Il vecchio Bob (un omaggio a Robert Pollard e al suo nuovo disco) – di Stefano Ferreri

Se non c’è notizia dietro ogni nuovo album di Robert Pollard, perché perdere tempo a parlarne? Giusta osservazione. Allora, Robert Pollard non fa notizia, mettiamola così, sembra un dato di fatto. Perché scrivere allora qualcosa del suo nuovo album – nuovo finché non uscirà il prossimo, ovviamente, diciamo tra cinque o sei mesi – ‘Space City Kicks’, quando ho lasciato andar via senza mai citarli i suoi quattordici predecessori, o quelli pubblicati a nome Boston Spaceships, o Takeovers, o chissà che altro. Beh, in primo luogo perché mi sembra giusto finalmente spendere due parole per lui. Assurdo aver tirato su il mio blog venticinque mesi fa senza aver mai neanche nominato uno degli autori fondamentali con i quali sono cresciuto negli anni ’90. Un artista più attuale e attivo che mai, oltretutto. Bene, allora approfitto di questa nuova uscita per dire che i Guided By Voices mancano come l’aria nell’asfittica scena del rock indipendente. Ogni anno perdiamo un sacco di tempo a celebrare questi o quegli emergenti, nuove sensazioni, nuove vie alla musica alternativa, nuovi rimescolamenti stilistici per lo più inutili e già decotti al battesimo del fuoco, l’ennesima replica warholiana di repliche warholiane precedenti. A far difetto però non è tanto – o non solo – la qualità sul piano formale. A mancare, non mi stancherò mai di ripeterlo, è quell’urgenza, il sanguinamento nei suoni e nelle parole, la dinamite di una musica che non nasca con le ganasce delle pianificazioni a tavolino, del prodotto di marketing, dell’immancabile strizzatina d’occhio all’ascoltatore. Sembra uno di quei luoghi comuni che io per primo ho sempre cercato di negare e combattere, eppure le classiche buttate giù per gli ultimi due/tre anni non lasciano molto spazio ad una diversa verità: il livello si è abbassato inesorabilmente, già solo un confronto tra gli ultimi due decenni si risolverebbe con esiti impietosi e la tendenza sembra ancora più marcata con gli sconfortanti mesi che ci siamo appena lasciati alle spalle. Giusto parlare dei Guided By Voices e della loro assenza pesante, giusto farlo oggi che Pollard ha licenziato forse il suo album solista più guidedbyvoicesiano e si appresta a riesumare la vecchia band per una serie di concerti americani. Ebbene, con il vecchio Bob tutto è più complesso. Leggi: infarcito, discontinuo, smodato, imprevedibile. E d’altro canto con il vecchio Bob tutto è molto più semplice: lineare (nella discontinuità), riconoscibile, sempre identico a se stesso. Pollard è davvero uno di quelli che non cambiano mai, e grazie al cielo. Mai una virata verso il noise-pop paraculo oggi così di moda (anche se – è certo – ai tempi poteva essere un compagno di banco dei Jesus & Mary Chain); mai un dischetto con le stimmate weird o il rancidume tipico di casa Woodsist, per quanto i pischelli lanciati dalla label newyorkese siano tutti andati a lezione dal maestro elementare (no, non è uno scherzo) di Dayton, Ohio; nessuna inappropriata svolta folk, o country, o dark-wave, o synth-pop, nessuna canzone inquinata dalla solita stramaledetta elettronica. Nient’altro che vecchio rock strascicato, tagliente, rombante, di tanto in tanto confezionato nella carta colorata di qualche squisita primizia pop o dilatato in fugaci miniature post. Ecco, “dilatato” in realtà non è proprio il termine più adatto a fotografare la sua musica. Se c’é un elemento che più di altri ha rappresentato la grande specificità pollardiana nel microcosmo indipendente è stata la sua propensione al frammento, una vera e propria arte in un certo senso. Impressioni più che canzoni, senza riguardo per i canoni delle case discografiche ma con il placet rinnovato della Matador, la sua casa negli anni d’oro.

