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Nel blog a scadenza settimanale con cui Giancarlo Politi invade la rete per nostro sollazzo (risponde alle lettere al direttore che giungono a Flash Art dai cretini sparsi in tutti gli angoli del Belpaese) è uscita recentemente una sua esternazione sui problemi che hanno avuto le Gallerie a partecipare alle Fiere d’arte, perché la crisi nelle vendite non permette loro di coprire i costi molto elevati dell’affitto degli stand. In succo, il fondatore della Celebre Rivista, che trovi sui tavolini da salotto di tutte le migliori famiglie (senza di essa non si sentirebbero à la page) e che mi è successo con meraviglia di trovare anche negli studi di artisti che stimo (devo dire che il mio radicalismo mi attira a usare l’imperfetto) lamenta che gli Enti preposti non hanno avuto la sensibilità di venire incontro alle gallerie più giovani o esordienti con offerte vantaggiose tali da indurle a partecipare e in generale di non aver ridotto i prezzi, come ci si sarebbe aspettati data la situazione di crisi. Osserva che la stagnazione del mercato rischia di aggravarsi, se non ci si adegua ai tempi e soprattutto che le nuove gallerie saranno costrette a chiudere a tutto scapito dell’arte giovane, che ha sempre trovato in esse un ascolto maggiore.
Non sono certo un esperto del mercato dell’arte e le argomentazioni di P. mi hanno sempre lasciato indifferente. Se mi interesso alla questione è per cercare di capire se proprio lo stato di fatto che lui denuncia non apra uno spiraglio in grado di dare un po’ di ossigeno all’arte.
Sono parecchi anni che le gallerie vanno sistematicamente deserte nei giorni successivi all’inaugurazione e questo indipendentemente dalla loro notorietà e dall’artista esposto. Un dato di fatto sotto gli occhi di tutti, frequentatori abituali e occasionali. L’affluenza si verifica esclusivamente nella serata del vernissage, dedicata per altro a tutto fuorché a guardare le opere esposte, sia perché la presenza delle persone, a volte anche numerosa, impedisce un approccio un po’ approfondito, sia perché gli aficionados della galleria si ritrovano lì per sfruttare il clima di mondanità (a tarallucci e vino) che favorisce i contatti. Altro fatto rilevante e relativamente nuovo è che le inaugurazioni sono prevalentemente concentrate il martedì e il giovedì, in modo da consentire il trasferimento da una galleria all’altra del popolo dei curiosi. E questo ha determinato un’altra conseguenza rilevante, quella della concentrazione degli spazi espositivi soprattutto in alcune poche zone della città. Parlo di Milano, ma pressoché la stessa cosa avviene in tutti i maggiori centri del Paese.
Del resto questo fenomeno, che ha dell’associazionismo, è chiaramente una forma di difesa verso la lenta ma inesorabile crescita delle manifestazioni fieristiche d’arte, sia nell’arco dell’anno che geograficamente: ogni città che raggiunge un certo reddito ha fondato una propria Fiera, monopolizzando naturalmente l’attenzione dei collezionisti poco disposti in genere a scarpinare per gallerie: è così comodo recarsi una volta per tutte alla Kermesse fieristica, dove la concentrazione degli stand permette un colpo d’occhio velocissimo! Le Fiere oggi finiscono quindi per esercitare una forma di ricatto nei confronti delle gallerie che, per il timore di esser tagliate fuori, si vedono costrette a partecipare e a sborsare fior di quattrini agli Enti, per occupare anche un piccolissimo spazio dove esporre i propri artisti.
Questa tendenza naturale va nella stessa direzione del mercato degli alimentari e di qualsiasi altro prodotto di largo consumo. La legge è la solita: il supermercato soppianta il negozietto e mettiamoci l’anima in pace: l’arte è una merce come un’altra (refrain), perché stupirsi? A guardare il fenomeno col distacco dovuto, le gallerie non sono mai stati luoghi frequentatissimi: l’arte si sa è una punta di diamante a cui si possono interessare soltanto ricchi mecenati e pochi altri montatori di gioielli, non è da ieri che il popolo è stato tagliato fuori e se oggi il fenomeno ha acquisito un che di sconcertante per gli addetti ai lavori, agli altri non frega assolutamente un accidente di cosa possa succedere a quei quattro gatti che se ne interessano. E costoro, tutte le volte che si guardano nella palla degli occhi dilatati dallo sconcerto, si accostano l’uno all’altro a mazzo per riscaldarsi col proprio stesso respiro: illudersi, si sa, aiuta a vivere. Fuori la società civile, si dice così? se ne strasbatte di questa frangia di autoesaltati e si incuriosisce, disponendosi pecorescamente a fare da grancassa, solo quando un furbacchione fa il gesto all’americana davanti alla Borsa (quella sì veramente importante!) o appende tre burattini a un albero, rinfocolando la memoria di quello inventato da Collodi cent’anni prima. Sai l’invenzione!
Mi dispiace tediare con queste banalità, ma il mio uditorio non è omogeneo e se con molti miei lettori sfondo porte aperte, con altri era necessario puntualizzare. Passiamo ora a esaminare la questione sollevata da P. dall’angolo visuale interessato all’arte. Questi fatti la favoriscono o, come sostiene lui, la danneggiano?
Dichiaro subito che sono contentissimo che la crisi abbia infiacchito il mercato e soprattutto che abbia fatto esplodere la questione: per me si sta aprendo uno spiraglio molto interessante e spiego perché.
