CITTÀ FANTASMA – Angelo Rendo

‘La mia città’ di Antonio Moresco e Giuliano Della Casa – appena uscito per Nottetempo – si legge in un quarto d’ora. È il Moresco favolista, che sigilla il proprio fantasma. Una evocazione precisa, minima e puntuale. E Della Casa che prontamente sparisce. In un punto, in un appoggio che manca e nella fredda monumentalità della sofferenza.

Il genere prevale sul caso – Angelo Rendo

Molti fra i più prolifici e logorroici scrittori italiani contemporanei sono dei sessuomani. Scrivono di preti, scuole, seminari, università, bel mondo, haute société, sezioni, bagni pubblici, seghe, marchette, stupri, moralismi, tic e cit. Ripartiscono, separano, secano: ciò che l’intelletto fa quando spinge e ordina. Albinati, Arbasino, Busi, Mari, Moresco, Siti. Del primo, ad esempio, ieri ho distrattamente preso tra le mani “La scuola cattolica”. Nel retrocopertina l’autore sta in posa e un buchino nero gli resta al centro delle labbra. Tutto l’emerso respira. Apro a caso a pagina 193, e continuo a leggere fino a pagina 194. Albinati racconta come da adolescente al solo sentir nominare la parola CO-STU-ME (da bagno) mettesse mano al pistolino e corresse a masturbarsi. Di come fosse dotato di una “sensualità sconvolgente”.

Anche quando vi è sessuofobia, il genere prevale sul caso. La storia è solo un accidente.

Luigi Grazioli per Francesco Lauretta

[Dal 6 dicembre al 14 febbraio 2014 Francesco Lauretta è alla GAM di Palermo con la personale dal titolo “Esercizi di equilibrio”. Per l’occasione pubblico in tre puntate i testi in catalogo di Claudio Cinti, Luigi Grazioli e Angelo Rendo. A. R. ]

Disegno del mattino
Disegno del mattino

Sarai

È come se tutti gli strati di colore che Frenhofer aveva sovrapposto sulla tela lasciando affiorare in un angolo solo un unico piede, sia pure di bellezza folgorante, stessero pian piano evaporando lasciando serie successive di stesure monocrome, rosse e azzurre soprattutto, all’interno delle quali, a seconda delle angolazioni e delle distanze, emergono forme, figure, abbozzi, tracce di altre tracce cancellate e rinascenti, memorie, progetti, scarti, tutti assieme, o come in un brodo primordiale delle figurazioni, o della percezione, o di emozioni ignote e potenti che cominciano a fissare questo o quel segmento, o volume, o sfumatura o linea o segno, a provare a dare un nome, ancora prima che a eventuali cose da esse sorte, alle intensità da essi suscitate, al disagio, e all’euforia, della loro confusione, a questo continuare a essere con, e a essere ancora e sempre, insieme, questo e quello, e poi di vedere un questo e un quello che cominciano a fare segno, a dirsi e mostrarsi, pronti sempre a ritrarsi ma già, almeno nei sensi, vivi, riconosciuti, tanto che poi anche perderli è bello, e non importa.

(o come nel magma lavico di un vulcano, dentro, prima ancora di uscire, o Sotto il vulcano, come nella serie di Pierre Alechinski, come nel libro di Malcom Lowry che l’ha ispirata, o nel Vulcano di Antonio Moresco, o nei suoi Canti del caos)

La lucina, di Antonio Moresco (contiene SPOILER!)

[AVVISO: questa lettura rivela trama e finale del racconto, evitarla se si vuole conservare la suspance! GiusCo]