Questo nuovo disco ha ridestato in me il piacere assoluto provato quasi immancabilmente al cospetto dei Guided By Voices. Dentro gli ingredienti sono proprio gli stessi, ovviamente con meno brillantezza rispetto a capolavori come ‘Alien Lanes’ o ‘Bee Thousand’ ma con intatta la fragranza sincera della musica scritta e suonata con passione, senza ragionarci troppo su. Un giorno forse scriverò un pezzo apposta per la band, magari anche presto se la momentanea reunion si trasformasse in qualcosa di più serio. Per ora posso limitarmi a dire che il primo loro disco acquistato a scatola chiusa è stato ‘Under The Bushes, Under The Stars’, ed è stata per quella mia versione ancora minorenne una mezza folgorazione. L’incontro con quel che aveva un senso definire indie-rock, prima che le etichette fuorvianti della promozione interessata sputtanassero anche quella definizione. In quell’album vive l’essenza artistica di Pollard, una spinta che si intuisce abbastanza nettamente anche nel recente ‘Space City Kicks’ (meno che nei GBV ma comunque più che in tanti altri lavori realizzati da solo, il che è incoraggiante). A lasciare il segno sono certe sgommate di pop-rock schematico e molto alla mano, in questo caso particolarmente ben riuscite: pezzi limpidi e trottanti come ‘Touch Me in the Right Place At the Right Time’, ‘Something Strawberry’, ‘Stay Away’ e soprattutto ‘I Wanna Be Your Man in the Moon’ – sofficemente rock, ruvidamente easy – canzoni che il vecchio Bob non ha mai smesso di scrivere e che a me hanno ricordato quasi subito l’immediatezza compatta di ‘Mag Earwhig!’. Ecco, avrei voluto scrivere “del capitolo più accomodante e curato della sua discografia”, poi stamattina ci ho dato una ripassata e…beh…non l’ho trovato certo meno incendiario degli altri episodi. Il ché in un certo senso andrebbe a ridimensionare proprio ‘Space City Kicks’, cosa che non ho intenzione di certificare. Il nuovo Pollard, come il vecchio, è gradevolmente arruffato e sbilenco (‘Sex She Said’), gronda riverberi e non lesina sulle bordate di sano nichilismo, sempre e comunque rispettando il verbo bozzettistico della vecchia formazione. Dall’uomo che ha sconfitto anche Nick Saloman a.k.a. Bevis Frond alle olimpiadi dell’incontinenza e della sovraesposizione discografica, era lecito attendersi non solo LP a scadenza fissa ogni cinque mesi, ma anche opere stipate all’inverosimile di brani. Non fa eccezione questo titolo più recente anche se, fermandosi a 18, forse è addirittura sotto media. Per il resto tutto quanto coincide con l’impronta sonora che Bob ha sempre regalato di sé: tornano a fare capolino la bassa fedeltà rumorista (‘Picture a Star’, l’iper-pollardiana ‘Spill The Blues’), l’amarezza gentile in salsa elettracustica (‘Woman To Fly’: il genere è ‘Not On War’, per chi la conoscesse), incubi sonori tutti laminature e cambi di ritmo (‘Children Ships’) e addirittura motivetti unplugged con il dono della sintesi (‘Into It’). Già, il dono della sintesi. Beh, nel vecchio Bob questa è sempre stata una preziosa certezza e guai a parlare di riempitivi anche se di rado si va sopra ai due minuti di lunghezza. Pure dei mini-segmenti come questi sono abbastanza se riescono a tradursi in veri e propri inni al disincanto: anche a questo giro ce ne sono diversi, dalla superba (autobiografica?) ‘Follow a Loser’ alla deriva decadente di ‘Tired Life’, ritratto impeccabile del rocker indifferente che non nasconde se stesso né la propria ostinata riluttanza al compromesso. Il vecchio Bob, appunto.

E’ in rete ‘doppiozero’!

[E’ online da ieri “doppiozero”, un luogo trasversale a radici fascicolate, a cura di Marco Belpoliti e Stefano Chiodi. Sotto le istruzioni per l’uso, tratte direttamente dal sito.

Potete leggere un pezzo di Luigi Grazioli, di Ivan Baio con Angelo Orlando Meloni, del sottoscritto e di Francesco Lauretta. A. R.]

doppiozero: istruzioni per l’uso

Tutte le esperienze di produzione e informazione culturale si stanno ormai affacciando in rete e l’utopia di un sapere diffuso, accessibile a tutti, sembra non esser mai stata così vicina a realizzarsi. Un anno fa ci siamo messi intorno a un tavolo con quest’idea in testa: trovare un modo nuovo per produrre e pubblicare (nel senso di rendere pubblica) cultura in rete con uno sguardo più lungo e più lento, capace di interpretare la contemporaneità, di mostrarla come un campo dove non conta solo il libro, l’immagine o il personaggio del momento ma in cui risuona la memoria e germoglia il futuro. Stimolare riflessioni, discussioni, partecipazione: questi i nostri punti di partenza. E soprattutto, formulare nuove domande e cercare nuove risposte per sollevare la temperatura culturale del nostro paese, per cercare di capire chi siamo e dove andiamo.

