva essere diverso da quello che desideravo mostrare: un mettersi in gioco delle vanità, uno scontro vanitoso di identità sempre in conflitto, un continuo cadere, un isolamento “spostato” – disturbato -. Questo  “Autoritratto” costituito non solo da un raddoppiamento ma anche da quello che definirei una deflagrazione dell’identità mi permise non solo di provare la distanza o lontananza di me come soggetto mettendomi in compagnia dell’alterità – vedi Bubblegum – ma anche del ruolo del pittore, e io mi ero servito di due ‘grandi’ pittori come pochi ne esistono oggi al mondo, di due pittori falliti. SG e SG sono falliti nel momento in cui hanno rispettivamente scelto di fare un’altra professione rispetto a quella di pittore che da sempre sognavano, e sognano di fare. Il fatto divertente è che oggi, entrambi, quando vedono una mostra di pittura, si fanno delle grasse risate.

Infine, leggevo nella notte che Wyndham-Matson, sotto torchio, mostrò a Rita due accendini: ”Guardali. Sembrano uguali, no? Bè, ascoltami. In uno di essi c’è la storicità”.”Non la senti? La storicità?”. ”Che cos’è la storicità?” chiese lei. ”E’ quando un oggetto ha la storia dentro di sé. Stammi a sentire. Uno di questi due Zippo era nella tasca di Franklin D. Roosevelt quando venne assassinato. E l’altro no. Uno ha storicità, anzi ne ha un sacco; più di quanta un oggetto ne abbia mai avuta. L’altro non ha niente. Non c’è nessuna ‘mistica presenza plasmatica’, nessuna ‘aura’ che lo circonda”. ”Dai” disse la ragazza, intimidita. ”E’ proprio vero? Che aveva uno di questi con sé, quel giorno?””Certo. E io so qual è: Capisci il mio punto di vista? E’ tutto un grosso imbroglio; Voglio dire, una pistola viene impiegata in una famosa battaglia, come quella di M-A, ma se non fosse stata usata sarebbe esattamente la stessa. A meno che tu non lo sappia. E’ tutto qui”(1), e continua e anch’io continuo.

(1) La svastica sotto il sole di Phil Dick.

Intemporanea

Intemporanea

(riflessione sull’eterno presente)

 

                                                                                                                   Sul nostro mondo “non è più sostenibile la
vecchia separazione tra «dentro» e «fuori» o,
                                                                                                                     potremmo dire tra «centro» e «periferia»”.
 
Zygmunt Bauman
 

 

Il Popolo non è più una classe sociale (distinzione tra Popolo e popolo, vedi Giorgio Agamben: Homo Sacer). Il Popolo è l’umanità – l’appartenenza e il riferimento.

Popolo = Umanità, nell’equazione si sottintende che sta per realizzarsi il messaggio di Marx (in parte anche quello di Adorno): l’avvento del comunismo appare come la neutralizzazione di una coscienza e l’assoluta inerzia rispetto alla materia (il cui paradigma è rappresentato dal capitale). Non vi sarebbe allora distinzione, o scissione, nel pensiero di Marx, per il quale solo con la realizzazione assoluta del sistema capitalistico a livello globale (globalizzazione “negativa”) si può concretizzare l’essere in comune del Popolo (sarebbe riduttivo, da quanto detto, ritornare ad una distinzione di “classe”, poiché proletariato e borghesia, per quel che è accaduto attraverso il modello occidentale capitalistico nel mondo dagli anni ’60 del novecento ad oggi, sono stati livellati nella “neutralizzazione” dei valori; il nichilismo compiuto infatti non distingue tra valori veri o falsi).

Il comunismo è dunque avvenuto (sta finendo di avvenire) attraverso la frammentazione glocale del Valore Assoluto (la materia), ciò consolida la sua affermazione, metonimicamente, altrimenti non esisterebbe la stessa dialettica dell’Ab-soluto (lo Spirito Assoluto è sempre avvenuto – Hegel – con Marx siamo diventati consapevoli dell’ineluttabilità della nostra presenza in comune anche nella prassi).

Se, come sembra, l’umanità è immersa nel suo avvento, resta nuovamente alla coscienza decidere fino a che punto sia possibile spingersi nel post-umano, senza confondere le sue diverse esigenze con un’incombente dis-umanizzazione; il presente si incontra col futuro e si proietta, costituendo il nostro ulteriore presente: l’Eterno presente in cui non sembrano più occorrere altre dinamiche e strutture. La tecnica fonda, dalle origini, la condizione precaria del post-umano e, in tal senso, l’uomo è sempre stato postumo: emancipazione e/è salvaguardia, libertà e/è protezione.

