Non voglio essere qui – Luigi Grazioli

[Il racconto che proponiamo è apparso sul monografico dedicato dalla rivista “Riga” (diretta da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli) ad Antonio Delfini nel 1994, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Palazzi.]

Il becchino se la prende comoda. È un uomo allegro e paradossale che per stupire i visitatori, se sta facendo uno spuntino, non disdegna di catturare qualche insetto di stagione e di alloggiarlo tra la pancetta e il panino, che poi morde e mastica con gusto spropositato, condendo con amenità cloacali l’esibizione, gratuita peraltro. In privato pare che sia peggio: si sforza di fare il buon padre di famiglia. Infatti i suoi figli, per far dimenticare di chi lo sono, sono tutti i primi della classe. Adesso, mentre lavora col suo assistente, un succubo giulivo raccattato dalla pubblica amministrazione nel parentado di qualche consigliere comunale, fatica a reprimere una canzonetta i cui resti affiorano di tanto in tanto alle sue labbra contornate di sudore. Poco discosto l’ufficiale sanitario discute dell’ennesima figuraccia della nazionale di basket col maresciallo dei carabinieri, che continua a togliersi e a rimettersi il cappello sotto il sole, mattutino sì, ma di luglio. Inutile dire che non capiscono un’acca. Per questo, e perché non possono alzare la voce e azzuffarsi, infarciscono le loro scempiaggini di termini tecnici in ragione inversa all’effettiva comprensione: è l’ultima risorsa dei cretini. Di quelli educati, beninteso.
Qua e là i rari visitatori (il solito gruppetto di vedove che, eleganti, splendenti di una seconda, ben più felice giovinezza, si danno appuntamento al cimitero, a due a due o a tre a tre, per poi chiudere la mattinata in qualche bar; un ragazzo che smette di piangere non appena ci vede; due gemelli adulti che stanno portando dei fiori appassiti all’angolo della spazzatura) ci squadrano da lontano, indecisi se far prevalere la curiosità o la discrezione. L’oggetto della curiosità sono io, che vivo in città da più di vent’anni e, pur tornando spesso a casa di mia madre, non mi faccio vedere molto in giro. Forse qualcuno mi riconosce, o deduce chi io sia dalla tomba davanti a cui mi trovo.
Io non voglio essere qui. Mi hanno detto che la mia presenza era necessaria, che almeno un famigliare doveva assistere all’esumazione, e dietro le insistenze adeguatamente spruzzate di lacrime e preghiere di mia madre e mia sorella, che adoro, preferibilmente da lontano, sono venuto io; ma non volevo venire, e adesso che sono qui, ancora non voglio. Mia madre e mia sorella sovrintendono alla tomba chiusa, io all’apertura; loro alla normalità, al rito attossicato dal vizio pressoché quotidiano di mezzo secolo ormai, io all’effrazione. Così è stabilito, e io mi adeguo come meglio posso, costante nell’incostanza, schiacciato dalla leggerezza dell’assenza di vincoli evidenti che ha finito per appesantire anche i miei lineamenti una volta belli e questo corpo, che porto in giro come un pacco postale lasciatomi in deposito da qualcuno che poi non si è fatto più vedere, un povero corpo che non ha mai danzato.
Mentre becchino e aiutante si godono un po’ di fresco nella tomba della mia famiglia prima di estrarre la cassa dal suo alloggiamento e di metterla su due cavalletti previamente calati fino al pavimento, penso alla donna che avrei dovuto incontrare questa sera se non avessi rinviato l’appuntamento, e penso anche che avrei potuto rispettarlo, se avessi voluto, tanto le pratiche non dureranno a lungo; ma adesso non vorrei essere nemmeno con lei. Non voglio essere da nessuna parte. Mi sento, come mi capita spesso, ma con più forza, quasi che tutto (tutto cosa?) si fosse concentrato nelle mie membra aumentandone la densità senza lasciare spazio a pensieri o emozioni, come uno che si muove incessantemente tra nessun posto e nessun altro e non fa assolutamente nulla se non non essere da nessuna parte, o quanto meno volerlo.
Sto in silenzio e guardo il sudore tra i peli che coprono persino le spalle al becchino, che adesso si è tolto la maglietta e sfoggia una canottiera traforata di un bel colore arancione: sta passando due cavi sotto la bara e nelle quattro maniglie laterali e ne getta le cime all’aiutante che è già risalito. Poi con un salto si aggrappa al bordo marmoreo della tomba e risale anche lui tirandosi su a forza di braccia senza usare la scaletta appoggiata alla parete. Qualche vedova e i gemelli hanno fatto alcuni passi nella nostra direzione ma si tengono ancora a prudente distanza. Allungano colli da fenicotteri e ne assumono con disinvoltura le espressioni. Si vede che ci sono portati. Meglio guardare il collo dei due uomini che stanno estraendo la bara con movimenti rallentati e sincronizzati, per non farla cadere e scoperchiare prima del tempo.
