Da Plaja Grande partiamo alle 9:00. A Morgantina arriviamo alle 11.00. Marina di Ragusa, Santa Croce Camerina, Scoglitti, Gela, poi la 117 bis: lungo questa direttrice San Michele di Ganzaria, San Cono e Mirabella Imbaccari, quindi Piazza Armerina, Aidone e Morgantina, 115 km, due ore di viaggio.
A Morgantina il sito è chiuso, apre incredibilmente alle 14:00 e chiude ridicolmente – l’illuminazione è peregrina – alle 22:00 nel fine settimana dal 17 agosto al 30 settembre. Si decide di risalire ad Aidone, a circa 5 km da Morgantina. Puntiamo verso il Museo. Lasciamo la macchina nella piazza principale, Piazza Cordova, proprio sotto Torre Adelasia.
Il Museo si trova all’interno del Convento dei Cappuccini e vi si accede dalla annessa Chiesa di San Francesco. Vi sono esposti più di 3000 reperti, dal Bronzo Antico (selci, reperti litici, ossi, ceramica) al Bronzo Tardo e all’Età del Ferro (tazze carenate, olle, askoi, fibule di bronzo); dall’Età greca arcaica (antefisse fittili, un kernos siculo-geometrico, balsamari) all’Età greca classica (terracotte figurate, statue, monete, un cratere a figure rosse del pittore di Euthymides, la dea di Morgantina, gli acroliti di Demetra e Kore); dall’Età ellenistica (busti fittili, antefisse, arule, statue in pietra, un piatto a figure rosse, coppe, gli argenti di Eupolemos) all’Età romana repubblicana (terrecotte, pythoi, vasche, condutture idriche, epigrafi, monete).
Vi abbiamo trascorso quasi due ore, assediati da un club in uscita domenicale di amatori d’auto d’epoca catanesi con rispettive consorti e figliolanza. Spenti i figli, brulicanti e chiassosi e petulanti i grandi. Incivili.
Siamo nella prima sala, un signore legge ad alta voce ‘reperti litici’ e chiede all’amico cosa mai significhi, non arrivando risposta decide che litico sta per ellittico; ora siamo nella terzultima sala, quella della Dea di Morgantina, un altro signore, seduto sulla panchina dirimpetto alla statua, esclama: “Più la guardo più mi sembra brutta”, un altro ancora, vicino di panchina, fa sfoggio del suo greco antico. Le donne sciamano, pungono.
Rapito com’ero da quella grande dea fatta di calcare ibleo, calcare dell’Irminio, il fiume che separa il territorio di Scicli da quello di Ragusa, io non ho sentito nulla, se non una sacra reverenza e il richiamo abbagliante dell’obliquità, tanto da non essere riuscito a fotografarla frontalmente. Non puoi ferire chi hai di fronte, solo stare a mirare muto e tremante, se è una divinità. Quando, prima di andarmene, dopo esservi ritornato per ben tre volte, mi sono deciso, infine, a fotografarla frontalmente, m’è parsa brutta, umana, tozza, lontanissima questa donna, le cui forme il finissimo panneggio avrebbe voluto divinizzare.
Nell’ultima sala mancano gli Acroliti di Demetra e Kore, inviati all’Expo, sostituiti momentaneamente dalle metope di Selinunte in prestito dal museo Salinas di Palermo. Anche gli argenti di Eupolemos non sono nella sede museale. Nel 2006, infatti, il ministro Buttiglione ha firmato un accordo secondo il quale una volta ogni quattro anni – per 40 anni – il tesoro deve essere trasferito da Aidone al Metropolitan, che, per parte sua, presterà alcune opere ai musei siciliani.
Ci troviamo nell’ombelico silente della Sicilia, il regno di Persefone. Qui tutto appare, e scompare.