Mentre essere dis-umanizzati conduce all’autodistruzione (campi, di concentramento e non), essere consapevoli della post-umanizzazione, sempre avvenuta, comporta una verifica dell’impossibilità di azione, sposta l’asse decisionale sul terreno “mortuario” dell’impotenza. L’umiliazione dell’azione limita lo stesso volontarismo del Potere, neutralizza la potenza dis-armandola.

La post-umanità, essendo assoluta, all’evidenza della sua stessa definizione rende sempre dialettica la questione del miglioramento. Dopo l’umano, l’umano dopo l’umano è pur sempre una “determinazione” (la scelta, il clinamen) a-prioristica.

L’indeterminazione non conduce a nient’altro che a ristabilire il processo dialettico, perché non può che rinunciare, data l’incommensurabilità di ogni sistema, alla stabilizzazione totale dei sistemi stessi, per questo restiamo fermi all’assolutizzazione, senza interno o esterno, di un insieme consustanziale al proprio fuori-insieme: la meta-dialettica in cui consiste il post-umano nella sua ineffettività. La speranza, impercettibile metafisica, decontestualizzata da ogni atteggiamento dogmatico e attivistico, sembra rappresentare “l’infimo inizio” dell’ulteriore procedimento dialettico.

La stessa indeterminazione allora ci determina e ci assimila ulteriormente (la lenta deriva di un tempo cosmico non è paragonabile alla relatività di un tempo umano) all’Ecosistema (ovviamente il mondo, non più la tribù e forse neppure il pianeta), l’insieme di appartenenza che si dimentica a causa – nella determinazione – dell’indeterminazione.

Contribuire alla salvaguardia del mondo, di una vita nello stesso mondo, perché la coappartenenza continui a verificare la reversibilità del rapporto vita/morte. Non vivere il capovolgimento (come ancora in Marx avviene nella sua sfida dialettica con Hegel) ma la sua neutralizzazione, essere per il fatto stesso di essere perché siamo il sistema nella sua salvaguardia, lasciarsi andare all’impotenza, la libertà stessa dell’Ecosistema.

 Gianluca D’Andrea

John Koethe, Poetry and Truth

When I talk about poetry and truth, the truth I’m talking about is the truth of the kind of abstract thoughts that get expressed in the course of many poems— and not just in poems, but literature generally. Lamarque observed quite correctly that abstract thought is unavoidable in poetry, and thus that it makes no sense to claim that poetry is somehow better off without it. Now I know that there is a kind of tradition in modern and contemporary poetry that holds that you ought to avoid the abstract and discursive and stick entirely to the concrete and particular—“No ideas but in things.” I even recall listing to a panel once in which two well-known poets seemed to be vying with each other to see who could come out most strongly against ideas and in favor of stupidity in poetry. But the simple fact is that part of our experience—and I take it to be the role of poetry to respond somehow to experience—is the experience of thinking abstractly. And if we proscribe it, I think we’re working with a very attenuated conception of experience. I’ve discussed this elsewhere and am not going to argue for it today. But that’s my view.

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Inno metalinguistico sproiettato

Inno metalinguistico sproiettato

La città “è” la banalizzazione del luogo, lo spazio libero anticoercitivo, senza limiti se non quelli fisici dell’altro oggettuale (palazzi, marciapiedi, pali, piloni, semafori, cani, gatti, uomini ecc.).

Sfiorare i limiti, le soglie corporee – primo grado di un rapporto aleatorio – inizio di una pregnanza avvertita come irriducibilità del mondo, l’ormai classica irreparabilità.

Solo l’essere banale, conscio della propria mancanza di originalità, della propria messa al bando (che si mette al bando), riesce ad intravedere una diversa singolarità comunicativa divenendo il principale nemico dello stato in quanto a-politico abitante, o meglio, commerciante-cliente non cittadino, mercante primitivo del proprio essere disseminato che, essendo consapevole della propria singolarità comune, diviene responsabile della propria assenza di scopo o fine (sé in-finito, in ogni caso continuamente provvisorio, precario). E’ questa – dell’essere singolare comune – l’unica prospettiva plausibilmente slegata da ogni forma di nichilismo, l’ottica nuova che riesce a svincolarsi dal tentativo concettualmente obsoleto di una ricostruzione identitaria, quel punto di vista in-finitamente di-versificato il quale conducendo ad effettiva estraniazione produce il libero movimento dell’essere, la sproiezione nella varietà-verità del mondo.

