DISEGNO COME ESCREZIONE – Angelo Rendo

In silenzio, gentili e accoglienti gli uni gli altri, i liberi disegnatori della Santa Rosa – la libera scuola di disegno fondata nel 2017 a Firenze da Francesco Lauretta e Luigi Presicce, ieri a Siracusa, domani altrove, quasi sempre a Firenze, e che tanto lustro sta dando al panorama artistico italiano edulcorato e dopato – siedono e disegnano. Non vogliono sentir nulla. Il loro è un ufficio immancabile, ad elevata dipendenza. Si guardano negli occhi, si lanciano sguardi di sottecchi, o furtivi, o aperti. Ognuno col proprio segno. Veloci, nervosi, trattenuti, lievi, sfumati, delicati. Raffigurano a vicenda se stessi, o qualsiasi altra cosa cada sotto i loro occhi, disanimata.
Un miracolo. Ad aleggiare non v’è alcuno spirito, come ci si aspetta che sia scritto, ma la noncuranza della gratuità. L’involucro che ci avvolge si disfa in segno e avanza inesorabilmente verso la sua fine. Il fine del disegno.

Come esempio porto “Angelo che mangia” di Francesco Lauretta. Mangiavo erbe del campo, o fiori, o merda? Il calice dell’eterna alleanza sembrerebbe esser pronto a raccogliere quella spessa e sospesa materia. Tra il sentire e il dire passa l’escrezione, la primaria e più risoluta forma d’arte.

Serenate – Angelo Rendo

Cifra del nazionalpopolare, Cutugno contiene tutte le voglie, abbraccia tutti i facitori di layers – dai più intellettualmente saturi ai più sentimentali, dai più arguti ai più sottili militanti d’apparato – fa cantare polli, fagiani, pavoni e galli.

‘Bella ciao’, invece, non è una serenata per pensionati. Che la si distorca cognitivamente, non fa che abbassare i profili istituzionali. In tal caso, la memoria dell’antifascismo presta il fianco alla propaganda preelettorale. E ci rende capponi tutti. Italiani veri. Brividi.

Max Gazzè non è stato a Priolo Gargallo – Angelo Rendo

Cosa è Priolo Gargallo? Un paese infetto e inerme, che i vicini Climiti proveranno a scacciare come morbo della terra. Afflizione, follia, obesità, malformazioni. E lo spazio riservato ai necrologi grande, molto grande, molti morti senza intervallo. Ex frazione di Siracusa, comune dal 1979, 12.000 abitanti. Un borgo di nemmeno tremila negli anni Quaranta. Il Petrolchimico nel 1954. Priolo è il Petrolchimico. Una delle tante are sacrificali che costella la Regola. Un punto di accesso agli Inferi, i cui miasmi raccontano la fine.

Ieri sera, per la festa dell’Angelo Custode, il patrono, là siamo andati; per Max Gazzè. Nella delibera, consultabile online, si legge che il concerto è costato 65.000 euro esclusi l’Iva al dieci per cento e i diritti SIAE per complessivi euro 75.469,88. Luminarie, botti e fuochi d’artificio inoltre. Facciamo 100.000 euro. 

Per la fine è pronto tutto e per la fine si festeggia. 

Sfilano sul palco, prima dell’inizio, sindaco e assessori, il primo ringrazia e loda l’artista, chiamandolo Max Biaggi, i secondi lo custodiscono.

Quindi l’esuberanza di Gazzè, grande maestria, intensità e grandezza a tratti. Ma è troppo poco. Un grande artista avrebbe l’obbligo di considerare il luogo prima di accettare una proposta. Ridimensionare il cachet o rifiutare. A Priolo non c’è un cinema né un teatro. 

O forse Gazzè non è che uno degli extraterrestri che però cantano la vita com’è!

Su una mostra non vista – Angelo Rendo

​[MILANO, Palazzo della Ragione 

WILLIAM KLEIN
Il mondo a modo suo

dal 17 giugno all’11 settembre 2016]

Mi rammarico di essermi perso questo pezzo ispirato ed esauriente di Silvia Mazzucchelli, apparso su Doppiozero il 19 agosto. Non conoscevo Klein, e, iniziata la lettura, pensavo fosse morto. A guardare un po’, la cifra predominante di questo fotografo pare essere quella dell’estemporaneità. Un uomo che racconta la fine del tempo, scatto dopo scatto, svelandolo, ‘rovinandolo’. E del caso coglie l’accidente, e contro la foto – e la fine che essa contiene – lavora senza freno, preferendo alla posa l’inseguimento. Come se la macchina fosse una pistola, non un oggetto da dotare ancora di senso.

