Di dei e nullità (Selinunte e Gibellina) – Angelo Rendo

Ciò che al cuore si appresta non è dicibile dagli occhi, né visibile alla bocca; il poetico in avanscoperta qui alligna; quel poetico che, col tanto dirsi, svapora e toglie di mezzo le parole e lascia lo spettatore. Solo, così come dev’essere.

Siamo in provincia di Trapani, a 230 km da casa, a Selinunte, subcolonia di Megara Hyblea (SR), fondata nel 650 a.C., estremo avamposto occidentale dei Greci di Sicilia.

Selinunte si trova all’interno di un parco archeologico di 1800 km quadrati, grandioso e stupefacente, senza eguali in Sicilia; ad est, sulla collina orientale tre sono i templi (E, F, G): l’assolutezza dello stile dorico rasciugato in tre opere monumentali, custodi di un metro segreto; la sproporzione dello zelo – del te lo faccio vedere io prima che muoia – rispetto al buio della fine.

Seguendo, poi, la direzione ovest, e scendendo verso il fiume Cottone, col porto interrato, quindi iniziando la risalita attraverso un sentiero di tre chilometri circa, si giunge al promontorio dell’Acropoli.

All’entrata ci imbattiamo in un muraglione a gradoni alto 11 metri. Realizzato intorno al 550 a.C., su di esso insisteva una grande stoà. E’ il tratto meglio conservato delle mura arcaiche e ci introduce nell’acropoli, dove quattro sono i templi (A, C, D, O); il lato lungo del tempio C, come già era avvenuto per il tempio E della collina orientale, ha subito l’anastilosi e svetta con moderazione fra i ruderi circostanti; proseguendo sempre verso ovest il fiume Selino col porto interrato e a un chilometro circa il santuario della Malophoros. A nord dell’Acropoli la città antica d’impianto ippodameo con l’agorà.

La Sicilia Occidentale ha meno parole e parla poco, Agrigento fa da cerniera, Licata e Gela sono ancora Sicilia Orientale, lutulente; da Sciacca a Selinunte, invece, vai liscio fra filari di viti e uliveti, entri senza accorgertene, come se una terra molle e mite si aprisse e ti inghiottisse.

E questo è il Belice, nel quale iniziamo a spingerci a mezzogiorno, nel sudest della provincia di Trapani: Gibellina Nuova e Gibellina Vecchia. Il tristemente famoso Belice del terremoto del 14 gennaio del 1968. 370 furono i morti (150 solo a Gibellina), 1.000 i feriti, 70000 gli sfollati.

Gibellina Nuova è una vergogna, un fallimento, una città di deportati, il capriccio di una turpe immaginazione. Tanti gli artisti che negli anni Settanta e Ottanta hanno partecipato all’affondamento di una comunità. Chi vuole può fare una ricerca. I progressisti illuminati, gli elitisti hanno costruito una città ridicola, atta ad accogliere ventimila abitanti. I gibellinesi sono cinquemila.

Una tomba definitiva per il Belice, ancor più lugubre del Cretto di Burri. Vi è stato un movimento autoritario e azzerante, calato dall’alto, di magnifiche sorti e progressive. Uno sghiribizzo. Gibellina, come Poggioreale, come Salaparuta, come Montevago, sono divenute città del Nord Europa, disanimate.

Da Gibellina Nuova a Gibellina Vecchia si percorrono 18 km lungo la provinciale che collega Castelvetrano ad Alcamo. La carreggiata è invasa dal fango per circa cinque chilometri. I terreni sono gessosi e friabili, le piogge copiose aprono canali sui colli. Il manto stradale è costellato di buche e cede sul ciglio laddove il fango pesa ristagnando.

Una croce nuda in memoria delle vittime e alle spalle il cimitero di Gibellina d’improvviso, poi la discesa verso la Gibellina sepolta. Dobbiamo ancora arrivare e già tratteniamo il fiato senza volerlo, facciamo silenzio, si rompe il ritmo. Arriviamo al cretto, increduli ci arrampichiamo un po’, ma non siamo capre, né ci viene in mente di salire sugli isolati che lo compongono. 86.000 mq di cemento armato, completato e inaugurato la settimana scorsa, il grosso del cretto risale agli anni che vanno dal 1984 al 1989. Le vie/fenditure che lo solcano sono larghe 2-3 metri e alte 1 metro e 60, ricalcano l’impianto urbanistico di Gibellina Vecchia. La struttura armata è in più parti scoppiata, una voragine si apre su un isolato e lascia vedere il solaio di una casa sepolta, bolle di cemento annerito premono, erbacce, crepe. Che la natura si riprenda questo vilipendio ad un popolo, lo ingoi in un ultimo sussulto rigenerativo.

Fra i Siculi di Licodia Eubea (V Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica, 22-25 ottobre 2015, Ex Chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, Piazza Stefania Noce) – Angelo Rendo

La provinciale 38/II è una trazzera regia, una mulattiera, unisce Licodia Eubea coi comuni del ragusano. Decido di prenderla, nonostante la canonica uscita Vizzini Scalo/Licodia Eubea sulla statale Ragusa-Catania.