Deve essere un caso -o forse no- se questo ultimo lavoro di Antonio Moresco viene reso disponibile al pubblico una settimana dopo l’annuncio di Papa Ratzinger / Benedetto XVI circa le sue dimissioni. Pare infatti di vederlo, il vegliardo teologo stanco di banchieri, pedofili, corvi e secolarizzazione, ritirarsi in cima al Monte a preparare il congedo terreno a contatto solo della sua Fede. Ed in effetti questo lungo racconto di Moresco inizia con un uomo -presumibilmente piegato da sofferenza e solitudine- che si ritira a vita privata in una casa diroccata, in mezzo alla vegetazione ed in solitudine. Il recupero degli atti primordiali di una vita slegata dal vacuo rumore urbano -il modico mangiare, il dormire, il lavare i panni- si fonde in breve tempo con un apprezzamento crescente del mondo altro, quello vegetale, dei suoi suoni (i movimenti degli animali nel silenzio della notte) e dei suoi colori (il fogliame, i fiori). Un uomo separato da tutto cio’ che e’ relazione, salvo venirne riattirato quando nota una lucina accendersi su, in cima al monte, nella notte. Una lucina verso cui e’ irrresistibilmente attratto. Qui il racconto si fa commosso, il presagio dell’ultimo viaggio si fonde con il fantastico della narrazione: su in cima vive, infatti, un bambino morto che si comporta da vivo, va a scuola di notte assieme ad altri bambini morti nella stessa scuola del paese dove di giorno vanno i bambini vivi, fa i compiti, si prepara da mangiare, fa il bucato. L’uomo entra in quello che possiamo definire meccanismo del trapasso (o forse di tutto un sogno preparatorio, premonitore, lucina e bambino inclusi) quando chiede al bambino come e’ morto e quello risponde: “Mi sono ucciso, mi facevano del male”, quando cioe’ guarda dentro la propria vita e quel che e’ stata, ritrovando la sua innocenza creaturale. Da qui in avanti e’ una preparazione al colpo di scena dell’ultimo capitolo, che avviene dopo un giorno e una notte di bufera nevosa che ha colorato tutto di bianco, come a rappresentare la Luce o l’indistinto. E’ un trapasso laico, pero’, irrisolto: l’uomo, dopo una notte insonne e di bufera, si preoccupa del bambino morto che vive tutto solo nella casa in cima al monte e va a prenderlo per portarlo con se’, dove non si sa. Nelle ultimissime pagine del libro la voce narrante diventa quella del bambino che sente battere l’uomo alla porta della casa, cosicche’ non si capisce chi sia l’uno e chi sia l’altro o forse si capisce che la vita -come quella degli animali e della fitta vegetazione- e’ solo un ciclo di nascite e morti, di vecchi animali/fiori/uomini che rinascono animali/fiori/bambini e vengono a loro volta salvati da vecchi che rinascono bambini. Un panteismo laico, la risoluzione della vita dentro la vita stessa e non in una metafisica uscita verso un Che. Lo stesso dubbio che puo’ aver colto il vecchio Papa Ratzinger, ora solo nei suoni e nella vegetazione, con la sua lucina in cima al Monte.

© Giuseppe Cornacchia, 15.3.2013

Canto dei lettori dei Canti del Caos

C’eravamo anche noi al briefing. Eravamo nascosti sotto la scrivania a guardare la Musa e a raccogliere gli assorbenti dilatati di quell’altra fontana. Alcuni chiamavano Pompina, altri Ditalina, altri ancora Bodyna. Qualcuno sussurrava al Gatto pssst, pssst circa un manoscritto. Il softwarista non poteva vederci, era troppo occupato con l’account, poi con la donna dal viso scoppiato. Ma c’eravamo anche noi e li’ siamo rimasti dopo che tutti siete usciti e prima che arrivasse la Meringa. Quando la transazione e’ stata accettata, nel prima dopo che era’ sara’, noi stavamo discutendo con il pestatore di merde di cui avevamo letto su un giornale, visto delle foto.

Se non ci siamo mossi, se nel raccoglimento e nella convergenza verso l’annuncio noi mancavamo, se Antinisca pur ci chiamava senza risposta, e’ perche’ noi effettivamente mancavamo, eravamo infatti la sostanza mineralizzata e non ancora increata nella testa del Matto, eravamo lo schizzo increato e investito prima ancora che il Matto increasse se stesso, prima ancora che la Musa aprisse anche a noi il suo letto arlecchino. Noi trapanavamo lo studio dell’ultimo snuff movie mentre Lazlo dava al Matto il lanciafiamme. Noi reggevamo le tubature della Citta’ di Sperma mentre Dio, un Dio per ogni Popolo, un Dio per ogni miliardo dei cento cinquanta ottantavanta triliardi di biliardi di Popoli, mentre ognuno di questi Dio increava increa increera’ il suo Matto. Noi che reggiamo i tubi, noi circondiamo nel buio della luce fermata il Matto pronto all’uscita che era’ era sara’, noi a nostra volta seguivamo Aminah assieme al prete, noi gli arti rigenerati di Aminah mancata che era, noi padrifigli attoniti in questo increar per via di schizzo minerale in sottopancia tutto scopato e insanguinato, noi non lo vediamo, non ci serve, e’ una maschera di porcellana che qui non usa piu’.

E dunque noi, quando Lanza e’ tornato con il gelato, abbiamo avremo diciamo solo: gemmazione! Il pianeta che e’ stato transitato era uno e si e’ fatto due, poi quattro, poi otto, poi sedici e sessantaquattro. Ma questo pianeta transitato, investito, increato, poi cos’e’? E’ un battito di ciglio, e’ quello che abbiamo cercato per anni da quando siamo nati in Egitto, noi imperatori di giustezza, noi gia’ increati nel Matto quando ancora quello pestava le merde. La transazione e’ avvenuta.

