Nonno Domenico era un uomo alto e dalle spalle larghe, i capelli ondulati e candidi come la neve dei suoi monti. Erano la sua vita quelle montagne aspre e selvagge, un tempo rifugio di briganti e ladroni. Quando parlavi con lui era tutto un gioco di sguardi e silenzi, a volte accennava un sorriso, gli occhi velati di malinconia. Parevano gli occhi di un vecchio, ma non aveva neanche sessant’anni… La sera prima era venuto a trovarci. Mi sembra di vederlo, proprio qui davanti a me, avvolto in quel mantello che non finiva mai: il cappotto a rrota dei pastori calabresi. Il gregge lo aveva venduto. Qualche mese prima i miei mi avevano portato su a vedere la mandria, e lui le sue pecore me le aveva presentate una per una: “Lei è Genoveffa, quella lì è Camilla… quell’altra laggiù è Nicoletta, la più dispettosa…”. Poi affidò il gregge alla guida dei cani, mi prese per mano e ci addentrammo nel bosco. “Che animali ci sono qui dentro?” gli chiesi. “Tanti…” mi rispose. “Anche i lupi?” “Sì… ci sono pure i cinghiali” disse, stringendomi più forte la mano. Io lo guardavo e mi pareva un gigante, ed ero sicuro che mi avrebbe difeso dalle bestie più feroci… Era la vigilia dell’epifania, io ormai lo avevo capito che la befana non esiste, così avevo chiesto ai miei di portarmi con loro a prendere i regali. A quei tempi spopolavano i cartoni giapponesi, soprattutto quelli dei robot mastodontici che difendevano la terra dagli alieni. Potevano arrivare mostri di ogni genere dalla galassia più remota, ma il nostro megarobot li affrontava con le sue armi invincibili e per loro non c’era scampo. Ebbene, avevo chiesto ai miei di comprarmi uno di quei robottini. Il primo tentativo fu in paese. A San Donato, in realtà, un vero e proprio negozio di giocattoli non lo trovavi. Però c’era la putiga di zia Duminica a magliara, un piccolo negozio che si affacciava su uno dei tanti vicoletti dove, in mezzo alle stoffe e alla merceria, potevi trovare pure qualche giocattolo. Mio padre tentò di spiegare a zia Duminica il mio desiderio, uno di quei robot che si vedevano in televisione. Ma cos’erano queste cose moderne! Al massimo c’era il modello di una ruspa o di un trattore. Così dovemmo andare a Cosenza, come accadeva sempre per gli acquisti più “importanti”. Che strano tornarci dopo l’esperienza al nord! Ogni volta che la vedo mi sembra più piccola. E pensare che allora mi pareva una metropoli… A ogni modo, andammo a corso Mazzini, la via dello shopping. Era facile, tra la folla, distinguere i cittadini dai paesani. Non solo per la cadenza inconfondibile del capoluogo: i “cafoni” della provincia li sgamavi per come vestivano e come si muovevano… Entrammo in un negozio che sembrava il paese dei balocchi: trenini, auto da corsa, soldatini, pistole, orsacchiotti e pupazzi vari, i mitici Lego… Poi c’era tutto uno scaffale di robot da combattimento, astronavi, mostri intergalattici… Fra le altre cose notai un carro armato: chiesi a mio padre di comprarmelo insieme al robot.
Quella sera non stavo nella pelle, sapevo che doveva arrivare nonno Domenico, non vedevo l’ora di mostrargli i doni della befana. Quando lo vidi gli saltai addosso, poi corsi a prendere i regali. Non rimase particolarmente colpito dal mostro meccanico. Presi il carro armato, lo misi a terra e lo azionai. A un certo punto raggiunse la sua scarpa, si ribaltò e continuò la marcia dalla parte opposta. Stranamente il suo volto si incupì. L’indomani sentimmo bussare alla porta: vidi mio zio Carlo visibilmente agitato. I miei si precipitarono fuori. Non capii esattamente cosa stesse accadendo, ma pensai a mio nonno. I suoi occhi erano più tristi del solito quella sera. Forse l’innocuo giocattolo gli aveva ricordato gli orrori della guerra, la prigionia… Oppure aveva avuto uno strano presentimento. Avrà pensato a quelle montagne incontaminate, alla pace dei boschi… prima di baciarmi per l’ultima volta.
Pasquale Giannino – gennaio 2009
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