Imbocchiamo la 38/II subito dopo Piano dell’Acqua, frazione di Chiaramonte Gulfi, ci vorranno poco più di venti chilometri per giungere a destinazione, un budellino stretto e tortuoso, emorragico; alla nostra sinistra scorre non visto il Dirillo, i vigneti e gli ulivi occupano la vista fino alla diga di contrada Ragoleto, il lago di Licodia (o Dirillo), uno sbarramento improvviso, da lì si continua a salire per una terra di nessuno. Sbuchiamo a sud-ovest di Licodia, sotto il Colle Castello Santapau, a 600 mt. di altitudine, sembra un accesso fantasma, non fosse che, non appena ci si leva di dosso una schiera di case a destra, compare la Licodia fremente sulla valle del Dirillo e un belante gregge di capre.

All’ex Chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, in Piazza Stefania Noce, giungiamo grazie alla gentilezza di due rumeni. La segnaletica è inesistente. Solo cartelli turistici relativi a monumenti del luogo in questa cittadina di tremila abitanti adagiata su un crostone calcareo, su una dorsale che lentamente va franando, lo dicono le strade, lo dice la gravità.

Io Licodia l’avevo sempre vista dormire lontano alla luce del sole, le volte che mi capitava di fare la Ragusana. E non sarei mai andato non si fosse data una occasione quale quella che si è presentata l’altro ieri, l’apertura della “Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica” (22-25 ottobre), già alla quinta edizione, patrocinata dal MiBACT, dalla Regione Siciliana, dall’Università di Macerata e dalla Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto.

Prima di assistere alle proiezioni, però, facciamo una capatina al Museo Civico “Antonino Di Vita” in Corso Umberto I, imbucandoci insieme agli studenti dell’Università di Catania accompagnati dal professore di Archeologia della Magna Grecia. Il Museo si risolve in un’unica sala espositiva tramezzata da cinque vetrine. Si va dalla fase più antica di insediamento all’abitato arcaico, al centro indigeno ellenizzato, per lo più troviamo oggetti in ceramica della cosiddetta “facies di Licodia Eubea”, dalla tarda età del Ferro al V sec. a.C. Si tratta fondamentalmente di un centro indigeno con influssi calcidesi.

Alle 18:00 ha inizio la Rassegna, saluti di rito (Soprintendenza, Università, Direzione Artistica, Archeoclub), proiezione di tre docufilm.

“Un giorno la storia passò dal Parco dell’Etna” di Lorenzo Daniele, fuori concorso e meno male, imbarazzante racconto macchiettistico sul monastero di San Nicolò l’Arena.

(Mi sa che lo storytelling, del quale molto si è cianciato in questa giornata, ha fatto danni; a girarselo speziato in bocca compiaciuti cadono i denti; manca la capacità di neutralizzare i repellenti effluvi della seduzione narrativa. Bisogna popolarizzare l’archeologia, renderla seducente con l’ausilio di computer grafica e digital storytelling, del resto, ha poi affermato il giovane professore di Archeologia, chiamato a relazionare.)

“Pompei. Una storia sepolta” di Maria Chiffi è l’ennesimo docufilm in 3D su Pompei, un cartone animato che toglie fasto all’immaginazione. Il pop deve essere fra noi, è un elemento distintivo, dà lustro all’archeologia e stura all’indiscriminata invasione degli stalentati.

L’ultimo film, “Le misteriose pietre di Hakkari” di Bahriye Kabadayi Dal, regista turca, è, invece, un documentario classico; meraviglia e stupore scaturiscono dalla eccezionalità della scoperta, tredici obelischi risalenti al XV sec. a.C ritrovati in Anatolia; forse vi è una leggera discrasia fra commento e immagine, alla quale, però, sopperisce la tramortente bellezza dei luoghi filmati.

La rassegna è organizzata in modo lineare e sobrio, il pubblico attento. Ieri film su Paestum, i Vimana, Agrigento, sull’ipogeo di Cisternazzi a Ragusa, il fuori concorso di Nello Correale su Rosa Balistreri – essendo il tema di quest’anno “La musica nel mondo antico” – infine l’incontro con Correale. Oggi, sabato, sarà la voltà di documentari sugli Etruschi, sulla via romanica delle Alpi di Lucio Rosa, dell’incontro con la direttrice del Museo di Vetulonia Simona Rafanelli; domani, domenica, verrà proiettato lo spot per il “Paolo Orsi” di Siracusa, un documentario su Palermo, un altro sul meteorite di Saaremaa di Syusy Blady, presente in sala; è la giornata conclusiva, verranno consegnati i premi.

Noi non c’eravamo venerdì, né ci saremo oggi, né domani, mi dispiace. Abbiamo chiuso la serata fra i Siculi di Licodia in un panificio; alla cassa stava una ragazzetta poco più che quindicenne dallo sguardo torvo, la Regan MacNeil di Licodia, l’ingresso al museo è dieci metri più avanti, dentro vi è un sarcofago con un inumato, non sarà Pazuzu, ma il pane che Regan ci mostra, chiamato “rognone”, inquieta. Optiamo per un calzone e una pizzetta, un’altra la portiamo in macchina, non facciamo in tempo a svolgere il fagotto che cade in terra fra i piedi, la mettiamo da parte; stavolta la strada non sarà la trazzera, ma la statale Ragusana. A Vizzini Scalo c’è un maremmano solo e triste in attesa, a lui la pizza.