Intanto l’allarme preoccupato lanciato da uno che è il direttore di una rivista di tale diffusione è interessante, perché viene da una fonte che il mercato, un certo mercato di bassa lega, ha sempre contribuito ad alimentare. L’esternazione da una parte denuncia chiaramente il disagio che vive qualsiasi intermediario fra l’artista e il collezionista, sia gallerista che curatore, dall’altra, senza volerlo, mette sotto gli occhi di tutti gli errori insiti nelle scelte compiute dall’arte negli ultimi trent’anni. Mentre prima l’artista poteva guardare con sufficienza e indifferenza l’attività della propria galleria nelle poche fiere esistenti, in quanto trovava spazio altrove per esporre le proprie fantasie creative, a poco a poco si è visto costretto a modificare la propria produzione e a ripiegare su una adatta alle esigenze di pareti precarie e provvisorie, spazi improbabili deputati esclusivamente al commercio, ambienti anonimi e privi di un’architettura degna di questo nome con cui confrontarsi. Se lo spazio non fosse un’entità materica immobile direi: una vera rivoluzione antropologica. Tanto per essere chiari non c’è chi non vede che nelle Fiere la scultura o l’opera a tutto tondo, a qualsiasi epoca e a qualsiasi tendenza appartenga, risulta fortemente penalizzata rispetto all’opera da parete, per non parlare dell’installazione, che negli spazi messi a disposizione degli stand non può in nessun modo essere rappresentata.
Non bisogna nascondersi dietro un dito. La responsabilità per quello che è ormai diventato uno stato di fatto indiscutibile e incontrovertibile è dell’arte stessa. Quando poteva ancora fare qualcosa per rovesciare la tendenza, tirarsi su i calzoni e guardare fuori, attirata dall’oro in circolazione sempre più frenetica, se n’è lavata le mani. Già i poveristi, che pur avevano contribuito ad allargare il vocabolario del linguaggio visivo, occupandosi per esempio di fascine piuttosto che di insalate, con l’indifferenza mostrata per l’ambiente che di volta in volta li ospitava e la sordità nei confronti delle aperture più o meno contemporanee operate dalla Land Art, avevano di fatto facilitato le nuove tendenze ad accalappiare il consumo suntuario del piccolo borghese che, finalmente! poteva accedere allo status quo di ‘possessore di opere d’arte’ e naturalmente frequentare mercati e suk vari. Tanto per fare un solo esempio eclatante e limite, i tentativi di uno come Anselmo, forse l’artista più rivoluzionario del suo gruppo, di appendere le sue pesantissime lastre di granito ai leggeri pannelli degli stand fieristici sono, all’occhio (solo questo è importante), semplicemente ridicoli (sia chiaro per inciso: se Atene piange, Sparta non ride).
Con la Transavanguardia le cose sono precipitate addirittura: si è tornati a una pittura da cavalletto, di mercato facilissimo, adattissima alle esigenze di una nuova serie di collezionisti ignoranti, ma sufficientemente danarosi: “les nouveaux riches”. Prova lampante dell’involuzione è la pratica del gigantismo imboccata in certi casi da alcuni di loro. Penso per es. a uno come Paladino. Ma anche a uno come Cucchi, l’unico del truppone ad aver avuto sollecitazioni a confrontarsi con ambienti architettonici di un qualche valore estetico (si veda la collaborazione con Botta). Più cresceva il loro successo più crescevano le dimensioni delle loro opere, come se l’arte non avesse nella dimensione una valenza espressiva specifica e il francobollo non potesse aspirare alla stessa dignità estetica dei grandi murales. Per esser chiari faremo un paio di esempi: il David è errore giovanile che denuncia la stessa produzione successiva dell’artista che lo aveva creato e per venire all’oggi, che ci fa davanti all’Hangar Bicocca di Milano la quinta delle gigantesche lamiere verticali di un Melotti, artista di delicatissime sculture minime oltre che minimali (si pensi alla sua migliore produzione, quella dei primi anni)?
Ma torniamo a noi, cioè all’involuzione che si è operata nell’arte, dopo le audaci fuoriuscite di gente come Smithson e Gordon Matta Clark, all’occupazione di tutti gli spazi esterni (in senso generale e sociale) da parte dei componenti di Fluxus, dopo l’azione a trecentosessanta gradi condotta dentro e fuori dalle gallerie da un grande artista come Beuys.
Le esternazioni di un P., se non facessero ridere per l’ingenuità della nonchalance con cui crede di occultare il suo coinvolgimento nei fatti, lasciano in bocca l’amaro della sconfitta sostanziale subita dalle migliori forze dell’arte, caduta sotto i colpi della trentennale forsennata attività della sua rivista nella cosciente volgarizzazione e mercificazione dei messaggi artistici. E ciò manovrando semplicemente il grimaldello della Pubblicità!
Malgrado tutto prevale in me un senso di contentezza: la crisi ha fatto precipitare la situazione economica di molte gallerie, rendendo obiettivamente più difficile la diffusione del messaggio artistico da parte degli intermediari, galleristi e curatori, ma ha anche fatto emergere l’azione di chi in tutti questi anni si è opposto al sistema, magari chiudendosi in un isolamento produttivo in attesa che la situazione si modificasse. Ritengo che le parole di P. possano dar adito alla speranza che un qualche spiraglio si stia aprendo. La nuova accademia ha fatto decisamente il suo tempo. Alcuni operatori, curatori e galleristi, si stanno rendendo conto che è necessario tornare a una qualche forma di azzeramento e che l’arte sta cercando nuovi modelli di destinazione, fuori dalle Fiere e dai circuiti tradizionali. Se il collezionismo non è solo espressione di investimento finanziario e saprà esprimere il meglio di sé, la sua natura mecenatesca, non potrà non seguire le nuove tendenze ormai chiaramente e coscientemente opposte al mercato e interessate a seguire strade nuove.
FDL
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