Scommetto che al becchino non dispiacerebbe (e forse nemmeno a me), ma la professionalità prima di tutto. Si volge verso di me come a chiedermi di dare una mano nel momento decisivo, quello del passaggio dal vuoto della tomba al cemento antistante, ma io fingo di non accorgermene e sto a guardare come se la cava. Voglio proprio vedere se ti viene ancora da cantarellare, adesso. La bara si piega di lato, ma prima che scivoli giù i due uomini riescono ad afferrare le maniglie alle estremità e la issano con delicatezza, nonostante il peso, fino al carrello che aspetta sul vialetto, evitando la sosta sul cemento. Il becchino mi lancia un’occhiata, ma io mi sono già voltato verso il medico e il maresciallo che hanno da poco deciso di concedere una pausa alle rispettive intelligenze. I curiosi hanno preso coraggio e ora sono a una decina di metri. I loro grugni stanno cercando espressioni più consone alla circostanza. Ci riescono benissimo: ora sono passati alla classe degli scifozoi. Posso vedere i muri del cimitero attraverso di loro, pur ammirandone la forma cardinalizia, decorativa come la danza macabra sul muro d’ingresso. Più si avvicinano allo stato minerale, meno gli uomini sono repellenti.
Seguo la bara fino alla camera mortuaria, dove verranno tolte le viti e il coperchio verrà alzato. Non credo che ci saranno saldature da dissigillare; non ho chiesto, non voglio sapere. Devo riconoscere la salma di mio padre che non ho conosciuto. Io almeno una scusa buona ce l’ho: è morto che ero ancora in fasce. Un sollievo, in fondo; col tornaconto di un periodico rimpianto che mi fa sentire più buono. Lo posso amare da lontano, senza lo scoglio della realtà, anche se a volte ascrivo la mia debolezza al fatto di non aver dovuto lottare con lui. Ma no! Non faccio altro da tutta la vita, come se fosse mia la colpa che lui si è tolto di mezzo prima. Non c’è scampo. Penso ai figli del becchino. Mi rifiuto di pensare a quelli dei due ufficiali.
Di mio padre ho visto solo qualche fotografia, e per lo più di sfuggita, perché le mie due donne, quando le sorprendevo assorte nel loro passatempo preferito, sfogliare l’album di famiglia, si sono sempre affrettate a nasconderlo per evitare i miei sarcasmi, quando non le mie sfuriate. Sono cattivo. Meno di quanto vorrei tuttavia. Adoro la perfidia, ma poiché sono affetto dalla terzana di una coscienza che inclina a imbrattarsi quando meno dovrebbe (press’a poco sempre), ne faccio un uso strettamente privato, riservandola quasi con tenerezza ai miei famigliari, come un privilegio di cui purtroppo di rado si dimostrano all’altezza. A scanso di equivoci, quindi, ho sempre interrotto le loro storie. Non sopporto l’elegia, disprezzo il tormento; e se della sua assenza, di mio padre intendo, mi sono cibato per tutti i miei cinquant’anni, ho almeno la consolazione che è stata totale. E adesso dovrei vedere quel che resta di lui, come una vendetta postuma e l’incarnazione, si fa per dire, dei rimproveri taciuti di mia madre e di quella poverina di mia sorella. Anche per me è venuto il momento di pagare il fio (loro parlano così; non rinunciano al tono, loro; non si sminuiscono come faccio io, che nascondo persino i miei titoli). Dovrei specchiarmi nella sua polvere, raccogliere commosso i brandelli del suo vestito funebre, misurare i frammenti delle sue ossa, al più qualche ciocca di peluria, fibre di cartilagini, centimetri quadri di pelle rinsecchita. Infine di mio padre non avrò conosciuto nemmeno il cadavere che per tutta la vita, secondo le regole, mi avrebbe abitato e eroso. Di questa giornata non potrò ricordare che i volti delle persone che mi accompagnano, i loro gesti, il sudore dei loro crani e le loro parole senza sordina. Ben mi sta.