Angelo Rendo

Oscura e luminosa (Akrai – Palazzolo Acreide) – Angelo Rendo

Akrai è temibile. Un misto di eleganza, ordine e terribilità gorgonica mostra nelle sue membra sparse. Strapiombi, vertigine e vento.

La prima subcolonia siracusana – fondata nel 664 a.C. sul pianoro del monte Acremonte a 800 metri di altezza – è inospitale, vigila e non contempla il forestiero. Che stia giusto il tempo di sentirne la fierezza, poi via, lo straniero.

Così andavo pensando, finito il giro del sito (di tutto rispetto, ben tenuto, curato).

Entriamo; di fianco alla biglietteria il primo scavo, la plateia, che taglia da est a ovest il sito (alla luce ve ne sono 250 metri per 4 metri di larghezza), a est della plateia il bouleuterion, quindi il teatro, dietro di esso le due latomie dell’Intagliata e dell’Intagliatella. Tombe greche, romane, cristiane e abitazioni bizantine. Un bassorilievo votivo figurato della prima metà del I sec. a.C. con una scena di sacrificio a sinistra e un banchetto di eroi a destra nell’Intagliatella e lungo le pareti tanti incavi votivi, la cui funzione un tempo doveva essere quella di contenere delle tavolette celebrative del defunto.

Ma è l’Intagliata, di epoca ellenistica (regno di Ierone II, 275-215 a.C.) – successiva alla più antica Intagliatella – come ellenistici sono il teatro e il bouleuterion, la ferita più profonda dell’intera area. Rimaneggiata in età paleocristiana, presenta ipogei e sepolture ad arcosolio polisomo e tombe a baldacchino chiuse da transenne traforate.

E’ una ferita, l’intagliata. Abbiamo praticato il luogo provvisti del medicamento assoluto: quel silenzio cavato dalla pietra viva, l’anima dei 35 km quadrati acrensi, la vena che, partendosi dalla catacomba più a nord dell’Intagliata, irrora le rovine del tempio di Afrodite, il cuneo del VI sec. a.C., del quale rimangono i blocchi squadrati del basamento, essendo i resti disseminati negli edifici tardobarocchi di Palazzolo Acreide.

A 700 metri d’altitudine – ci trovavamo ad ovest rispetto alla città attuale – c’è Palazzolo: città iblea, a tratti Modica Alta a tratti la Ragusa superiore che scivola verso Ibla.

Alle 14 apre il museo archeologico Judica, inaugurato a dicembre dell’anno scorso; è l’una, abbiamo un’ora da dedicare a un pranzo veloce, scegliamo l’antica pasticceria Corsino, qualità buona, ma la rosticceria è catanese. Le paste dolci non trascendono la fama che le precede, solido artigianato ma senza invenzione.

Risaliamo lungo via Italia, sono le 13:55, il museo è già aperto. Il grande blocco con l’iscrizione Kaibel 217 fa bella mostra di sè all’entrata. L’iscrizione, risalente all’età ellenistica, riporta gli affitti di themelia (posti) per una panegyris (festa) locale. Gli “ambulanti” hanno questi nomi: Teodoro, Filonida, Dion, Zopiro, Filocle, Similo, Aristogeto, Damocrate, Filisto, Aristodamo, Apollonio ecc.
Compiamo un tour virtuale della Akrai del III sec. a.C.; i posti assegnati vanno dal tempio di Afrodite al boschetto delle pernici, dalla porta selinuntina alle mammelle di Lamias, dal ruscello ai lavatoi. Doveva trattarsi di una festa di grande importanza, gestita con metodica precisione. Nome, figlio di, e in alcuni casi la presenza del demotico, ad indicare il demo di appartenenza, come in questo caso: “A Filonida, figlio di Silonida di Marfiano [un posto] sotto il tempio di Kore”.

La visita inizia al primo piano. Sette sono le sale, dal corinzio antico all’età ellenistica e romana. Le prime due, riguardanti il periodo arcaico (corinzio antico, medio e tardo, dalla fine del VII sec. a.C. alla seconda metà del VI a.C.), sono le più ricche e belle, non c’è stanchezza, tutto appare irrisorio, la facilità del gesto versus l’ornamento.

Il museo è ricco, soprattutto, di ceramica greca e di stipi ritrovate in fosse e, per l’appunto, di una nota affettuosa sono meritevoli Bes e Bese, divinità egizie, qui presenti; ricordo di averne vista una collezione importante al “Paolo Orsi” di Siracusa; queste statuette proteggono le madri, i bambini, le partorienti; un soggetto preferito della coroplastica greca sin dall’età arcaica, insomma, e che fra i Greci di Sicilia penetra per intercessione del mondo fenicio. La deformità del dio, la sua aria minacciosa tengono lontani gli spiriti maligni.