E così eccoci qui, con qualcosa che è allo stesso tempo un esperimento, un passo avanti e una prova: una versione beta, come si dice sul web. Che tradotto significa: ciò che vedete è solo una piccola parte di quello che abbiamo in mente.

doppiozero esplora la contemporaneità attraverso dossierrubricheinterviste, immagini, saggi: si spinge all’indietro, alle radici della nostra identità nazionale, studia il paesaggio urbano, raccoglie testi dimenticati e ne sollecita di nuovi, invita a viaggiare nel tempo e nello spazio. E lo fa pubblicando testi brevi e interi libri, blog d’autore e polemiche, fedele alla sua  impostazione non profit, perché la cultura sia davvero uno spazio di sperimentazione, di rischio, di condivisione.

doppiozero è un progetto editoriale, un luogo di incontro, una biblioteca e un archivio. Un luogo dove fare scoperte, approfondire questioni, incontrare scrittori, artisti, critici, poeti. Dove costruire insieme una comunità di lettori. Speriamo ci seguiate in questa avventura.

“L’immagine che resta” – Francesco Lauretta alla Ermanno Tedeschi Gallery (8 feb – 29 mar)

Senza titolo, 2010, olio su tela, cm 150x120
Senza titolo, 2010, olio su tela, cm 150x120

Il comunicato stampa:

Mi piacerebbe fare una mostra che lasci ricordare, affacciare su un mondo remoto, arcaico ma senza sentimentalismi e allo stesso tempo ci ponga nella condizione di riflettere sul nostro tempo incerto. Mi piacerebbe scrivere racconti brevi, tanti, uno al giorno che raccontino le difficoltà di vita e di morte, e che poi scivolassero come allegorie per riflettere la pittura giunta nel mio tempo come briciola dorata lasciata dentro una teca. Potere osservare lo sguardo, dritto negli occhi di un animale, una pecora, pecore come fossero umani gli occhi incomprensibili. Mi piacerebbe impastare i colori con violenza e con violenza stracciare le foto col colore febbrile, che differentemente dai grigi –o cachi- toni nordici e mediatici tipici di molta della pittura today riflettano l’ambiguo,un collasso pittorico, perché la pittura ha bisogno di nuovo d’ossa, d’una verticale eretta, di vertebra, incandescenza contro. Perché dopo anni, poco più d’un lustro scopro che di ri-costruzione, ricordo, riproduzione e redenzione ha bisogno questo medium maltrattato, di ingegneria. Mi piacerebbe far sentire in chi guarda l’aldilà della pittura, e la pittura figurativa deve andare al di là delle interpretazioni convenzionali, e gli elementi reali si impongono più nettamente allo sguardo dell’osservatore quanto più si estinguono nel mondo. Ecco che dipingendo in chiusura e ritocco, nella ciarla, sotto pompa sfarzosa dell’allegoria, mi piacerebbe suggerire, con poesia, alla pittura: prendi le tue tombe e va’ .


“L’allegoria è la capacità di dare espressione al mondo non nella sua pienezza e nella sua perfezione, ma nel suo andare in rovina e frammentarsi”. W. Benjamin

[Quello che noi vediamo nelle scene di Lauretta, fatte di mille particolari che si scoprono a poco a poco, è l’immagine nell’immagine; per questo si può parlare di meta- pittura, ovvero dell’uso del linguaggio pittorico come mezzo concettuale di riflessione sulla pittura stessa: le opere di Lauretta entrano ed escono dall’ipotetica “cornice” e intercettano segnali futuri.]

cablogramma postumanista n.7

Ridurre i costi della politica

Io Ministro Giuseppe Cornacchia per la razionalizzazione della spesa pubblica anno 2024 allego il seguente prospetto di ridefinizione delle Province Italiane in numero di 55 invece di 110, con la contestuale abrogazione delle Regioni. Viene inoltre resa definitiva l’abrogazione delle Giunte Comunali per agglomerati sotto i 5000 abitanti. Viene infine confermato il termine di due mandati per ogni carica pubblica.

Viene approvato il Piano Quinquennale di rilancio basato su Cultura, Energia, Turismo e Produzioni Immateriali. A seguito dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio del 2017 e l’abolizione degli ordini professionali del 2019, viene imposto un nuovo tariffario minimo per le prestazioni di interesse pubblico. Ogni controversia sarà riportata al rappresentante locale della Corte dei Conti Centralizzata di Bruxelles.

cablogramma postumanista n.6

Nuova Poesia Civile (a Fantuzzi, Mari, Terzago, Gallerani)

Dieci anni fa Atelier usciva con un numero monografico, mi pare il n.24, dedicato alla “responsabilità della poesia”, nel quale tutti gli intervenuti (ventenni più o meno come voi) mettevano sul piatto quel che adesso state mettendo, molte volte antecedendo le proprie stesse opere venute solo dopo. Si delineavano i seguenti indirizzi: futuristi, recupero della bellezza, realisti, dono, biografismo, impegno civile. All’ultima categoria contribuirono Rivali, Desiati, Tuzet, Piergallini, Pisanelli, Italiano, Severi. Soprattutto Piergallini ha poi dato seguito ai suoi intendimenti, sia in lettere che in politica attiva.