L’imene della dissimulazione – Angelo Rendo

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[Francesco Lauretta, Femminile, 2006]

Ieri Chiara e Gianfranco si sono sposati. Nella Chiesa di Santa Maria di Betlem a Modica. Qui la secentesca ‘Dormitio Mariae’, statua lignea di Bongiovanni Vaccaro – trasposta e dipinta su tela dieci anni fa superbamente da Francesco Lauretta e titolata ‘Femminile’ – ci ha destati dal torpore. A furia di darle l’occhio l’ho spinta più in là, a un passo dal sonno eterno. Ho gioito per un carissimo amico, col quale ho trascorso tanti momenti spensierati dell’adolescenza. Gianfranco è rimasto a quei tempi, come me. Ci si vede poco, ma ogni volta le trame del discorso si riannodano, per via di quell’arguzia dinamitarda e dolce che è del sogno, l’imene della dissimulazione, quel far finta che la Vergine dorma.

Bergamo sonnambulica – Angelo Rendo

Quando usciamo dal Circolino di Città Alta di vicolo Sant’Agata a Bergamo, sono passate otto ore dall’arrivo in Piazza della Cittadella.

Dalle 16:30 alle 20:00 gironzoliamo tra Piazza Vecchia e via Bartolomeo Colleoni con Adriana e John; Veronica prova in teatro, Chiara e Andrea sono a Milano al lavoro e ci raggiungeranno alle 21:00.

Una fugace visita alla Basilica, una passeggiata fino alla Rocca e una sosta al caffè Tasso in Piazza Vecchia per due punch, poi un trancio di pizza in attesa della prima di “Due donne che ballano” al Teatro Sociale alle 21:00. È il 24 novembre.

Bergamo, però, è costruita con luce argentina, lo scuro la fonde. L’ho vissuta in uno stato sonnambulico.

Il teatro di Veronica Cruciani è cocciuto, serrato, spiazzante; per metà accademia per l’altra fine del teatro; il tarlo della commozione giunge quando ha finito di avvitarsi e lo si vede far capolino sulla scena, denutrito e stanco. A quel punto non lo scacci, è monito e vita che si consuma.

Quando usciamo dal Circolino, e ci salutiamo con Veronica e John, iniziata la discesa insieme a Chiara e Andrea, mi pare di non esserci stato a Bergamo. La città fila via veloce sotto le nostre ruote, quel che rimane è un nastro di muro già visto, che non è Lombardia, ma Sicilia.

Fra i Siculi di Licodia Eubea (V Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica, 22-25 ottobre 2015, Ex Chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, Piazza Stefania Noce) – Angelo Rendo

La provinciale 38/II è una trazzera regia, una mulattiera, unisce Licodia Eubea coi comuni del ragusano. Decido di prenderla, nonostante la canonica uscita Vizzini Scalo/Licodia Eubea sulla statale Ragusa-Catania.

Imbocchiamo la 38/II subito dopo Piano dell’Acqua, frazione di Chiaramonte Gulfi, ci vorranno poco più di venti chilometri per giungere a destinazione, un budellino stretto e tortuoso, emorragico; alla nostra sinistra scorre non visto il Dirillo, i vigneti e gli ulivi occupano la vista fino alla diga di contrada Ragoleto, il lago di Licodia (o Dirillo), uno sbarramento improvviso, da lì si continua a salire per una terra di nessuno. Sbuchiamo a sud-ovest di Licodia, sotto il Colle Castello Santapau, a 600 mt. di altitudine, sembra un accesso fantasma, non fosse che, non appena ci si leva di dosso una schiera di case a destra, compare la Licodia fremente sulla valle del Dirillo e un belante gregge di capre.

All’ex Chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, in Piazza Stefania Noce, giungiamo grazie alla gentilezza di due rumeni. La segnaletica è inesistente. Solo cartelli turistici relativi a monumenti del luogo in questa cittadina di tremila abitanti adagiata su un crostone calcareo, su una dorsale che lentamente va franando, lo dicono le strade, lo dice la gravità.

Io Licodia l’avevo sempre vista dormire lontano alla luce del sole, le volte che mi capitava di fare la Ragusana. E non sarei mai andato non si fosse data una occasione quale quella che si è presentata l’altro ieri, l’apertura della “Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica” (22-25 ottobre), già alla quinta edizione, patrocinata dal MiBACT, dalla Regione Siciliana, dall’Università di Macerata e dalla Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto.

Prima di assistere alle proiezioni, però, facciamo una capatina al Museo Civico “Antonino Di Vita” in Corso Umberto I, imbucandoci insieme agli studenti dell’Università di Catania accompagnati dal professore di Archeologia della Magna Grecia. Il Museo si risolve in un’unica sala espositiva tramezzata da cinque vetrine. Si va dalla fase più antica di insediamento all’abitato arcaico, al centro indigeno ellenizzato, per lo più troviamo oggetti in ceramica della cosiddetta “facies di Licodia Eubea”, dalla tarda età del Ferro al V sec. a.C. Si tratta fondamentalmente di un centro indigeno con influssi calcidesi.