In Sicilia, è un ricordo di infanzia, non so se tuttora se ne vendano, ma credo di sì, nelle bancarelle, ma anche a casa di mia nonna, si trovava il souvenir di Turiddu, ‘u mafiusu, e Mara, ‘a mafiusa (nomi presi a prestito, rispettivamente, dal Verga di “Cavalleria rusticana” e “Jeli il pastore”); l’iconografia è simile a quella dei Bes, l’inserto eclatante nella coppia emancipata moderna è rappresentato dalle due lupare, una per l’uomo, un’altra per la donna; e direi che anche iconologicamente la funzione apotropaica sia stata mantenuta: demoni state lontani. In un visibilio di mortaretti che mescolano il male col bene. Con un lieve cedimento dovuto alla vecchiaia del mondo e al perduto senso dell’onore.

Usciti dal museo, si riprende la salita, fino a che non si raggiunge l’agorà moderna: Piazza del Popolo con la chiesa di San Sebastiano, che cede poi il passo all’elegante Corso Vittorio Emanuele; la macchina è posteggiata nella parallela al Corso.

Montiamo su, salutiamo fuggevolmente – come se ci sentissimo in torto – piazza San Paolo e prendiamo la via del ritorno: la Palazzolo – Giarratana via Mandrevecchie, strada pericolante e franata in un punto. Profonda plaga iblea.

Dentro un’anfora (Camarina) – Angelo Rendo

Di Camarina, fondata da Siracusa nel 600 a.C., non esiste più nulla; le mura hanno ceduto alla spinta erosiva del mare, gli avanzi sono stati digeriti dal ClubMed – sorto a est del sito negli anni Ottanta – e da un vivaio a ridosso; il porto di Scoglitti a ovest ha stretto la morsa.

Rimangono miseri resti: i resti della casa dell’Iscrizione, della casa del Mercante, le rovine del tempio di Atena, in parte inglobate nel Museo, i resti della casa dell’Altare con pavimento a mosaico, l’Agorà, nella quale sono state individuate due stoà (N ed O) e quattro basi.

Il sito versa in condizioni di grave abbandono, è prospero di zecche e sempre fresche sono le visite dei tombaroli, il cui accesso è facilitato dai lunghi tratti di recinzione divelta sulla Santa Croce Camerina – Scoglitti.

Nel camminamento che dall’acropoli conduce all’agorà, infatti, sia che ci si volga verso il mare sia che si volga lo sguardo verso la provinciale strisce di frasche paiono coprire e al tempo stesso svelare: il terreno è costellato di buche di talpa.

Sei milioni di euro, i fondi europei per Camarina, intanto, si avviano a riprendere, proprio in questi giorni, la strada di Bruxelles; stanno per scadere i tempi utili per la presentazione di un piano realizzativo.

Ci rifacciamo col museo. L’ordinamento è cronologico, e assai degni di nota sono il Relitto dell’Elmo corinzio e quello dell’Elmo attico-etrusco, un tesoro di tremila monete del III sec. d.C., delle statuette dedicate a Persefone, un’arula con figura di Gorgone e il padiglione delle anfore su due livelli, più di mille anfore del VI sec. a.C. (corinzie, ionico-marsigliesi, greco-orientali, samie, attiche, chiote, lesbie, etrusche, fenicio-puniche, laconiche), delle quali almeno cinquecento riutilizzate come sepoltura a enchytrismos di neonati e bambini, provenienti dalla necropoli del Rifriscolaro (il fiume Oanis). Una collezione così ricca mette in luce l’importanza di questo scalo marittimo; gli scambi commerciali erano orientati verso la Grecia continentale, insulare e dell’Asia Minore, nonché verso il mondo fenicio-punico ed etrusco.

Gran parte del tempo dedicato alla visita del museo l’ho trascorso nel padiglione delle anfore, nella fattispecie al secondo livello, dove, al centro, strette fra due file d’anfore giacciono le epigrafi: il lapidario.

L’irreprensibilità, la saggezza, la bontà, l’unicità, la giustizia sono qualità mortuarie. Stavo per rimanere chiuso dentro un’anfora. Per fortuna è arrivata Adriana.

Il resto – Angelo Rendo

Non è che la prefigurazione di uno stolido e attempato signore senza passato e col futuro da sempre alle spalle; e col presente che è passato. Non un miracolo, ma lo stato d’eccezione fattosi legge, l’uno e l’altro essendo la cosa stessa.

L’uomo è la rovina, il resto.

Ma la divina violenza latente – che si sposa col diritto del “politico”, ovvero le ingerenze dell’ordine, padrone e schiavo al contempo – non ha governo, se non quello imposto dall’onda totalitaria che annega le civiltà in attesa dell’irrinunciabile e minimo regno temporale.

Non c’è storia per l’uomo, ma utopia feroce.

 

La rovina del centro (Aidone, Morgantina, Villa romana del Casale) – Angelo Rendo

Da Plaja Grande partiamo alle 9:00. A Morgantina arriviamo alle 11.00. Marina di Ragusa, Santa Croce Camerina, Scoglitti, Gela, poi la 117 bis: lungo questa direttrice San Michele di Ganzaria, San Cono e Mirabella Imbaccari, quindi Piazza Armerina, Aidone e Morgantina, 115 km, due ore di viaggio.