Una questione: quella del “mestiere”. Un certo tipo di operato, come anche voi lo proponete, porta dritto alla politica attiva e quindi al discorso della rappresentanza reale. Mi pare remota la possibilità di accreditarsi, oggi nel nostro Occidente e qui in Italia, come poeti di mestiere e assumere una rappresentanza indiretta attraverso pauperismi stilistici. E dove non fosse remota, tale possibilità sarebbe -a mio modesto avviso- superata dagli eventi e dalle forme aggregative (ed economiche, non volendo assistenzialismo di stato più o meno mascherato) contemporanee.

Giuseppe Cornacchia

http://www.nazioneindiana.com/2011/02/03/pubblico-e-poeti-una-svolta-civile/ parte prima su Nazione Indiana

http://www.nazioneindiana.com/2011/02/05/pubblico-e-poeti-una-svolta-civile-parte-seconda/ parte seconda su Nazione Indiana

IL DONO ALTO DELL’APERTURA: “Lettere nomadi” di Luciano Neri, puntoacapo, Novi Ligure 2010

“Ma prossima è la morte a una immortale
 Vita, chiusa la falsa, apre le porte,
 Vita di vita e morte della morte.
 Chi gli agi fugge per amar naufragi?
 A chi, più del riposo, il viaggio piace
 E il lungo errare è più dolce del porto?”
Franco Fortini

“ma l’impegno è doppio la fatica è dura il rischio

è alto e nel vissuto vive (e nel vivere vivendo

continua a vivere e a morire) e morendo vive

fa un giro pieno ma senza tempo si fa presente

e con il dono alto di chi ha capito…”

(p. 84)

La nuova raccolta di Luciano Neri, dopo l’esordio visivo in ricognizione di un reale frantumato rappresentato da “dal cuore di Daguerre”, espone la parola poetica ad un tour de force itinerante che, proseguendo sulla scia del libro precedente, trasporta verso la maturazione che una perdita di rotta, ontologica in senso pieno, linguistica in rapporto allo strumento utilizzato, possa condurre ad una inedita definizione del reale stesso.

Le premesse tematiche di tale operazione, sono esplicitate da un denso approfondimento filosofico e da una riflessione costante sul pensiero debole tardonovecentesco e dalla domanda capitale sulla effettiva valenza, vista la scomparsa di paradigmi di riferimento etici, dello strumento verbale all’interno delle mutazioni antropologiche in atto nella contemporaneità.

Nel quadro quasi asfissiante di una quotidianità viziata dalla continua riproducibilità e ripetitività degli eventi, dal luogo-non luogo dei social network, finestre aperte sull’incapacità di contatto e celle di clausura di una vita sociale spinta in direzione di un voyeurismo neutralizzante, al luogo altrettanto asfittico dell’informazione veicolata e per questo trasformata in show di propaganda unidirezionale e inibente qualsiasi dibattito, la lingua poetica tenterebbe di violare, in senso spaesante e in assoluta solitudine, il circolo vizioso della spersonalizzazione attraverso una nuova articolazione della scena relazionale. Alcuni libri significativi in questa direzione sono stati recentemente pubblicati, si pensi a “L’attimo dopo” di Massimo Gezzi o a “Bambino Gesù” di Daniele Mencarelli i quali, con scelte stilistiche diversificate, si affiancano a “Lettere nomadi” nello stabilire nuovi scenari d’azione in cui la poesia riesce a manifestare la sua vitalità e forza di opposizione all’imperante confusione di riferimenti etici e all’annichilimento delle dinamiche di relazione.

