Questo dipinto, mi viene di trarlo via. Astrarlo, tanto è disarmante. Le volte che mi irretisce, e sono tante, lo allungo da parte a parte; resiste solo il verde cerniera e l’occhio di un cavallo. Sono incredulo. Nessuno, nemmeno il pittore, tantomeno appunto i cavalli reagiscono. A comporre questo scontro venefico, al quale proprio nessuno, ripeto, sembra credere, pensano quell’occhio di balena e una pietosa narice che freme.Tutto il resto è veleno, colore, scansione, comica immobilità.
Santo Abbattista
La voce – Francesco Lauretta

Turiddu, ecculu qua, a piazza, u Cianu u ciamamu nui, ci dumannu pirchì s’inniu a Santa Maria Maggiore a fari a missa. Iddu ma spiega, seraficu. Stavu taliannu a televisioni, i sira e già eru co pigiama quannu na vuci na testa mi ciamau: Turiddu, Turiddu chi fai caintra a chiesa tinnaghiri, a missa a fari. Prima rimasi a ucca aperta, ma qu’è ca mi chiama, cu è chistu, astura? E allura, ancora: Turiddu, ancora scavusu sii, susiti, curri a chiesa ca a missa a celebrari, avanti! Scantatu mi susì e di cursa ma fici, senza scarpi trasii a chiesa e u parrinu stava cirimuniannu, a genti c’era, magari a ma soru. Allura mentri ci fu un po’ ri confusioni rittu all’altari minnì e a muttuna spustai o parrinu ca nun mi vulia lassari stari u microfunu. E mentri facia sti cosi a vuci mi parrava forti: Bravu, accussì a fari, avanti uora parra dall’altari. Ma mancu rissi, Prigamu tutti, na scucciata di coddu m’arruau ca a testa mi fici girari, a ma suoru era: Pazzu, sì pazzu, chi stai faciennu? E mi pigghiarru. A Busacca mi purtarru, o manicomiu di Scicli. Ora sugnu sotto cura, imbottito sugnu. E io, Ma scusami, non ti vergognavi?, perché sei voluto andare, non sentivi che non era normale fare una cosa del genere? E mi guarda: Avrei volutu a viriri a tia. Ch’è ca putia affari, cià via ddiri No, o Signuri?
Su un quadro parlante
Non si dà distinzione fra semplicità e complessità. Appare ma non esiste espressione in stadio avanzato. Chi dà a chi? E quale autocensoria incapacità d’ammissione governa il censore?
Forse la vaghezza ingenua riflessa in suo diletto? O il dipingere che dipingi di te, come dire che dici di te? O, ancora, il piacere procurato ad altri? Cioè il diletto altrui, non il tuo?
Fu accertato il diletto; ma il diletto non cambia. Solo a delitto compiuto, e tutto è fatto. Non c’è colore, parola o tratto che non fermi, nel passaggio.
La considerazione ferma e tagliafuori riconduce a una messa in scacco dell’embrionalità, caricata spregiativamente sulle spalle del supposto rimbambito.
Embrionalità che non può darsi – a meno che non si guardi con occhio stordamente afflatato d’ Arte – nell’opera, quanto, piuttosto, e appunto, nella testa di chi legge, pensa o scrive o ammira con l’intenzione di stirare o stilare.
Piega inamidata dell’apparenza. E piaga impiegatizia. Paga, dunque.
La plaga ove regna il morso, che si fa rimorso e addita l’orso.
E non si capisce il frutto, se non ci si è seguiti; e se non si capisce, ci si sfa.
[Angelo Rendo, settembre 2006, http://www.nabanassar.com, diritti riservati]
Matrimonio – di Angelo Rendo

ad A.
La concretezza del tattico all’orizzonte
lo stratega in panoramica la verticale
figura a onda la punta grappola
la velocità più lo sviluppo e l’analisi
all’affermazione generale segue
l’analisi e lo sviluppo.
Il suono se ne frega del groppo
altissimo si è imposto.
Stuzzicami, non ho pretesto.
L’attenzione non desta
niente dal buco va cavato
tranne la scoperta: non è lei
che si trucca o si tira. E’ lei
come è.
[angelo rendo, diritti riservati]