A Morgantina il sito è chiuso, apre incredibilmente alle 14:00 e chiude ridicolmente – l’illuminazione è peregrina – alle 22:00 nel fine settimana dal 17 agosto al 30 settembre. Si decide di risalire ad Aidone, a circa 5 km da Morgantina. Puntiamo verso il Museo. Lasciamo la macchina nella piazza principale, Piazza Cordova, proprio sotto Torre Adelasia.

Il Museo si trova all’interno del Convento dei Cappuccini e vi si accede dalla annessa Chiesa di San Francesco. Vi sono esposti più di 3000 reperti, dal Bronzo Antico (selci, reperti litici, ossi, ceramica) al Bronzo Tardo e all’Età del Ferro (tazze carenate, olle, askoi, fibule di bronzo); dall’Età greca arcaica (antefisse fittili, un kernos siculo-geometrico, balsamari) all’Età greca classica (terracotte figurate, statue, monete, un cratere a figure rosse del pittore di Euthymides, la dea di Morgantina, gli acroliti di Demetra e Kore); dall’Età ellenistica (busti fittili, antefisse, arule, statue in pietra, un piatto a figure rosse, coppe, gli argenti di Eupolemos) all’Età romana repubblicana (terrecotte, pythoi, vasche, condutture idriche, epigrafi, monete).

Vi abbiamo trascorso quasi due ore, assediati da un club in uscita domenicale di amatori d’auto d’epoca catanesi con rispettive consorti e figliolanza. Spenti i figli, brulicanti e chiassosi e petulanti i grandi. Incivili.

Siamo nella prima sala, un signore legge ad alta voce ‘reperti litici’ e chiede all’amico cosa mai significhi, non arrivando risposta decide che litico sta per ellittico; ora siamo nella terzultima sala, quella della Dea di Morgantina, un altro signore, seduto sulla panchina dirimpetto alla statua, esclama: “Più la guardo più mi sembra brutta”, un altro ancora, vicino di panchina, fa sfoggio del suo greco antico. Le donne sciamano, pungono.

Rapito com’ero da quella grande dea fatta di calcare ibleo, calcare dell’Irminio, il fiume che separa il territorio di Scicli da quello di Ragusa, io non ho sentito nulla, se non una sacra reverenza e il richiamo abbagliante dell’obliquità, tanto da non essere riuscito a fotografarla frontalmente. Non puoi ferire chi hai di fronte, solo stare a mirare muto e tremante, se è una divinità. Quando, prima di andarmene, dopo esservi ritornato per ben tre volte, mi sono deciso, infine, a fotografarla frontalmente, m’è parsa brutta, umana, tozza, lontanissima questa donna, le cui forme il finissimo panneggio avrebbe voluto divinizzare.

Nell’ultima sala mancano gli Acroliti di Demetra e Kore, inviati all’Expo, sostituiti momentaneamente dalle metope di Selinunte in prestito dal museo Salinas di Palermo. Anche gli argenti di Eupolemos non sono nella sede museale. Nel 2006, infatti, il ministro Buttiglione ha firmato un accordo secondo il quale una volta ogni quattro anni – per 40 anni – il tesoro deve essere trasferito da Aidone al Metropolitan, che, per parte sua, presterà alcune opere ai musei siciliani.

Ci troviamo nell’ombelico silente della Sicilia, il regno di Persefone. Qui tutto appare, e scompare.

Il cielo basso di Morgantina è vertiginoso, non fai in tempo a realizzare di essere giunto, che presto incombono da ogni parte delle spie: il lago Ogliastro, l’Etna, le Madonie, i Nebrodi, gli Erei e ancor più in basso i monti Iblei. Siamo a 800 metri d’altezza. Possiamo vedere tutto e tutti ci ascoltano e vedono.

Mangiamo nell’unico ristorante di Morgantina, interno alla zona archeologica, e ritroviamo gli amici autoamatori dentro, sediamo fuori, un antipasto turistico, mezzo litro di vino e due primi, bucatini salsiccia e funghi e fusilli al pesto di Sicilia; e basta, eh, basta, blocchiamo il cameriere, pronto a portare i secondi, i ritmi sono assai lenti, il livello assai basso – si scusano dicendo che c’è molta confusione, capita l’antifona, dobbiamo ritornare, ci dicono -. Trentacinque euro, bùm. Se l’è passata bene la banda di gatti, ai quali di soppiatto abbiamo allungato il pane che sapeva di bucato e la pasta lavata di fresco. C’era quello che apriva le danze, l’ariete, ci metteva la faccia, con la zampetta sempre a mezza altezza in agguato, più indietro il torvo capo e il giovane zoppo dagli occhi di civetta, gli altri tre si davano poco da fare, i più ingrassati e stanchi, l’aristocrazia morgantiniana.