Il concetto, o parola chiave, sotto il cui segno queste prove poetiche possono essere accomunate è “apertura”, apertura verso un “altro” che contribuisce a definire l’individuo attraverso l’attivazione di un ascolto dis-tratto nella necessità del viaggio, metafora per una potenzialità di movimento che potrebbe portare all’incontro: “poi venne il moto spostando i corpi/ nella brezza e il racconto sulle ossa/ galleggianti una presenza oscura,/ una parola detta, non detta, l’estremo/ dono” (dalla sezione “Ultime notizie”, III, vv. 8-12, p. 12). Ed è la dimensione cinetica, che collegandosi strettamente alla tematica dell’offerta gratuita, del “dono” appunto, ad esibire in tutta la sua valenza la possibilità dell’oscillazione tra partenza e ritorno. Le scelte sintattiche delle prime sezioni manifestano proprio questa tensione oscillatoria in cui i referenti si confondono nella trama dei versi, e soggetti e oggetti si mescolano sulla scena del singolo componimento fino a scomparire rendendo protagonista la stessa scena e quindi il suo movimento: “occhi spostati da sibili/ frangivento archi alla foce/ delle grotte sul povero/ costrutto dei corpi, aria/ levitata dalla terra e virtù// di una grazia sconfinata/ ma senza gravità la caduta/ senza rumore disperso” (“(guerra civile)”, vv. 11-18, p. 24).

La dispersione, come altro concetto fondante del viaggio, insieme alla possibilità provvisoria dell’orientamento nel contatto, contribuisce a chiarire l’inedita situazione in cui viene a trovarsi la lingua – protagonista del libro, realtà sottesa all’ulteriore metafora del naufrago-viaggiatore, il poeta stesso che metonimicamente è il suo sistema verbale – consistente nel movimento sempre più incalzante e fluttuante tra dispersione e orientamento, appunto. Se viene corso il rischio del salto nel buio del viaggio, questo movimento apre in potenza un campo, uno spazio dalle molteplici possibilità ed evenienze, una nuova costellazione di comunicazioni svincolate dalle identità aprioristicamente definite e perciò refrattarie al dialogo: “lo spazio si nutre più del campo aperto/ che al movimento – fugge la chiarezza/ benché la memoria sia un sasso” (dalla sezione “Pagine controluce”, p. 28). Ma le stesse potenzialità sono quasi attenuate dal carattere frammentario dei dati raccolti (i testi di “Lettere nomadi”, non dimentichiamolo, sono presentati come schegge di corrispondenza: “uno scarto […] grazie al quale sperare per una destinazione”, p. 97),  e forse è proprio questa poetica del “minimo” (lo scarto, il truciolo mi verrebbe da dire), della possibilità nel residuo a trincerare nella speranza, nell’aspirazione assidua, il significato della raccolta. Nel racconto frammentato non sembra essere velata una semplice indecisione tra l’ampio respiro della narrazione in versi e la clausura, comunque vivificante, del sospiro lirico (con tutte le potenzialità che il dialogo lirico può aprire ri-attivando intimamente la dinamica di relazione), piuttosto l’acquisizione di un mestiere che, rimodulando i suoi strumenti, tende a eliminare definitivamente ogni distinzione, ed attivando, anche sul piano stilistico, una possibilità comunicativa tra micro-evento (il singolo componimento) e macro-evento (il viaggio-trama).

L’apertura comunicativa, se si accetta la lettura appena abbozzata di uno stile che tenti un cammino spiazzante all’interno della classificazione dei generi, è il riflesso psicologico di una volontà inoperosa che svuotata dalla necessità della scelta potente diviene scelta della necessità impotente; come dice Agamben: “questa potenza o possibilitazione originaria ha […] costitutivamente la forma di una potenza-di-non, di un’impotenza, in quanto può soltanto a partire da un poter non, da una disattivazione delle singole specifiche possibilità fattizie” (G. Agamben, “L’aperto, l’uomo e l’animale”, Torino 2002, p. 70).

Non potendo fare a meno di disporsi alla sua necessità la lingua appronta il teatro veritiero della sua stessa apertura: la presenza nella concretizzazione della sua assenza sempre falsificabile e per questo modificabile: “scrivendo cambio pelle/ rimanendo presente in ogni/ momento della vita separabile/ in un lampo e lì metto a punto/ il necessario per i compagni/ destinati al cammino su alture/ imprevisti.” (dalla sezione “Sosta ad Exharĭa”, V “(margine per lo scrivente)”, vv. 1-7, p. 67). Nella nuova dimensione di necessità impotente all’apertura, la metafora del viaggio acquista e fa acquistare alla poesia nuovi confini e coordinate nella stessa fine della possibilità di orientamento; l’ultima sezione del libro “Fine del ritorno” sembra suggellare, per un attimo breve, una stagione che rimane divaricata sulla propria eternità attraverso le tappe di un cammino mai nato, sull’orlo di un’esistenza che ha da sempre compiuto il passo iniziale in direzione della sua stessa impossibilità, impossibilità, appunto, del ritorno ad un qualsivoglia luogo di partenza: “il confine è quello che non ha nome e dorme in chi lo ha perduto/ e vive nell’altro che ha trovato morto appartato e in ogni madre vive/ e in ogni uomo secondo distanze lontananze avanti indietro in bagliori/ nel bisbiglio di chi si ferma in quell’immagine persa percorrendo pupille/ distratte senza carta ma ferisce più lì o se ferisce perdona” (dalla sezione “Fine del ritorno”, III “(a M.)”, p. 95).

