A chi parla questa Madonna nera del Tindari che trattiene il buio? Il Logos chiarirà. C’è molta confusione stamane a Tindari, è domenica; uno solo parla, la sua voce è inascoltabile per troppa umana forza. Lei è piccola, laggiù, in fondo, e con lei c’è Dio, irriconoscibile.
Col restauro del 1995-96 la Theotòkos bizantina ha perso il piviale di seta bianca, il diadema e il giglio, il Bambino la tunica candida e la corona. Nel corso dei secoli la Madonna aveva subito una progressiva e sfarzosa vestizione, oggi è nuda, nel suo legno di cedro del Libano, ed è la Nefertiti che inclina e sommove il promontorio del Tindari verso Oriente.
Il nostro passo, scosso, muove allora verso Occidente, verso la Tindari greco-romana, dopo un momentaneo stacco sul golfo di Patti e i laghetti di Marinello dall’alto del promontorio.
Ci si fa largo fra le bancarelle fitte sulla stretta via che conduce all’area archeologica fino a che non si giunge al cancello d’entrata; due cani ci accolgono all’ingresso e due impiegati alla biglietteria; prima tappa all’Antiquarium, quindi il decumano superiore, e subito ad est verso la Basilica (un propileo in direzione dell’agorà, sembrerebbe), poi l’insula IV, le due case signorili con terme, le botteghe e il decumano inferiore; si risale lungo il cardine e si svolta a ovest verso il teatro del IV sec. a.C, che, addossato a una collina, guarda il mare, pare Taormina. Niente templi. L’acropoli si suppone dovesse essere dove ora sorge il santuario e lì un tempio (?) dedicato a Cibele, mentre più in basso, alle pendici del Tindari, nell’attuale frazione di Mongiove, il tempio di Giove (?), il toponimo ne avrebbe mantenuta l’eco.
Il giro è stato veloce, c’era una comitiva nutrita che teatralizzava a tappe l’Ifigenia in Aulide, inframmezzata da note storico-archeologiche sul sito; una sosta lunga se l’è meritata invece l’Antiquarium: una testa in marmo di Augusto, due Nikai alate, una maschera tragica in marmo con copricapo frigio, statue romane di personaggi togati, iscrizioni, capitelli, un candelabro in bronzo, coroplastica votiva, un bel foculum dall’insula IV, urne cinerarie in piombo e in vetro con anse a “m”, unguentari vitrei campanulati, ecc. ecc.
Quando ce ne andiamo, dopo tre ore, dalle 10:00 alle 13:00 – eravamo partiti alle 6:15 – ce ne andiamo insoddisfatti un poco; è un sito mainstream, Tindari, di luce feroce, aperto all’azzurro del mare e alle tenebre dei Nebrodi; l’antichità sopravvive abbagliante e scontata. Si attende il miracolo, che qui arriva perché si è dimentichi del crinale su cui si svolge la vita. E allora dire grazie significa riavvolgere tutto il nastro, correre alle battaglie, al sangue, alla devozione che fa umano ciò che non ha nome e che riporta al quotidiano spento di un centro commerciale, l’Auchan di Melilli, ritornando a casa. Al Feltrinelli Village, una raccogliticcia libreria, dalla quale si scappa senza neanche aver fatto caso al misfatto compiuto dal signore obeso con in mano un libro di Chiarelettere, una scorreggiata sofferente e malevola senza alcuna tenerezza quale quella provata, invece, un’ora prima nell’area di servizio di Calatabiano. In bagno un marchettaro grasso quasi calvo con minicodino in mutande vestitino cortissimo e vaporoso a fiori e sandali con una pochette da bambina; e uno sguardo perso.
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