[In anteprima per Nabanassar un frammento di un libro di un autore francese contemporaneo, Denis Montebello, nella traduzione di Luigi Grazioli. Ringraziamo sia l’uno che l’altro.]

Comincia così. La cartolina che scrive dalla Francia. Non per avere notizie, notizie ëd soa mare, né per darne. Del resto cosa potrebbe raccontarle, e in quale lingua? In italiano? Nell’italiano che non parla più, che non ha mai parlato. Che si parla solo a scuola. O quando si scrive alla madre.
Quando le scrive, le dà del voi. Come tutti i bambini, allora. Come da piccolo lui diceva a quella che se ne andava a travajé. Non vi lascerò sola, le diceva. O non glielo diceva. La seguiva. Andava con lei al lavatoio. Ora le scrive. Con la sua penna migliore. Su questa cartolina che le manda da Épinal l’11 marzo del 1929.
A voi cara madre mio riccordo (sic) accompagnato con mille baci vostro aff.so fi(?)o Giulio
Una sola frase. Senza virgole né punti. Vitman, per parlare come laggiù. Ma lui non parla così. Sul retro della foto.
Perché è lui quello della foto sulla cartolina. Col vestito buono. Un abito scuro che aveva delle righe (a giudicare dall’ingrandimento). Come quelle che si vedono, più nette, più chiare, sui pantaloni. O nere sulla camicia bianca, orizzontali sul collo, e per il resto verticali. Il collo ha dei bottoncini, ma non saprei dire se sono veri o falsi. O una spilla, un fermacravatta.
Il figlio ha messo una cravatta. In tinta unita. Per scrivere a sua madre. Per dirle che è il suo “figlio affettuoso”. E si sente bene che stenta a scriverla, questa parola. Che scriva fijo o fizo, in modo da non riuscire a leggerlo. Una parola che lui non dice più, da quando è in Francia. Che non ha mai detto quando viveva a Ameno. Si è un fieuj, e non si ha bisogno di scriverlo. Né voglia di dirlo. Si rispetta la propria madre, anche quando ci si rifugia tra le sue gonne. La si ama da lontano, anche quando si è molto vicino. E molto piccolo. E’ una distanza che nessuna cartolina, mai, abolirà.
E’ lui, sulla foto. Lui che si è travestito da Monsù per rassicurare sua madre. Per mostrarle quanto è felice in Francia. Come lo rende bello la felicità. Ed è vero che è bello con quei capelli ondulati, con quei baffi sottili. Che la sua cara madre ha di che esser fiera di lui. Come poteva esserlo quando porta a soa mare la sardina che aveva sgraffignato a papà Meuchmeuch. Un mercante ambulante che girava il villaggio con la sua carriola, il suo barile: le sue acciughe sotto sale.
Ma lui non è il Giüli che la accompagnava. Al grande lavatoio del villaggio. Dove lei andava a fare il bucato dei ricchi. Per un po’ di soldi che il marito le avrebbe preso quando tornava. Se tornava. E’ per questo che il bimbo si nascondeva tra le sue gonnelle. Per non sentire la cattiva notizia. La cattiva notizia che lui temeva.
Oggi si è fatto bello. Il Jules. Perché è così che si fa chiamare. Giulio è per sua madre. Come pegno. Per annunciarle un giorno, se ne avrà il coraggio, che si è fatto naturalizzare. Nell’attesa, si è vestito da borghese. Da Charlot, mi vien da dire. Meno la bombetta e il bastone. Non parlo del suo frél, di Giuseppe ora diventato Charles. E che scrive il nostro cognome con un accento acuto. Quello che si atteggia a padrone, e che presto ci inviterà sul suo vagone rottamato e sulla sua barca. Per un picnic in riva allo stagno e per guardarlo pescare. Bisogna vedere come parla francese, quello là. Ascoltarlo. E’ più o meno ciò che ci canta l’altro Charlot, quello grande. In Tempi moderni. La spinash en la boucho. Cigaretto toto bello. Un raquich spagoletto.
Quell’altro, è evidente, non vuole assomigliargli. Né in foto, né quando parla. D’altronde, per evitare questo farfugliamento, lui ha scelto di tacere. Come Charlie Chaplin nel 1929. Come lui, preferisce starsene muto. Non per gusto di pantomima, non ha nulla del clown, ma perché le parole, soprattutto quando vengono da suo fratello, annientano “la grande bellezza del silenzio”.
A quei tempi, tutti gli emigranti assomigliano a Charlot. I Vosgi non sono il Klondike, ma gli italiani vi accorrono a frotte. Si vedono tutti miliardari.
Vogliono che li si veda così. Le loro madri quando scrivono. Vogliono che gli resti in mente solo questo. L’uomo che si fa bello con la camicia a righe. Lo sguardo gentilmente conquistatore. Che non indaghino oltre. Ciò che si nasconde. Colui che si nasconde. Il bambino che fa la posta al babbo e che teme il suo ritorno. Che teme la catastrofe.
Non dico questo perché siamo nel 1929. Siamo nel marzo del 1929, non in ottobre. Gli speculatori non si buttano ancora dalle finestre. Un tizio che cade dal balcone, non fa clamore. Nemmeno cronaca locale. Incidenti, come ne capitano ogni giorno. Si parlerà di caduta idiota, se qualcuno ne parla. Del trovatello. Che non trovava posto nella vita. Di quell’Ambrogio che era suo pare: suo padre. Anche se dimenticava troppo spesso il suo ruolo. Anche se recitava male. E’ lui che si scorge dietro l’attore. Dietro questo figlio. Che replica La corsa all’oro, film che lui non ha mai visto ma che tutti replicano a quell’epoca, tutti gli emigranti. Per rassicurare la madre rimasta al paese. Vedoa. Vedova, e così da tanto. E sempre con la paura, a sua volta, che non capiti nessuna disgrazia a questo fieuj andato a guadagnarsi la vita in Francia. E che questo non lo faccia vnì ancor pì ombros. Ancora più cattivo di suo padre. Che già a l’avìa un brut caràter e a l’era pòch ëd compagnìa. Che già aveva un brutto carattere di suo, e la gente non gli piaceva tanto.
*
[Denis Montebello est né en 1951 à Epinal. Il habite à La Rochelle où il enseigne la littérature.
Auteur de récits et de romans, il procède en archéologue. Il cueille les traces, les fossiles qui s’incrustent dans notre présent. Mais poète, il cherche aussi la preuve par l’étymologie.
Principaux ouvrages publiés:
– Au dernier des Romains, Fayard, 1999.
– Trois ou quatre, Fayard, 2001.
– Archéologue d’autoroute, Fayard, 2002.
– Fouaces et autres viandes célestes, Le Temps qu’il fait, 2004.
– Couteau suisse, Le Temps qu’il fait, 2005.
– Le diable l’assaisonnement, Le Temps qu’il fait, 2007.
–”Mon secret” de Pétrarque, lu par Denis Montebello, Le Cerf, collection L’abeille, janvier 2011.
–Tous les deux comme trois frères, Le Temps qu’il fait, février 2012.
Traductions du latin :
– L’Ascension du mont Ventoux, de Pétrarque, Séquences, 1990.
– Lettre à la postérité, de Pétrarque, Le Temps qu’il fait, 1996.]
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