Come Noto in/un altro loco – (restaurato)

[Rimesso in piedi un vecchio intervento parlato del 2003, a uso del tipo umano carnascialesco.]

Angelo Rendo

L’intrattenimento e l’incondizionato

Da una parte le gare, i campionati, i maestri di cerimonia. Le arie, le aure dei presenti, degli assenti, degli assistenti, del novellame, del mucco. Dall’altra parte ciò che esorbita, si impone, nudifica, nidifica: la nudità del corpo testuale. Ciò che si ha da guardare prima, mentre, dopo, oltre la previa autorizzazione castale.

Tenere le scarpe per terra

“Metà dentro/metà fuori”, beatamente i moralisti dell’integrazione. Coi loro romanzi frutto di committenza, marchette fra le tante, scaturiti dal fascino per l’imbecillità, le miserie, la pochezza umana, il modo meschino di ragionare. La poesia, invece, mirerebbe all’intelligenza, alla nobiltà, alla grandezza, all’intelletto. Secondo lo Scarpa dell’ottobre 2003, il quale scambia vendibilità di talento con spocchia d’invenduto.

Intanto Antonio Moresco. Moresco messo davanti, in avanscoperta, Nike di Samotracia, polena che fende flutti e venti. Onore a Moresco.

Moresco ha ucciso letteratura e scrittura, aprendo il punto, eliminando gli stanchi continuatori suoi coetanei, tutto quel segmento di nostra paternità biologica; è ritornato nonno.

Non c’è relazione in Moresco, tutto passa per le sue fauci, ingoia tutto, assorbe, vampirizza, infine vomita. Automortificazione sistematica, masochismo, quindi, visione.
Una scrittura patologica, via via sistematasi in opera. La concessione reazionaria, il passo falso tramite cui l’autore si innalza per la scala e, infiltrato, inizia a spingere sotto gli spaventapasseri traffichini.
Una poesia lirica sulla merda che rima con sentimentalismo; cosa altro è la esibita pornografia, se portata al punto di fusione, e di bianco massimo? Grazia o sentimentalismo? Arrivato tardi, Moresco, senso di colpa inconscio della postmodernità, compartecipa all’opera di vendita del pianeta.

Le forze demoniache si debbono risolvere, incanalare, dialettizzare?

Zavattini e l’illusione

Sei anni fa circa, 2003, mi capitò di leggere un invito di Zavattini agli scrittori italiani, riportato su “Il Rinnovamento d’Italia” del 4 agosto 1952. Vi era scritto:

“Nella mia ignoranza è apparsa spesso l’idea che saremo migliori solo quando non avremo più bisogno di scrivere, ma la nostra partecipazione alla vita sarà così aperta – ad angolo piatto- che l’essere e il raccontare si susseguiranno come il baleno al tuono, anzi si identificheranno.[…]

Parliamoci francamente, noi scrittori teniamo il piede in due scarpe. Abbiamo tutti i difetti dei borghesi, la vanità, l’orgoglio, la superbia, la difesa di noi stessi fino alla spasimo, soprattutto il facile oblio delle numerose ingiustizie che vediamo e di cui ci ricordiamo solo nell’attimo cosiddetto creativo.[…]

Ci spogliamo sulla pagina, e così la nostra coscienza si placa. Noi sappiamo che proprio lentamente quei nostri avvertimenti entreranno nel patrimonio del tempo, tuttavia ce ne accontentiamo sfuggendo quell’altra battaglia.[…]
Io credevo che la novità spirituale degli italiani potesse consistere in questo dopoguerra nel considerare ad ogni costo il problema dei poveri, degli infelici. Ma noi abbiamo una troppo soave pietà di noi stessi come se ci guardassimo essendo ancora bambini.”

Fin qui Zavattini.

In questo meccano, sporgo oltre la mia bocca, nella mortificazione dell’altrui propensione, la qual proietta su forme innate clamori d’oltremondo e gloria, o risibile gomorra: i migliori, i maestri, i saputi, i risolutori, le schiere di sordi affamate di sangue.

All’inseguimento del demoniaco – Rendo legge Parente

Contronatura è un libro dello sforzo, di “un uomo finto e finito”. Di uno scrittore della fine, la cui “unica funzione nel mondo è quella di contribuire alla distruzione del mondo”. […]

Il libro è leggibile, fa strepiti, risulta innocuo. Con l’incessante ricorrere di seghe, pompini e stronzi cacati in bocca, Parente porta allo stremo la lingua, ne fa linguaggio da coazione a ripetere di una società pornografica. Contronatura, il tassello finale. […]

Tutto è dato, lo scrittore, assai estrovertito, dice troppo e tutto, prende per mano e non ti lascia più, pensa al posto tuo. E’ un libro aperto. Avvicinabile, nel risultato, a un manuale.

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