Il cielo basso di Morgantina è vertiginoso, non fai in tempo a realizzare di essere giunto, che presto incombono da ogni parte delle spie: il lago Ogliastro, l’Etna, le Madonie, i Nebrodi, gli Erei e ancor più in basso i monti Iblei. Siamo a 800 metri d’altezza. Possiamo vedere tutto e tutti ci ascoltano e vedono.
Mangiamo nell’unico ristorante di Morgantina, interno alla zona archeologica, e ritroviamo gli amici autoamatori dentro, sediamo fuori, un antipasto turistico, mezzo litro di vino e due primi, bucatini salsiccia e funghi e fusilli al pesto di Sicilia; e basta, eh, basta, blocchiamo il cameriere, pronto a portare i secondi, i ritmi sono assai lenti, il livello assai basso – si scusano dicendo che c’è molta confusione, capita l’antifona, dobbiamo ritornare, ci dicono -. Trentacinque euro, bùm. Se l’è passata bene la banda di gatti, ai quali di soppiatto abbiamo allungato il pane che sapeva di bucato e la pasta lavata di fresco. C’era quello che apriva le danze, l’ariete, ci metteva la faccia, con la zampetta sempre a mezza altezza in agguato, più indietro il torvo capo e il giovane zoppo dagli occhi di civetta, gli altri tre si davano poco da fare, i più ingrassati e stanchi, l’aristocrazia morgantiniana.
Perso tempo e denaro, alle 14:30 entriamo nell’antica città; mi sento di dire, arrivato alla biglietteria, come mai non aprite alle 17:00 e alle 19:00 chiudete? Mi risponde Lasciamo perdere, non c’è personale e mancano i fondi. E’ chiaro che la prima a mancare è la volontà. La consapevolezza che siamo uno sputo e una pietra val più di me te e tutti messi assieme.
L’incuria è senza dubbio la regina di Morgantina, città greco-ellenistica del III secolo a.C.
Ci dirigiamo verso le terme; nell’area scavata stanno in mortale abbraccio dei tubi di terracotta che, infilati l’uno nell’altro, formavano degli archi e andavano a costituire una cupola sulla sala centrale e due volte a botte negli ambienti rettangolari: uno dei primi esempi di copertura a volta conosciuti nel mondo antico. E oltre ai sepolcreti di tubi fittili miriamo un mesto e solitario bacino lustrale.
Dalle terme iniziamo a fare strada per l’agorà, l’impianto urbanistico è tuttora leggibile, una piccola Pompei, a sinistra ci lasciamo la plateia, a destra ci imbattiamo in diversi stenopoi, fino a che non arriviamo alla casa dell’Ufficiale, la cui descrizione manca di foto, bah, in linea di massima i cartelli esplicativi sono in condizioni pietose, molti divelti, tanti arsi dal sole; continuando la discesa verso l’agorà, a sinistra incontriamo il santuario meridionale di Demetra e Kore, quindi la placida agorà rinverdita, noi ringalluzziti: il teatro, la stoà ovest dietro, il santuario centrale di Demetra e Kore, l’ekklesiastérion, salendo poi verso la Cittadella, ovvero la città arcaica, l’Ufficio Pubblico e le case. Sulla Cittadella la Casa del Capitello dorico e la casa di Ganimede, scendendo, a sinistra, una fra le più grandi fornaci del mondo antico, la Grande Fornace, quindi di nuovo verso il centro e poi a nord nei pressi della Stoà Nord, e dritti dritti – a causa della pioggia che ci sorprende per fortuna alla fine, dopo un paio di ore – sotto la copertura della Fontana Monumentale, che avevamo visto ricostruita nel Museo di Aidone.
Dal tornello Sud via di corsa a riprendere la macchina, almeno seicento metri tutti in salita. Zuppi d’acqua, entriamo in auto, direzione casa.
Lungo i tornanti per Aidone un signore seduto su un bastione con un ombrellino aperto ammira lo strapiombo, come se ci fosse il sole, sta diluviando, saltano i tombini e temo frane, non fosse che lontano in direzione Piazza Armerina si intravvede la schiarita. Decidiamo di continuare. Direzione casa.