Perso tempo e denaro, alle 14:30 entriamo nell’antica città; mi sento di dire, arrivato alla biglietteria, come mai non aprite alle 17:00 e alle 19:00 chiudete? Mi risponde Lasciamo perdere, non c’è personale e mancano i fondi. E’ chiaro che la prima a mancare è la volontà. La consapevolezza che siamo uno sputo e una pietra val più di me te e tutti messi assieme.

L’incuria è senza dubbio la regina di Morgantina, città greco-ellenistica del III secolo a.C.

Ci dirigiamo verso le terme; nell’area scavata stanno in mortale abbraccio dei tubi di terracotta che, infilati l’uno nell’altro, formavano degli archi e andavano a costituire una cupola sulla sala centrale e due volte a botte negli ambienti rettangolari: uno dei primi esempi di copertura a volta conosciuti nel mondo antico. E oltre ai sepolcreti di tubi fittili miriamo un mesto e solitario bacino lustrale.

Dalle terme iniziamo a fare strada per l’agorà, l’impianto urbanistico è tuttora leggibile, una piccola Pompei, a sinistra ci lasciamo la plateia, a destra ci imbattiamo in diversi stenopoi, fino a che non arriviamo alla casa dell’Ufficiale, la cui descrizione manca di foto, bah, in linea di massima i cartelli esplicativi sono in condizioni pietose, molti divelti, tanti arsi dal sole; continuando la discesa verso l’agorà, a sinistra incontriamo il santuario meridionale di Demetra e Kore, quindi la placida agorà rinverdita, noi ringalluzziti: il teatro, la stoà ovest dietro, il santuario centrale di Demetra e Kore, l’ekklesiastérion, salendo poi verso la Cittadella, ovvero la città arcaica, l’Ufficio Pubblico e le case. Sulla Cittadella la Casa del Capitello dorico e la casa di Ganimede, scendendo, a sinistra, una fra le più grandi fornaci del mondo antico, la Grande Fornace, quindi di nuovo verso il centro e poi a nord nei pressi della Stoà Nord, e dritti dritti – a causa della pioggia che ci sorprende per fortuna alla fine, dopo un paio di ore – sotto la copertura della Fontana Monumentale, che avevamo visto ricostruita nel Museo di Aidone.

Dal tornello Sud via di corsa a riprendere la macchina, almeno seicento metri tutti in salita. Zuppi d’acqua, entriamo in auto, direzione casa.

Lungo i tornanti per Aidone un signore seduto su un bastione con un ombrellino aperto ammira lo strapiombo, come se ci fosse il sole, sta diluviando, saltano i tombini e temo frane, non fosse che lontano in direzione Piazza Armerina si intravvede la schiarita. Decidiamo di continuare. Direzione casa.

Che si dovesse andare alla Villa del Casale non era messo in conto. Proprio mentre accompagniamo il fiume d’acqua fuori da Aidone, inizio a parlarne con Adriana; non appena lo perdiamo di vista, riacquisto memoria.

Ero stato a Piazza Armerina per la prima volta in gita scolastica alle Scuole Medie, vi ero ritornato a fine anni Novanta.

Nel 2006 la villa è stata sottoposta a restauro, condotto poi a termine nel 2012. Vittorio Sgarbi, Alto Commissario, Gionata Rizzi, progettista, Guido Meli, direttore del Parco Archeologico, direttore dei lavori. L’importo complessivo: 13 milioni di euro.

Volevo vedere cosa fosse successo oltre al fatto che intendevo dare il colpo di grazia momentaneo alla sempremolle forma umana, ho uggia verso ogni bocca parlante. L’antico mi rilassa. Mi istupidisce. Mi impietrisce.

Venti anni fa non c’era la mega spianata adibita a parcheggio senza nemmeno un albero, si accedeva alla villa dalla strada al livello superiore – ora inaccessibile – stretta al monte Mangone e con folta vegetazione a ridosso.

Posteggiamo e non ce la facciamo più. Di bagni nemmeno l’ombra dove ombra non c’è. Si dovrà iniziare la salita e svoltare a sinistra per trovarli. Sono gestiti da due bonaccioni del luogo, dei due uno sembra tradire alto lignaggio: l’occhio, la gentilezza e la cura nel vestire; ci vuole vendere una guida e delle pere; l’altro è più attivo, e pulisce col mocio il bagno per uomini, che è pulito, quello femminile no. Hanno l’aria di due compagnetti rimasti sotto effetto stono nei tempi andati.

Il loro stono è il mio, quando mi piazzo di fronte alla villa e vedo dei padiglioni da complesso universitario. La copertura di Minissi (1957) era in ferro e perspex, quella di Rizzi-Meli è in legno e rame (pannelli in schiuma minerale ecologici ed isolanti da pioggia e sole).

La villa presenta quasi 4000 mq di pavimentazione a mosaico, i visitatori si attestano sui 500.000 l’anno, Sgarbi-Rizzi-Meli nelle loro intenzioni vorrebbero arrivare ai 600.000 l’anno, per questo motivo l’hanno ben bene infagottata.

L’amenità del luogo è completamente compromessa da questo intervento di restauro. L’interno è alquanto buio già alle 16:00, il giardino con vasca al centro è stato rivestito con lastre di cemento. Dalla troppa luce al troppo buio.