Sull’espansione del viaggio senza fine di una lingua aperta al suo vagabondaggio, così come sui versi ormai irriconoscibili per dimensioni e sviluppo sintattico, “Lettere nomadi” si chiude, sintomaticamente senza un punto fermo, estendendo a noi lettori l’orizzonte vastissimo e ormai libero della sua instabilità.

 

Febbraio 2011

Gianluca D’Andrea

The Divine Comedy live a Torino (9/12/2010) – di Stefano Ferreri

Considerazioni in ordine sparso dal blocchetto degli appunti:

– Artista, da calendario: The Divine Comedy. Tecnicamente ha però ragione il poster dell’evento, che specifica in piccolo “An Evening With Neil Hannon”, casomai ci si aspettasse una band vera e propria.

– Niente gruppo infatti, sul palco solo il pianoforte a destra e chitarra e microfono a sinistra. E’ annunciata come antipasto una biondina irlandese, Cathy Davey, ma quelli qui affianco si dicono certi che non la si vedrà. Si vedrà.

– Attesa limitata. Sale un tizio robusto e barbuto che non è Hannon – e non è la Devey a maggior ragione – con un paio di bottiglie di vino tra le mani. Versa del rosso in un calice poggiato su uno sgabello accanto al piano. Lascia entrambe le bottiglie in loco. La seconda è di bianco. E’ segno che evidentemente ci siamo. Quel po’ di disappunto lo lascio volentieri ai soli fan di Cathy Devey, sempre che ne esistano e siano qui adesso. Improbabile comunque.

– Segnali con torce elettriche tra il tipo del locale ed il fonico sul soppalco in fondo alla sala. Nell’ombra a lato del palco si intuisce la presenza di un’altra persona, minuta, con cappello e valigetta: cinque centesimi che è lui.

– Scommessa vinta. Arriva camminando come uno scolaretto. E’ vestito come un travet molto british, impeccabile, circa anni ’40: completo grigio elegante, camicia bianca, cravatta appena appena allentata, scarpe Camper di una linea evidentemente classic oriented. Entra tra mille inchini, brandisce la stessa pipa che ha sulla copertina di ‘Bang Goes The Knighthood’, saluta i fan togliendo e rimettendo un paio di volte la bombetta. Siparietto carino chiuso con queste sibilline parole: “È quel che faccio per vivere…”.

– Risate. Se ho intuito lo stile e la trama, posso azzardare che saranno le prime di una lunga serie.

– Il folletto nordirlandese si accomoda davanti al piano. Ripone la pipa nella borsa, prende il bicchiere, beve un sorso. Pare già entusiasta dell’accoglienza, del vino poi non ne parliamo. Ha la barba incolta ed è magro, magro da far paura.

– Così parlò Zarathustra. Accennata a mo’ di riscaldamento, figurina nel prontuario degli scherzi, ogni nota una strizzata d’occhio a noi spettatori che dopo pochi secondi già lo adoriamo.

– Non è tutto una burla Neil Hannon, anche se a guardarlo in faccia lo si potrebbe pensare. Subito ci tira fuori un paio di pezzi di feroce malinconia, ed è assolutamente sobrio e decadente anche senza altri accompagnamenti. Una ‘Assume The Perpendicular’ così, semplice ma vibrante, è ben diversa da quella sfarzosa del disco ma indiscutibilmente viva.

– Da sottolineare: Hannon dal vivo è genuino. Ecco, ben evidenziato.
Rincara la dose con ‘The Complete Banker’, dopo la generale euforia di uno dei suoi vecchi classici. La voce è fantastica: profonda, sicura, invecchiata, sapida. A colpire però è soprattutto l’esecuzione. Senza formalismi, pulsante ma distesa, originale e fedelissima al tempo stesso. Non mi capacito di come possa suonare familiare e insieme stravolta, quel che certo è che è un grande piacere. Ciondolante, dilatata, qua e là frenata ad arte da Neil che si sofferma ironicamente su questa o quella frase (“Numbers never lie”), senza smettere di ammiccare a noi che siamo neanche un metro sotto di lui.

