Humus

Poesie della “non-vita”: “Humus” di Francesco Maria Tipaldi (L’Arcolaio, Forlì 2008)

“Questo infimo inizio prende origine dal fatto che l’uomo,
a differenza degli animali, sa di dover morire”.

Mario Perniola

“Morituri te salutant” e il germinare ibrido (stile bestiario) degli esseri, scenari del nostro medioevo futuro, preconizzato nel 1995 da Massimo Miccoli (vedi “Telèma 1”, estate 1995) partendo da una riflessione che verteva sulle implicazioni economiche e politiche della diffusione di Internet.
Il nuovo senso della parola religio, non più “riguardo”, né “legame”, piuttosto desiderio individuale, fantasma di comunione. Comunione con la morte, comunicazione della morte e sua futilizzazione, questo il panorama su cui ogni giorno si affaccia la nostra esistenza.
Un approccio diverso di lettura del reale invece pare emergere da un libriccino di recente pubblicazione: “Humus” di Francesco Maria Tipaldi, dal quale è doveroso tirare fuori qualche considerazione.

È stato detto correttamente di come questa poesia sia concentrata su una dimensione escatologica ed etica, a sottolineare la giustezza della definizione aggiungo due citazioni:

“La verità ha la struttura della finzione” (J. Lacan);

“Un’etica che tiene spericolatamente testa alla mostruosità latente dell’esser umani” (S. Žižek).

In effetti a farsi amare è il tentativo della lingua di mescolare le ambivalenze in essa residenti. La sintassi si lascia sciogliere da ossimori talmente elastici (“Ed io sono andato/ dove la pioggia cancella le pozze/ e le merde fanno bollire la frutta, i cachi”, p. 26) da risultare per paradosso “comparativi”, è il sintomo di un’esigenza che riguarda una tutt’altro che sinistra accoglienza del mondo, una coincidenza appunto. L’atmosfera in cui si svolge questo excursus poetico è nuova e germina in rapsodie spezzate, forma una rete di concetti e, nonostante l’insistenza dei titoli delle sezioni paia suggerire il contrario, non è implicita ai testi alcuna musicalità, semmai solo un’insistente (a volte assordante) dis-armonia prosastica. Sembra qui emergere la possibilità di un limite (soglia) della poesia di “Humus”: fino a che punto lo stile è in-controllato? La sua antimusicalità è un regime o il margine della composizione tendendo ad un allargamento strutturale ( lo si avverte nel passaggio dalla prima raccolta “La culla”, composta di testi brevi, ad “Humus” in cui alcune composizioni hanno il respiro del poemetto) prelude ad una versificazione melodica? Il canto, a mio avviso, è già soave, ma voglio immaginare ulteriori lavorii sull’impalcatura musicale dei testi, perché è di una nuova musica che la nostra poesia ha bisogno e in quella di Tipaldi sono manifeste tutte le possibilità di questa diversa strutturazione sonora: “Tutta la carne è erba/ e se l’erba è carne, è di uomini spolpati/ oltre ai cani, persino i barbieri/ fanno il pelo più bianco” (p. 22). Si noti, in questo estratto, l’incrocio dei suoni, dal chiasmo in inarcamento alla tensione delle bilabiali con l’alternanza tra sorde e sonore a riprodurre il balbettio e lo scoppiettio di una nuova nascita, ribadita dal ribaltamento dei termini in questione e dalle tematiche dell’invecchiamento e del disfacimento. Un infimo inizio germoglia e porta con sé i disastri avvenuti, mette in guardia, sentinella e spia, sulla morale: “I cieli non sono umani./ I cieli non sono umani, non umana la luce/ la luce cancella, dannatamente/ cancella./ Il verso che si leva fa male agli occhi” (p. 54).
In poca poesia recente è dato avvertire una simile tensione escatologica, energia sprigionata dalla volontà di ri-creare un mondo; penso a due libri che potrebbero essere accostati ad “Humus” su questa linea: “Macello” di Ivano Ferrari e “Al Mondo” di Teresa Zuccaro. Per comprendere il comune orizzonte concettuale dei tre libri, dal quale pare emergere il germe (l’infimo inizio) di una vita che si distanzia dalla stasi morale a cui la riflessione sul male avvenuto, filtrata dalla comunicazione odierna, ha condotto le nostre coscienze, riporto due testi dai libri citati:

“Su un oceano colorato malamente/ galleggiava una piccola isola/ le onde spargevano le origini/ i coralli cicalavano al tramonto/ e i pesci si rigeneravano alla fonte./ Era una goccia di sperma/ cadutami nella vasca del sangue/ in una mattina/ di forte macellazione”(Ivano Ferrari, Macello, Einaudi 2004, p. 88).
In “Humus” troviamo: “Eravamo germogli di pane, abbracciati nel fango”. L’unico modo per essere coscienti del male è comprendere la sua esistenza inesprimibile se non attraverso la consapevolezza della sua funzione fertilizzante, nonostante lo scandalo.
“Tu non sei mai esistito, giusto un’ombra/ un fantasma nero/ che guarda da un angolo/ la frutta che va a male,/ la posta accumulata,/ la polvere che cade dappertutto/ da questa clessidra gigantesca/ e rende tutto uguale” (Teresa Zuccaro, “Al Mondo”, Sinopia 2006, p. 68).
“Humus” sembra rispondere: “Non ricordo esattamente quando./ era tutto un pulsare la polpa/ […] Il posto sembrerebbe lo stesso, vi racconteranno/ […] Cosa sarebbe stata la nascita, o neppure?”.
Dal mondo post-umano all’esistenza postuma, la terra vibrando nelle sue oscillazioni si svela finalmente umile e l’uomo abdica alla pretesa di dominio, ripiegandosi in sé accetta il suo stato larvale fino alla prossima metamorfosi (desiderio, religione).
“Humus”, insieme agli altri due libri, si limita a dirci il compito della poesia, perennemente il suo “infimo inizio”.

Gianluca D’Andrea

AL GELO CHE SI SCALDI – Gianluca D’Andrea legge Salvatore Della Capa

internoesterno1AL GELO CHE SI SCALDI: “Interno, Esterno”, di Salvatore Della Capa, L’arcolaio, Forlì 2008

Il mondo spinge, dalla confusione dei valori, giunge al raccoglimento.

Una poesia percettiva dal chiuso di una posizione per certi versi privilegiata, per altri sgretolata – quando il sentimento etico, inventato e creduto dalla persona-poeta come vera prospettiva e unico percorso, si rivela fragilissimo al cospetto della varietà del mondo, allora la stessa poesia rischia l’urlo dispotico o l’autismo più frustrato. Niente di tutto questo in “Interno, Esterno”, semmai il tentativo, la ricerca vera, ma non affannata per necessità, di un appiglio al reale: Della Capa fa oscillare le sue tematiche tra la percezione minima del mondo (a volte provocata da un fastidio a cui il poeta sembra assuefatto, vedi “Udito I”, p. 20), lo sdegno per il male insito nelle fibre stesse dell’esistenza ed una appartenenza, di là da venire, che sarà agnizione, riconoscimento.

Il verso è libero e colloquiale, breve, ed insieme all’impostazione epigrammatica dei componimenti tradisce una volontà di definizione, un tentativo di giustizia essenziale. Siamo lontani da risentimenti moralistici, il percorso pare spingerci verso una sentenziosità compassionevole che apre al religioso (s’intenda una religiosità laica, l’unica possibile leggendo attentamente il libro).

Ancora è presto per approntare conclusioni, meglio lasciare la parola ai testi, al loro monologare in cerca di dialogo:

***

Udito

I

Neanche stanotte dormi.

Ti tiene sveglio

un ronzio un fischio,

non capisci

ti sei alzato

hai controllato ogni cosa.

Poi ti arrendi e a occhi aperti

arriva il tuo sonno

all’affannare dell’orologio

(p. 20).

***

Oggi la madre porta il figlio in un fazzoletto.

Pezzo per pezzo.

Dorme accanto a lui un sonno di sciacallo.

Gli ricuce il volto per provarne pietà

(p. 36).

***

E sia. Sopra le rocce rimangono i nomi sparsi

i pianti mischiati alla pioggia.

Chi vedrà i tanti sensi dell’acqua

le pozze di urina e sangue?

Chi ascolterà la melodia del dolore?

Niente accade negli occhi magri

niente nei latrati dei cani.

Oh i lamenti ci ricordano

piano, ci dicono

«polvere alla polvere»

(p. 38).

Gianluca D’Andrea

Gianluca D’Andrea legge Giovanni Turra Zan

TRA IL SILENZIO E IL RUMORE, UNA VOCE
“Stanze del viaggiatore virale” di Giovanni Turra Zan, L’arcolaio, Forlì 2008

Sono tempi in cui il linguaggio, sotto una rinnovata spinta etica, tende nuovamente al civile, gli autori affidano il tentativo di comunicazione al discorso; non al dialogo ma all’esperienza personale con funzione sociale. In poesia il verso espande le sue dimensioni e le tematiche rimandano al mondo e alle sue devastazioni (nonostante il filone più schiettamente lirico si mantenga in ben più esigue espressioni, ma potentissime). Anche l’ultimo lavoro di Giovanni Turra Zan assume alcune caratteristiche (vedi il verso espanso) della scelta linguistica suddetta. I meriti, se presenti, va detto subito, andranno rintracciati nelle deviazioni stilistiche rispetto alle tendenze (a cui abbiamo accennato nella breve introduzione) dettate dal tentativo di inseguire un aggancio al reale e che hanno portato a produrre una sorta di scuola, o peggio di moda, sociologica.

…………………continua su: http://www.nabanassar.com/dandturrazan.pdf