Alle 18:00 ha inizio la Rassegna, saluti di rito (Soprintendenza, Università, Direzione Artistica, Archeoclub), proiezione di tre docufilm.

“Un giorno la storia passò dal Parco dell’Etna” di Lorenzo Daniele, fuori concorso e meno male, imbarazzante racconto macchiettistico sul monastero di San Nicolò l’Arena.

(Mi sa che lo storytelling, del quale molto si è cianciato in questa giornata, ha fatto danni; a girarselo speziato in bocca compiaciuti cadono i denti; manca la capacità di neutralizzare i repellenti effluvi della seduzione narrativa. Bisogna popolarizzare l’archeologia, renderla seducente con l’ausilio di computer grafica e digital storytelling, del resto, ha poi affermato il giovane professore di Archeologia, chiamato a relazionare.)

“Pompei. Una storia sepolta” di Maria Chiffi è l’ennesimo docufilm in 3D su Pompei, un cartone animato che toglie fasto all’immaginazione. Il pop deve essere fra noi, è un elemento distintivo, dà lustro all’archeologia e stura all’indiscriminata invasione degli stalentati.

L’ultimo film, “Le misteriose pietre di Hakkari” di Bahriye Kabadayi Dal, regista turca, è, invece, un documentario classico; meraviglia e stupore scaturiscono dalla eccezionalità della scoperta, tredici obelischi risalenti al XV sec. a.C ritrovati in Anatolia; forse vi è una leggera discrasia fra commento e immagine, alla quale, però, sopperisce la tramortente bellezza dei luoghi filmati.

La rassegna è organizzata in modo lineare e sobrio, il pubblico attento. Ieri film su Paestum, i Vimana, Agrigento, sull’ipogeo di Cisternazzi a Ragusa, il fuori concorso di Nello Correale su Rosa Balistreri – essendo il tema di quest’anno “La musica nel mondo antico” – infine l’incontro con Correale. Oggi, sabato, sarà la voltà di documentari sugli Etruschi, sulla via romanica delle Alpi di Lucio Rosa, dell’incontro con la direttrice del Museo di Vetulonia Simona Rafanelli; domani, domenica, verrà proiettato lo spot per il “Paolo Orsi” di Siracusa, un documentario su Palermo, un altro sul meteorite di Saaremaa di Syusy Blady, presente in sala; è la giornata conclusiva, verranno consegnati i premi.

Noi non c’eravamo venerdì, né ci saremo oggi, né domani, mi dispiace. Abbiamo chiuso la serata fra i Siculi di Licodia in un panificio; alla cassa stava una ragazzetta poco più che quindicenne dallo sguardo torvo, la Regan MacNeil di Licodia, l’ingresso al museo è dieci metri più avanti, dentro vi è un sarcofago con un inumato, non sarà Pazuzu, ma il pane che Regan ci mostra, chiamato “rognone”, inquieta. Optiamo per un calzone e una pizzetta, un’altra la portiamo in macchina, non facciamo in tempo a svolgere il fagotto che cade in terra fra i piedi, la mettiamo da parte; stavolta la strada non sarà la trazzera, ma la statale Ragusana. A Vizzini Scalo c’è un maremmano solo e triste in attesa, a lui la pizza.

Angelo Rendo

LE INTERMITTENZE DELL’OCCHIO – Angelo Rendo per Francesco Lauretta

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Le inesistenze di Francesco Lauretta non vanno trattate. Sono intermittenze dell’occhio. Due scalini, poi altri due; quindi si ritorna da dove si è venuti. Così ha fatto il mio occhio, entrando e uscendo più volte, annusando, toccando, svelando e coprendo, come se potesse mai avere avuto arti prensili e sensi; quasi pronto per vedere.

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La sua prima sortita dalla galleria sarà avvenuta intorno alle 18:30 del 28 maggio. L’occhio è rimasto un bel po’ davanti all’ingresso, in via della Vetrina, di fronte al banchetto inaugurale provvisto di vino, focaccia e mortadella; ha vissuto il suo tempo morto e vagheggiato l’interno. D’un tratto, ha benevolmente incrociato un arzillo Achille Bonito Oliva, che, mirando dritto al cibo, ha esclamato fuoriuscendo decreato: “Meglio che niente!”. Aveva compiuto una veloce visita e dell’inesistenza non aveva colto che l’esistenza della mortadella.

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L’azzardo del nascondimento, della dormienza d’oro, il pulsare del rosso sangue al centro, la creazione decreata dall’immagine stanca e pervertita del pixel, la bara che risuona nel campo santo dove non resta che polvere vivono nel percorso di questo pittore indomabile.

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