Una copertura di tal genere fa perdere il contatto col basso, risucchia verso la monumentalità gratuita dell’alto, specie una volta giunti alla Basilica.

Della sala delle Ginnaste, del vestibolo di Polifemo, della dieta di Orfeo, del corridoio della Grande Caccia lungo 66 metri, di Peter Handke con una etera aggirantesi lungo le passerelle in abito bianco di lino e di Alessandro, custode volontario della villa dico ora di passaggio, notando piuttosto e con favore la ricomposizione delle stanze in un percorso lineare, da labirintico che era. La narrazione ai piedi, a noi l’astrazione fredda della gravità.

Festina lente: il moto, sì, il moto di una civiltà opulenta nella Sicilia romana del IV secolo dopo Cristo, età di Diocleziano.

A Piazza Armerina non andiamo, la attraversiamo solamente in macchina, sembra Caltagirone e anche un po’ Gela nel quartiere periferico; è un grosso centro, ventiduemila abitanti, negli anni Venti ne contava il doppio. Ritrovandosela di fronte, ritornando da Villa del Casale, sta aggrappata alla montagna come Ragusa Ibla. E’ invitante, ma ci aspetta il mare, è tardi, sono le 19:00. E per le 21:00 dobbiamo chiudere il cerchio.

Fuori di copione la lingua è una materia – John Cascone

[Il seguente testo è il libretto della performance Fuori di copione la lingua è una materia di John Cascone eseguita il 26/9/2015 presso Palazzo Vai (Monash University) a Prato come contributo al Tavolo sulla Lingua Italiana al Forum dell’Arte Contemporanea, 25/26/27 settembre 2015 Prato.]

voce: Veronica Cruciani

azione: John Cascone

***

Se vi chiedete perché sto leggendo un testo bisogna prima di tutto fare dei chiarimenti:

Io sono John Cascone, sto percorrendo un corridoio della Monasch University, e la voce che state ascoltando non è la mia ma di Veronica Cruciani.

In realtà, in questo momento, sono in un altro luogo e in un altro tempo e contemporaneamente  con voi:

-sono in una casa di campagna in Sicilia da dove sto scrivendo

-sto scendendo le scale della Monasch University

-sono qui con voi, dove non mi vedete ma sentite le mie parole

Sono stato, sono, e sarò contemporaneamente con voi perché io sono il testo, il copione, io sono l’azione.

Nel copione tutto è prefissato, già scritto, come in questa stanza in cui tutto è al suo posto pur essendo fuori posto (imbarazzanti i passaggi di tono che dalla parete toccano le sedie per rimbalzare sul parquet, poi sul battiscopa fino ad arrivare agli undici riquadri delimitati da delle cornici in stucco bianco con carta da parati su tono, si sono undici i riquadri a parete, non perdete tempo a contarli), perché il copione è come se contenesse tutte le possibilità e di solito è l’azione che segue il copione ma in questo caso succederà qualcosa di diverso.

Perché si può uscire dal copione,

soprattutto quando la trama si è allentata, si è usurata

quando non sa più rispondere alle nostre domande.

Il fatto di uscire dal copione non lo esclude, tutt’altro, implica la creazione di un nuovo copione, o se volete chiamatela stagione, mappa, configurazione, paradigma, spartito, costellazione, immaginario….e nei casi migliori epoca, ma lì per lì quando si esce da copione è come se non si esistesse, come se non si fosse presenti, si entra in una sorta di limbo… Ritornando a noi, in questa occasione faremo un semplice esperimento, un saggio campione, incominciamo:

fuori di qui, da questa stanza, fuori dal copione, sta succedendo qualcosa che è stato soltanto tracciato, descriverò ciò che sto facendo fuori, ma lentamente, la descrizione sarà sempre meno aderente al reale, non perché il copione non sia veritiero ma perché il reale s’impossesserà dell’azione, a tal punto che dovrò abbandonare il copione o forse sabotarlo, non si tratterà di una improvvisazione, ma del reale, e gli unici attori e testimoni saranno fuori da questo copione, da questa stanza, e voi qui dentro sarete gli spettatori di un copione che non sarà più.

Inutile dirvi che se uscirete da questa stanza non saprete mai se ciò che vedrete rientrerà o no nel copione. Ed altrettanto inutile è dirvi che, se invece resterete in questa stanza, non saprete mai che cosa stia realmente accadendo fuori.

Mi affido allora alla vostra sospensione del giudizio, e ora, incomincerò a descrivere ciò che sto facendo qui fuori, anzi facciamo così datemi un attimo, giusto due minuti, prima vi dirò la mia sulla lingua e nel frattempo vi dirò cosa sto facendo….