Proprio perché a-causale (casuale), il singolo comune è inadatto a sciogliere il nodo individuale e in tal modo è sempre pronto ad accogliere e disperdere (da un punto di vista fisico, si pensi ai residui organici e non), ad appena avvertire – sfiorare – l’altrui soglia ovvero il comune esser vago nel vuoto: ogni eventuale legame è disciolto nell’eventuale presenza-assenza. Metaforicamente l’essere singolo comune è campo coltivabile indefinitamente a cui s’intreccia (non si sovrappone) la figura del seminatore razionalmente consapevole dell’impossibilità di auto-inseminazione – in pratica la fertilità di un interscambio attivo, osmotico, d’azione. Paradossalmente questa sproiezione metaforica dell’essere singolo comune tras-pone un principio individuale dell’ordine delle cose, non un ritornare dialettico bensì uno stornare in itinere: nel senso che l’azione sproiettata nell’a-spazialità (precipuità ineffettiva) del continuo movimento spaziale dis-pone alla creazione di un mondo (mistificazione assidua: la nuova tecnica o la nuova arte se si vuole).

La nuova visione che scaturisce da questa trasposizione dispositiva dell’essere si spiega in termini di stupro identitario che il singolo compie nell’approccio, accettazione, connessione all’altro (abolizione definitiva di qualunque concettualizzazione di verginità traslata; piuttosto ritorno all’origine etimologica cioè alla spinta e poi forza, energia, turgore, nutrimento, maturità – lo slancio è l’opposto della stasi, l’intatto l’immacolato è deflorazione). Stupro identitario cioè perdita di una memoria atavica, il vetusto valore della tradizione occidentalidentitaria: la dissoluzione della trita memoria è pratica, ginnastica di continua sostituzione, etica nuova nuovo costume, nuova prospettiva, frustrazione del fine – la verità – nessun centro, nessun bersaglio, l’unica attenzione possibile è dis-tratta e quindi attratta su ciò che potrebbe sfuggire.

Solo un’attenzione disattenta all’evidenza del momento è accadimento del reale, desiderio d’esterno, dispiegamento di mondi intreccio momentaneo e dissoluzione di trame, sboccio, aria, amore. Scaturigine spontanea di una partecipazione ineluttabile proprio perché involontaria, la vita è dovere esorcizzare la morte come concetto a-priori, blocco dovuto a un preconcetto identitario e umanista, nonché, in quanto esperienza decentralizzata, apertura al possibile.

Gianluca D’Andrea (23/05/2003)

http://www.nabanassar.com/testinno.html

 

Il poeta selvaggina (una parte) – di Gianluca D’Andrea

il poeta selvaggina
il poeta selvaggina

In un illuminante saggio apparso su Atelier 53 del marzo 2009 si discute del rapporto tra opera artistica e ingenuità primigenia dell’autore della stessa; sono attraversati “a volo” interi secoli di letteratura e attività dell’arte (si parte dall’Odissea dei viaggi “meravigliosi” per giungere, saltando le stagioni e accennando ad autori decisivi dell’ ‘800 e ‘900, ad una riflessione sull’umana struttura e, forse, essenza – in senso universale).

Prendo spunto dalle idee del saggio per sfiorare un’altra prospettiva, diversa faccia della stessa medaglia, quella dell’artista maturo e “civile” (meglio dire “civilizzato”), uomo culturale, razionale, in un certo senso ovattato. La scelta mi sembra scaturire dal tentativo di integrare (sempre “a volo” o di sfuggita) lo splendore emanante del “poeta selvaggio” con la sua zona oscura (o illuminata?), occupata dal “poeta selvaggina”, l’uomo di mercato, colui che tenta la propria agnizione e la sente come il risultato di un riconoscimento immediato e, a tal scopo, sembra darsi o essere dato in pasto alla società degli uomini.

Nessun tentativo di approfondimento in direzione d’esaustività muoverà la mia penna: si tratterà piuttosto di bagliori e intermittenze, secondo lo stile del saggio originario.

Il saggio e’ qui: http://www.nabanassar.com/ilpoetaselvaggina1.pdf