Si sta bene nella fresca penombra della camera ardente, anche se preferirei che accendessero la luce, perché già che ci sono, quello che c’è da vedere lo voglio vedere chiaro. Senza accorgermi accendo una sigaretta: è un miracolo che abbia resistito tanto. Gli altri, incapaci di imitarmi, mi guardano storto, ma io non la spengo. Essendo la camera spoglia, deposito la cenere nella mia sinistra piegata a coppa, quasi rattrappita, come quelle che popolano, come un marchio troppo evidente, infinite foto di guerra. Giunto al filtro, apro la porta e la getto assieme alla cicca ancora accesa trai sassi. Il capannello dei curiosi mi spia da lontano. Alzo la testa nella loro direzione anch’io, quel tanto che basta per sostenere la loro riprovazione ma non per decifrare eventuali nuove metamorfosi. Non li voglio vedere. Voglio che si sappiano visti mentre mi guarda-no, ma non voglio vederli. Penso alle ascelle delle vedove, alle ascelle senza le vedove, poi all’odore senza le ascelle. E poi ancora all’odore che esalerà dalla bara aperta.
Ma quando rientro il coperchio è già stato tolto e di odore non ce n’è. Non c’è nemmeno profumo, per fortuna. Sento esclamazioni di meraviglia che sfuggono dalle bocche aperte dei tre uomini e dello scimunito (o dell’uomo e dei tre scimuniti; o dei quattro scimuniti e basta). Li vedo agitarsi, e l’aiutante che quasi mi travolge correndo verso la porta. Mi volto e chiudo a chiave.
Quindi mi dirigo alla bara, mentre i tre rimasti, ora in un silenzio assoluto, mi fissano con sguardo sospeso, in attesa delle mie reazioni. Non ne vedranno, non voglio dargli nessuna soddisfazione.
Il cadavere dell’uomo nella bara è intatto. Ha i capelli, i baffi e il pizzetto ben pettinati, i vestiti senza una piega, le scarpe lucide con le punte dei piedi un po’ divaricate. Due anelli gli stringono leggermente gli anulari delle mani intrecciate sul ventre. Solo la pelle ha una sfumatura grigia di troppo, ma forse è colpa della penombra. E un uomo di trent’anni, ma come gli uomini di trent’anni di una volta, che sembravano un po’ più vecchi della loro età. Potrebbe essere mio figlio; ed è come tale che lo guardo. Mio padre è mio figlio, l’ipotetico figlio che non ho voluto, e per questo non mi interessa. Sono meno curioso che se lo avessi trovato sbriciolato. Mi irrita questo suo fare il fenomeno anche da morto, secondo l’esecrabile abitudine dei padri morti giovani. Ma io non voglio irritarmi.
Piego la testa e chiudo gli occhi per respingere l’ira. Gli altri lo interpretano come una richiesta di restare solo e scivolano via ansiosi di non arrivare secondi a divulgare il portento. Hanno per lo meno l’accortezza di accostare la porta. Mi giro e la richiudo a chiave. Il movimento improvviso mi distoglie per un attimo dal controllo dell’ira, che ne approfitta per imboccare qualche scappatoia laterale e farmi perdere le sue tracce. La ritrovo troppo tardi, quando ormai ha potuto defluire in vasi secondari sconosciuti e da lì diffonder-si fino a quelli periferici, nutrendosi per strada con tutto quello che incrociava e trasformandosi in furore. Sento il furore strisciare e corrodermi come una cancrena che mi fa marcire dall’interno; i vestiti si afflosciano su di me impregnati del liquame che mi abbandona, le ossa si sfarinano, i tendini si sfilacciano, i denti cadono e il cervello trova infine la sua esatta dimensione: esattamente niente.
Intanto fuori si devono essere radunati tutti i visitatori del cimitero, forse se ne sono aggiunti altri, senza dubbio avranno già telefonato a mia madre e mia sorella. Li sento vociare, chiamarmi. Qualcuno batte i pugni sulla porta. Scorgo in un angolo un tavolino con tutti i documenti da compilare, senza accendere la lampada individuo lo spazio per le mie firme, cerco una biro nella tasca interna della giacca, ne esce una rossa, va bene lo stesso, firmo diligente-mente tutte le copie. Per me, possono scrivere quel che gli pare. Firmare mi fa bene. Quando ho finito, posso dirigermi verso la porta e andarmene.
La apro con uno scatto secco e senza dire una parola mi fermo davanti alla folla che si accalca fuori. Guardo quelli più vicini, non rispondo a domande né a saluti, aspetto che mi facciano spazio per passare. Le voci si abbassano, ma non cessano; qualcuno comincia a spostarsi, poi altri, finché si apre un varco sufficientemente ampio. Non voglio sfiorare nessuno. Aspetto ancora e infine mi dirigo verso la mia macchina. Non passerò da casa, non aspetterò le mie donne. Ne intravedo da lontano le sagome in fondo al viale d’ingresso, ma il motore ha già preso velocità. Passo loro accanto, le saluto e faccio segno con la mano che telefonerò. Ma non voglio farlo. Telefonerò invece per tentare di ricombinare l’appuntamento. E perché non dovrei riuscirci? Cosa vuoi che abbia da fare quella là? E comunque ho un sacco di cose da fare anch’io.