– Mentre raccoglie proposte per una scaletta in progress da chiunque abbia un titolo da suggerire, mentre abortisce con un “Merda! Troppi accordi!” un pezzo sul quale già aveva manifestato dubbi al momento della richiesta, un primo semplicissimo ragionamento si impone: nell’uguaglianza “pauperistica” di un set solo voce&piano, cavalli di battaglia e brani nuovi si fronteggiano in una sfida ben più equilibrata che sul mio Ipod. Le differenze di rango sono annullate in un pareggio sostanziale, anche se il livellamento tende comunque verso l’alto.

– Nuovo appello. La ragazza accanto, quella che conosce ogni singola parola di ogni singola canzone – e le canta tutte, stramaledizione! – la butta in burla quando Neil chiede un titolo dal sapore natalizio. ‘Last Christmas’. Lui raccoglie la sfida senza scomporsi (ma trattenendo a stento la propria ilarità) e incanta anche col muffito pop planetario del George Michael che fu. Dannatamente in gamba, Mr. Hannon!

– Al giro successivo riprende a sfottersi. Poche note della sempre magniloquente ‘Sweden’, “Accidenti. Sembro Wagner”. Versione scintillante. Poi ‘Everybody Knows (Except You)’, senza la maschera del buffone. Un capolavoro di leggerezza ed emozione.

– Quando, bicchiere alla mano, annuncia di voler suonare un po’ la chitarra, ed ancora si spende in elogi sul nettare di Langa, ecco il suo roadie venire verso di noi con una bottiglia di bianco ed una pila di bicchieri di plastica. “Vino per tutti!”, chiosa impugnando l’acustica.

‘Perfect Lovesong’, estremamente rilassata. Una discreta libidine. Il fatto di aver iniziato a contrattaccare nei confronti della vicina, cantando anche più forte di lei, parla chiaro. Sentendo poi citare (a proposito) Beatles e Beach Boys tra le righe, attestando le ottime doti da artigiano demodé del cantante di Londonderry, mi domando: e se suonasse proprio così la perfetta canzone d’amore?

– Fermi tutti. Versione da pelle d’oca di ‘A Lady of a Certain Age’, semplicemente strepitosa. Hannon dimostra cosa significa interpretare una canzone, anziché limitarsi a cantarla. La rilegge, la rimette in scena, le da nuova linfa e sa replicare la stessa malinconica decadenza che gli arrangiamenti sontuosi avevano creato in studio. Quegli archi bellissimi non ci sono, eppure non se ne sente la mancanza.

– Ora, delle due l’una: o lui è un mago, o sono magici i suoi pezzi. Di riffa o di raffa, chapeau.

– Dopo queste due chicche pazzesche, eccolo di nuovo al piano. ‘Generation Sex’, l’ha chiesta il tipo dietro di me. Con un altro trucco trasformista, vien fuori pimpante come non mai. Neil incalza con una ‘Plough’ molto più lenta e teatrale, ma anche questo cambio d’abito rientrava nel suo copione d’artista fuori copione.

– No, non perde un colpo. Ed anche questo vino è incredibilmente buono. Il trip sul ‘National Express’ è una festa. Non che avessi difficoltà a immaginarlo ma, insomma, con tutti quei “Ba Ba Ba Da” mi sono superato. Peccato che nell’euforia generale si siano un po’ persi. D’altronde lo dice anche il testo: “Everybody sings…”. Verissimo, accidenti. Una macumba collettiva.

“Che cosa ci faccio qui? Ohh, un concerto…Già! Beh, allora battete le mani e tenete il tempo per me”. E battiamo le mani ed ecco ‘Indie Disco’. L’inno. L’anti-inno. Quel che è. Una meraviglia ragazzi. Neil rimpiazza le voci femminili con il falsetto e, da non credersi, gli riesce alla grande pure quello. La tizia qua accanto gli da manforte e non sbaglia un’entrata o un’intonazione. Andrà a finire che lui la assumerà come corista e mi diventerà persino simpatica.

– Ancora il falsetto, ancora una polifonia simulata. Incredibile cover movimentata di ‘Don’t You Want Me’ degli Human League, suonata con piglio ludico incrociando le mani, e tutti lì di nuovo a cantare, compresa la mia vicina che sa anche questo testo a memoria.

– Mi sembra di sognare. Cosa diavolo c’era in quel vino, si può sapere?

– Altra terna di chicche alla chitarra: ‘Alfie’, frizzante; ‘Lost Property’, straziante; ‘Songs of Love’, deliziosa. Tutto è formidabile in quest’uomo. I modi da briccone garbato, lo stile – qualcosa di innegabile in lui – e quell’accento fantastico che si impone di smussare, senza troppo successo. L’impressione è che Neil si diverta non meno di noi in questo scambio serrato di battute e complicità, cui lui aggiunge l’arte con generosità infinita. Sembra impossibile, eppure…se finge lo fa talmente bene che c’è da inchinarsi lo stesso al suo cospetto.