Che si dovesse andare alla Villa del Casale non era messo in conto. Proprio mentre accompagniamo il fiume d’acqua fuori da Aidone, inizio a parlarne con Adriana; non appena lo perdiamo di vista, riacquisto memoria.
Ero stato a Piazza Armerina per la prima volta in gita scolastica alle Scuole Medie, vi ero ritornato a fine anni Novanta.
Nel 2006 la villa è stata sottoposta a restauro, condotto poi a termine nel 2012. Vittorio Sgarbi, Alto Commissario, Gionata Rizzi, progettista, Guido Meli, direttore del Parco Archeologico, direttore dei lavori. L’importo complessivo: 13 milioni di euro.
Volevo vedere cosa fosse successo oltre al fatto che intendevo dare il colpo di grazia momentaneo alla sempremolle forma umana, ho uggia verso ogni bocca parlante. L’antico mi rilassa. Mi istupidisce. Mi impietrisce.
Venti anni fa non c’era la mega spianata adibita a parcheggio senza nemmeno un albero, si accedeva alla villa dalla strada al livello superiore – ora inaccessibile – stretta al monte Mangone e con folta vegetazione a ridosso.
Posteggiamo e non ce la facciamo più. Di bagni nemmeno l’ombra dove ombra non c’è. Si dovrà iniziare la salita e svoltare a sinistra per trovarli. Sono gestiti da due bonaccioni del luogo, dei due uno sembra tradire alto lignaggio: l’occhio, la gentilezza e la cura nel vestire; ci vuole vendere una guida e delle pere; l’altro è più attivo, e pulisce col mocio il bagno per uomini, che è pulito, quello femminile no. Hanno l’aria di due compagnetti rimasti sotto effetto stono nei tempi andati.
Il loro stono è il mio, quando mi piazzo di fronte alla villa e vedo dei padiglioni da complesso universitario. La copertura di Minissi (1957) era in ferro e perspex, quella di Rizzi-Meli è in legno e rame (pannelli in schiuma minerale ecologici ed isolanti da pioggia e sole).
La villa presenta quasi 4000 mq di pavimentazione a mosaico, i visitatori si attestano sui 500.000 l’anno, Sgarbi-Rizzi-Meli nelle loro intenzioni vorrebbero arrivare ai 600.000 l’anno, per questo motivo l’hanno ben bene infagottata.
L’amenità del luogo è completamente compromessa da questo intervento di restauro. L’interno è alquanto buio già alle 16:00, il giardino con vasca al centro è stato rivestito con lastre di cemento. Dalla troppa luce al troppo buio.
Una copertura di tal genere fa perdere il contatto col basso, risucchia verso la monumentalità gratuita dell’alto, specie una volta giunti alla Basilica.
Della sala delle Ginnaste, del vestibolo di Polifemo, della dieta di Orfeo, del corridoio della Grande Caccia lungo 66 metri, di Peter Handke con una etera aggirantesi lungo le passerelle in abito bianco di lino e di Alessandro, custode volontario della villa dico ora di passaggio, notando piuttosto e con favore la ricomposizione delle stanze in un percorso lineare, da labirintico che era. La narrazione ai piedi, a noi l’astrazione fredda della gravità.
Festina lente: il moto, sì, il moto di una civiltà opulenta nella Sicilia romana del IV secolo dopo Cristo, età di Diocleziano.
A Piazza Armerina non andiamo, la attraversiamo solamente in macchina, sembra Caltagirone e anche un po’ Gela nel quartiere periferico; è un grosso centro, ventiduemila abitanti, negli anni Venti ne contava il doppio. Ritrovandosela di fronte, ritornando da Villa del Casale, sta aggrappata alla montagna come Ragusa Ibla. E’ invitante, ma ci aspetta il mare, è tardi, sono le 19:00. E per le 21:00 dobbiamo chiudere il cerchio.
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