Tre settimane di poesia nei lit-blog italiani (III)

Wislawa Szymborska (2 Lug 1923 – 1 Feb 2012): Avere in unico volume la produzione completa di Wislawa Szymborska e’ occasione imperdibile per entrare in contatto col quotidiano del fu mondo oltre cortina senza strabismi ideologici o militari. L’aria che si respira, piu’ che letteraria sembra teatrale, come nei dagherrotipi di inizio secolo scorso o nel cinema muto. Se oggi conosciamo molto della Polonia quotidiana della seconda meta’ del XX secolo, lo dobbiamo ai suoi cineasti e alla staordinaria produzione poetica di cui la Szymborska e’ esponente primo. Un paragone sensato con quel che il pubblico italiano conosce del mondo oltre cortina, mi pare la commovente e suo modo naif serie cinematografica dedicata ai “bambini di Golzow” che fu prodotta nella DDR infine collassata e riunificata all’invadenza arrogante del capitalistico Ovest. (20 Nov 2011, recensione su Amazon.it, http://www.amazon.it/scrivere-poesie-1945-2009-polacco-Adelphi/dp/8845924009/ref=cm_cr-mr-title)

Viola Amarelli: sospensioni raffinate in cadenze bellettriste (3 Feb 2012, poetarum silva, http://poetarumsilva.wordpress.com/2012/02/03/viola-2/)