La lingua è una materia come potrebbe essere il ferro, il legno, il vetro, il marmo, la plastica o il cemento, ma in realtà è una materia speciale perché ci hanno insegnato ad usarla fin dalla nascita. Le proprietà di questa materia quali la malleabilità, la duttilità, il peso, etc. vengono sperimentate quasi inconsciamente tutti i giorni. Come le materie viste sopra, la lingua non è uguale in tutti i luoghi, ma ha una specificità in base al luogo di provenienza o in base alle componenti interne attraverso le quali è stata creata; ad esempio con la balsa possiamo realizzare dei modellini ma non travi (in questo caso andremmo ad utilizzare l’abete), sta a noi scegliere le parole giuste, quelle adeguate alla costruzione di un discorso che possa reggersi in piedi così da non risultare né troppo duro (come l’ebano), né troppo morbido (come la balsa).

mi trovo per strada in Via Pugliesi vedo le tre finestre della sala dove siete ora voi.

In verità non è così facile da usare questa materia perché, inaspettatamente, alcune parole leggerissime possono risultare illuminanti come tungsteno (il filamento della lampadina), quelle più trasparenti risultare taglienti come vetro e infine alcune possono facilmente trarci in inganno vedi eternit.

E così questa materia, la lingua, pensata a lungo come qualcosa di immateriale, di inconsistente, sarebbe il caso di ripensarla sulla base delle sue proprietà fisiche poiché attraverso questa materia invisibile modifichiamo costruiamo creiamo in continuazione il reale.

Sono qui fuori, continuo a stare fermo a guardare le tre finestre, cerco di immaginarmi lo spazio all’interno, cerco di vedervi, di ricordare la vostra posizione all’interno dello spazio, di vedere Veronica che legge, forse qualcuno si aaccia forse no. Sembrate sospesi tra due piani perché qui dall’esterno non è possibile comprendere dove incomincia il pavimento e dove finisce il sotto.

Quindi nel momento in cui pensiamo la lingua come una materia bisogna valutarne le proprietà specifiche che come abbiamo detto prima non sono poche:

il Peso

il Calore

la Conduttività termica elettrica magnetica la Dilatabilità

la Resistenza alla corrosione la Cristallinità

il Ritiro

la Permeabilità l’Opacità

il Colore la Durezza l’elasticità

la Plasticità etc.

Come abbiamo visto, sono tante le proprietà di questa materia invisibile, ma c’è di più, perché nel caso della lingua italiana il nostro patrimonio, la nostra eredità linguistica è ricchissima, a tal punto da poter riempire interi palazzi.

sono ancora sotto le tre finestre, rivolto verso di voi ma con gli occhi chiusi e m’immagino che galleggiate in quello spazio indefinito tra sotto e pavimento, vedo Cesare Jacopo e Giancarlo aggrappati al tavolo con le mani e con il corpo fluttuare mollemente in orizzontale, Cesare prende un sacco di spazio, e gli altri ruotano nella stanza con le loro sedie beige come piccoli astronauti, apro gli occhi e mi allontano.

Ma ci sono due paradossi:

  • il possesso non corrisponde all’uso, il nostro patrimonio culturale non corrisponde alla nostra civiltà
  • spesso è un uso improprio delle proprietà linguistiche, come gli errori, le cadute di stile o di senso, che ci fa sperimentare il valore delle E’ l’uso non appropriato di una materia che ci dà la possibilità di accedere alle sue ulteriori facoltà espressive.

Sinteticamente: ciò che ci serve è una forma di reinvestimento improprio del capitale linguistico ereditato.

Ho lasciato alle mie spalle l’edificio con tutti voi dentro, in realtà non so bene dove sto andando, so che di là un po’ più in fondo c’è piazza duomo e che ieri sera sentivo un grillo cantare fortissimo, ma in questa piazza non ci sono alberi, è una distesa di pietra, il grillo cantava forte e con una cadenza così costante che sembrava un suono elettronico, poi c’è stato un leggero cambio ritmico e il silenzio, pochi istanti di silenzio e la piazza sembrava vuota, l’aria più fredda e il cielo più alto. Un grillo aveva riempito una piazza ed ora era scomparso. Nell’istante successivo il grillo ripopolò la piazza e in quel momento abbiamo capito da dove veniva il suono, la direzione del suono, ci siamo avvicinati ma non c’era niente anche se il suono era più forte, mi giro e vedo un tombino, mi abbasso, e il grillo era lì dentro, forse il grillo si era infilato dentro il tombino per usarlo come cassa di risonanza…a me piace pensarla così.

Ora sono su quel tombino, lo sto segnando con un cerchio così se per caso vi trovate a passare da qui lo troverete subito, un cerchio con un segno più all’interno, ricordatevelo.

Allora vado verso Largo Giosuè Carducci, credo che continuerò di qua, che andrò in giro a segnare luoghi come questo, troverete un cerchio con un segno più all’interno e voi capirete….

però ora non so cosa sto vedendo, perché non sono mai stato a Largo Giosuè Carducci

come proseguirà questa azione non è scritto in questo copione, continuerà a prescindere da me da voi.

Ora non so più che cosa accadrà…..

perché nessuna parola può descrivere ciò che accade,

perché non sono più in questo territorio, ma fuori di esso, fuori da questo testo da questa stanza, non so più che cosa sto facendo.

Credo che in questo momento l’azione abbia abbandonato il copione, ciò che rimane è la voce e tra qualche brevissimo istante anch’essa scomparirà.