Marianne Moore, ‘Cosa sono gli anni?’ – trad. Angelo Rendo

Cos’è la nostra innocenza? Cosa
la nostra colpa? Tutti
esposti, nessuno salvo. E da dove
viene il coraggio: la domanda senza risposta,
il dubbio senza dubbio, –
che chiama senza parlare, ascolta senza sentire –
che nella sfortuna, persino nella morte,
incoraggia altri
e nella sua sconfitta muove

l’anima ad esser forte? Vede
profondo ed è contento chi
accede alla mortalità
e nella sua reclusione cresce
sopra se stesso come
il mare in un abisso,
che lotta per essere libero
e non riuscendovi trova
nella sua resa
la sua permanenza.

Così si comporta chi sente
fortemente. Lo stesso uccello,
cresciuto cantando, tempra
la sua forma verso l’alto.
Sebbene sia prigioniero,
il suo potente canto dice:
la soddisfazione è poca cosa,
la gioia cosa pura.
Questa la mortalità,
l’eternità.

WHAT ARE YEARS?

What is our innocence,
what is our guilt? All are
naked, none is safe. And whence
is courage: the unanswered question,
the resolute doubt —
dumbly calling, deafly listening — that
in misfortune, even death,
encourages others
and in its defeat, stirs

the soul to be strong? He
sees deep and is glad, who
accedes to mortality
and in his imprisonment rises
upon himself as
the sea in a chasm, struggling to be
free and unable to be,
in its surrendering
finds its continuing.

So he who strongly feels,
behaves. The very bird,
grown taller as he sings, steels
his form straight up. Though he is captive,
his mighty singing
says, satisfaction is a lowly
thing, how pure a thing is joy.
This is mortality,
this is eternity.

《Sprigionare》 l’osso – Angelo Rendo

Il geretto è lo stinco del bovino, un taglio di carne non particolarmente pregiato, conosciuto nelle regioni meridionali col nome di ‘piscione’ (‘grande pesce’), e assonante con prigione.

Quando un uomo, o un cane, con cura stretto tiene il piscione o altro pezzo di carne con l’osso tra le zampe e il muso, e lo finisce, e lo spolpa, si dice ‘si spisciunau l’uossu’ (variante: ‘sprisciunau’). La carne imprigiona l’osso. E un cane o un uomo liberano dalla forma la verità: l’osso, l’inanimato. La reliquia. Prima che ritorni la menzogna.

Porto Ulisse, o della finitudine

Il mare di Porto Ulisse è effettivamente un mare da naufraghi: dolce, irruento; avvolgente, di razionalità apollinea. Non c’è nessuno – se non pochi cafoni come noi, come tutti noi umani – a bagnarsi, a opporvi resistenza. E quei pochi che affollano quest’ultimo lembo di costa ragusana d’Oriente, nei giorni dell’immediato ferragosto, entrano sicuri, e posteggiano le loro macchine direttamente sulla spiaggia. Ci riconosciamo, e ci scambiamo occhiate, ammollate fra il truce e il beffardo. Fra la spiaggia e il pantano.
I tempi non sono mai andati, tantomeno sono bei. Sono sempre qua. Sono come sono. E il futuro che incombe è un impedimento all’espressione della debolezza umana.

Apoftegma – Angelo Rendo

Ero già sveglio, e pronto ad alzarmi, quando, dalla strada, mi giunse chiaro forte e netto un apoftegma: “Quali eni u pobblema? Tantu tutti ddà ama iri a finiri!” (“Qual è il problema? Tanto tutti là dobbiamo andare a finire!”.)
A pronunciarlo, un filosofo stoico della Spinazza, il quale, con nonchalance, aveva fatto fuori secoli e secoli di specializzazione, ribadendo che non c’è scampo né salute nelle cose umane, meglio lo sprezzo. La gentilezza, te la porti come pietra tombale.