Un padre, che ha perso il figlio poco più che diciottenne in un incidente stradale alla fine del secolo scorso, mi ha fatto mettere a piangere. Un incontro casuale, all’impiedi in un corridoio; chi sono io, chi mio padre, i miei parenti, io invece sono il padre di; traslo la sua faccia in altro corpo, e vedo il figlio cancellato, senza confini; i tratti del volto come linee di costa e selle che conducono al viso di un altro signore, collega del padre.
Pena, vivissima pena, vent’anni e il nero ancora risplende: corpo, abiti, viso e cappello; un vuoto che chiama, desidera affetto, partecipazione a un dolore senza fine.
Te lo dico io chi sono, anche se non mi conosci e siamo dello stesso paese. Io sono il padre di un morto di morte violenta. Ci ha lasciati poveri e pazzi. Aiutami a portare questa croce in questo tratto che ci unisce. Piangi e porta la mia pena.
Cerco di trattenermi, ma non credo possa riuscirci, lui apre il portafogli e mi mostra la foto del figlio, me lo ricordo, lo conoscevo, ci salutavamo, era un ragazzo mite. Distolgo lo sguardo dai suoi occhi, provo a parlare d’altro, il figlio mi guarda, lui mi fissa e io ritorno, soli nel corridoio. Piango, saluto, forte la mano gli stringo. Buone cose, gli dico. E, andandomene, mi accorgo di avere stretta alla mia mano destra la sua.