Tolomeo – Angelo Rendo

Tolomeo era maturo, cotto, finito, perso. Noto ai familiari, agli amici e ai conoscenti tutti. Dotato di grande esperienza (nel sonno), abile e profondo (nel sonno). Bello come un maestro dalla pelle tirata, di pesca, e pustolosa.
Non c’era nulla che potesse renderlo vivo, era nato per sbaglio, come tanti, come tutti. Che non fosse capace in nulla, dimostrava quanto il metodo predittivo non potesse scongiurare cosa alcuna.
In ogni sua sortita era maestro di scempiaggine. Quella degli altri. Rapaci nel tenderlo, e farne scendiletto.
Partiva per fare una cosa, e sbagliava obiettivo; viveva nel fraintendimento, garante una paternità stretta e vecchia.
Credulone, temeva qualcuno nella notte potesse soffocarlo. E in effetti fu un lontano nipote del Principe di Massaciuccoli a farlo fuori come una ciabatta cunzata, una notte.

Incontro con Alberto Angela – Angelo Rendo

Ieri pomeriggio, a Modica, per il firmacopie di ‘Cleopatra’ di Alberto Angela, presso il Liceo Classico “Campailla” preso d’assalto, c’ero anch’io.
Ve lo giuro santissimamente: prima di incrociare il suo sguardo non ero così come mi vedete in foto. Ho solo cercato un briciolo di conforto contro la timidezza, abbozzando un sorriso monastico in direzione di un non ben identificato magma visivo. Mi ha trasformato senza tanti complimenti in un australopiteco, forse forse padre di Lucy, graziandomi, se così si può dire, di una sigaretta spenta a metà.
La forza dell’abitudine, insomma, la sua; non gliene faccio una colpa. Ora sto bene.

L’ÉLITE TECNOPATICA SOGNA LA PROFEZIA – Angelo Rendo

È il tono impietoso e perentorio e cinico a significare l’élite – che esiste, ed è tra di noi, fra spire di fumo e spallucce metropolitane, molto meno lontana, o fuori dal mondo, di quanto possa credersi lei stessa, o voglia darlo a intendere, bramosa di sapere e bavosa di vita al quadrato – poi che si muove per ricalcare le medesime e inappellabili sentenze che dall’alto saecula saeculorum piombano in basso.

Ma, prima che si arrivi a dire con siffatti soffi di boria, bisognerà disappropriarsi, smettere l’emoticon, e tenere in conto l’incontenibile.

Una sirena – Angelo Rendo

Mi fa cenno di no con la mano, che no, non deve rifornirsi, si mette di lato e scende, pesante, incespicando nel predellino.
Da un paio di mesi che non lo vedevo, d’estate si aggira spesso da queste parti; di lui non sapevo nemmeno il nome, è stata una punta d’ingegno a spingermi, poco prima che il nostro incontro finisse.
Non ha più nel suo malconcio camper l’impianto a gas, va a metano. È venuto a salutarmi, perché finiremo di vederci. Ma si faccia vivo, quando si troverà lungo la marina, mi raccomando.
È un viandante, ce l’ha avuta col mondo intero, da qualche anno è diventato un’autorità marziana. Veste sempre di nero, bisunto e lercio in ogni parte del corpo, le unghie ripostigli di mali e anatemi. Occhiali da sole lo coprono e una bandana al collo. Corpulento, a stento entra negli abiti, porta un cappello nero, a falde larghe da signora, di paglia.
Ma prima di diventare uomo, l’uomo è stato sirena, e l’utero il mondo intero, rimasto in sorte alla donna, quale vile memoria.

Una favola di Kierkegaard – Angelo Rendo

Il giglio selvatico e l’uccello sono la stessa cosa. Come la terra e l’aria, e i due mondi, e la libertà apparente o il sacrificio di essere nient’altro che quel che si è.

È una favola nera per adulti bambini più che un libro d’artista per bambini questo luminosissimo oggetto da collezione, “L’avventura del giglio selvatico” di Søren Kierkegaard, tradotto da Gianni Garrera e illustrato superbamente, con ardua ed estrema sintesi, da Matteo Fato (Quodlibet, ottobre 2018).

La traduzione di Garrera – studioso di riferimento di Kierkegaard – invece, risuona all’orecchio piena di inciampi; e, nonostante cerchi di mimare la lingua raccogliticcia dei bambini, non arde nel candore; il traduttore soppesa più del dovuto la parola, che rimane sospesa, anfibia, zoppa e brutta.

Delicato, tremulo e triste giglio Kierkegaard, niente di più vero,
suo alter ego l’uccello tentatore, gradasso e stanco – senza che se ne renda conto – della sovranità che in petto gli batte.