– Domanda se qualcuno tra noi si sente “happy”. Raccoglie consensi come neanche Bossi ad un raduno a Pontida, quindi insiste sornione: “Not hopeless bored?”. Adorabile fetentissimo cacciatore d’applausi.

– Nuovamente si propone per suonare qualche titolo dalla wishlist comunitaria dei fan. Furbissimo Hannon. Schiva con scuse sempre più pirotecniche i brani che non fa mai, per poi approvare con l’aria di chi ti fa un vero favore uno di quelli che esegue praticamente ogni sera. Anche illusionista l’amico. Poi però gli capita il caso in cui la proposta di turno è così stramba o inattesa che non raccoglierla sarebbe un delitto. Lo sa bene, da abile commediante. Quindi ‘Wanderwall’ ce la regala, ridendo di gusto e trasformandosi in una (comunque deliziosa) caricatura di Liam Gallagher. “Avrei detto ‘qualcosa che NON volete sentire’” e chiude con un “Dio, la odio…”. Che spasso!

– Le note della Marsigliese dicono ‘Frog Princess’, Neil Hannon dice “Venitemi dietro”. Chiaro il programma? Con ogni probabilità è il pezzo più partecipato della serata ed io mi ritrovo imprigionato nel ritornello, un’altra volta, portato via come dalla corrente.

“Quale parola usate voi per dire joke?”. Scherzo. Barzelletta. Ecco. Neil pretende una barzelletta per continuare. “If you know a funny joke, then tell it now…”. Ancora una volta è chiarissimo dove voglia andare a parare. Come sostiene in ‘Can You Stand Upon One Leg’, raccontare una barzelletta che faccia ridere è più difficile di quanto si creda. Un po’ come stare in equilibrio su una gamba sola, battere papà a scacchi, scrivere una canzoncina sciocca, tenere a lungo una nota. E’ il dazio da pagare per godersi il suo equilibrismo vocale nella canzoncina più sciocca del concerto. Gliela racconta – indovinate un po’ – la mia vicina, ed è così puntigliosa nello scherzo da sfoderarne una che ha proprio le gambe come tema, la superclassica “Perché le donne hanno le gambe?”. In tutta risposta Hannon cita di nuovo se stesso da quel testo (“That’s not bad, I’m impressed”) e pare sinceramente divertito.

– Per la cronaca, alla fine del pezzo nessuno riesce a tenere quella nota come lui. Era più difficile di quanto immaginassimo tutti, evidentemente.

– Non facciamo in tempo a rilassare i muscoli destinati al riso che il biondo quarantenne di Londonderry ci sorprende ancora con un’ultima repentina virata verso il nostalgico. ‘Tonight We Fly’. Se non è la più bella canzone dei Divine Comedy, poco ci manca. Un inno spensierato alla vita, con tutta la sublime leggerezza di cui Hannon è capace. Un momento liberatorio da assaporare ad occhi chiusi. “Happiness is so hard to find” – canta lui – ma è certo che stasera ce ne ha servita una fetta niente male. Col rosario di tutto ciò che si lascia indietro quando è tempo di bilanci, idealmente voliamo via con lui, tutti quanti.

Qui finiscono i miei caotici appunti e non sto a citarvi quel paio di bis in coda, né l’ultimo sorso di vino. Ce n’è già abbastanza per azzardare che, forse, il mio premio per il miglior concerto quest’anno se lo cuccano i Divine Comedy. Pardon, Neil Hannon.

SETLIST: ‘Assume The Perpendicular’, ‘The Summerhouse’, ‘The Complete Banker’, ‘Last Christmas’, ‘Sweden’, ‘Everybody Knows (Except You)’, ‘Your Daddy’s Car’, ‘Perfect Lovesong’, ‘A Lady of a Certain Age’, ‘Generation Sex’, ‘The Plough’, ‘National Express’, ‘At The Indie Disco’, ‘Don’t You Want Me’, ‘Becoming More Like Alfie’, ‘Lost Property’, ‘Songs of Love’, ‘Wanderwall’, ‘The Frog Princess’, ‘Our Mutual Friend’, ‘Can You Stand Upon One Leg’, ‘Tonight We Fly’. ENCORE: ‘I Like’, ‘Lucy’.

Stefano Ferreri

[tratto da http://www.indie-rock.it/concerti_recensioni_look.php?id=791]