Renata Morresi: medieta’ programmatica come granelli di sabbia nella clessidra (7 Feb 2012, le parole e le cose, http://www.leparoleelecose.it/?p=3286)

Pasquale Vitagliano: l’urgenza della voce, sospesa in un limbo, e’ maggiore della messa in forma (8 Feb 2012, la poesia e lo spirito, http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2012/02/08/pasquale-vitagliano-cibo-senza-nome/)

Stelvio di Spigno: prosa piana sotto forma di poesia, a parte la notevolissima “Gaeta” (13 Feb 2012, Imperfetta Ellisse, http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/579-Stelvio-Di-Spigno-poesie-da-La-nudita.html)

Stefano Guglielmin: testi occidentali del fluire immoto, meditativi, di sapore karmico (15 Feb 2012, il giardino dei poeti, http://giardinodeipoeti.wordpress.com/2012/02/15/stefano-guglielmin/)

Martina Campi: il punto di osservazione e’ esterno ai fatti per manifesta sfiducia nei fatti stessi (16 Feb 2012, farapoesia, http://farapoesia.blogspot.com/2012/02/vincitori-e-selezionati-pubblica-con.html)

Pierluigi Cappello: poesie cristalline dell’attaccamento disperato, esacerbato, alla vita (20 Feb 2012, farapoesia, http://farapoesia.blogspot.com/2012/02/su-mandate-dire-allimperatore-di.html)

Le mostre in Italia sull’Arte Povera e la Transavanguardia – di Federico De Leonardis

[Federico De Leonardis ha inaugurato il 6 febbraio a Milano la prima personale in galleria: “Album (opere dal 1976 al 2012)”, presso lo Studio Maffei, viale Bligny 39.]

Il pezzo che segue è tratto da qui.

***

Vorrei eliminare un equivoco di cui forse la mia irruenza e la mia radicalità sono le principali responsabili. Intendiamoci, non posso e non voglio rinunciare né all’una né all’altra, non tanto perché il loro opposto non si addice al mio carattere, ma perché secondo me ce n’è tanto bisogno. Detto questo però è assolutamente necessario un chiarimento.

L’altro giorno in una galleria il suo direttore mi ha allungato un libretto, il piccolo catalogo di opere di un giovane artista (non nominerò né costui né l’altro: non faccio pubblicità a nessuno, anche se lo meriterebbe: sono talmente ossessionato dalla corruzione che viaggia su questo canale, che preferisco essere ingiusto piuttosto che prestarmi al suo subdolo giochetto). Per dare una descrizione grossolana e approssimativa di ciò che ho visto: una figuratività infantile e molto colorata, nudi e paesaggi. Sono rimasto colpito dalla freschezza delle immagini, vorrei dire di più, dalla sincerità del rapporto che l’artista esprimeva con la propria fiducia nell’immagine. Niente di rivoluzionario, niente di particolarmente nuovo, ma certamente molto vero, nel senso che si vedeva benissimo che chi le aveva prodotte non avrebbe potuto produrre nient’altro e che lo faceva con un’aderenza totale, senza strizzatine d’occhio, intellettualismi, sottintesi: quanto si vedeva era tutto quanto si poteva vedere, niente di più e niente di meno. Un mondo chiuso e immutabile. Mi sono passate rapidamente per la testa le immagini di opere di due artisti non grandi, ma certamente veri, uno antico, Altobello Meloni e uno moderno, Richard Tuttle, e poi le opere di un’alienata mentale di cui non ricordo il nome che avevo visto in una mostra di Wurmkos parecchi anni fa e che dimostravano un senso del colore che non aveva nulla da invidiare a Matisse. Contemporaneamente come dal profondo è emersa una domanda: ma l’arte cosa può dare di più, cosa deve dare di più?

La risposta non è semplice, ma non bisogna cercare scappatoie o scorciatoie perché sia gli artisti nominati che quello che mi rifiuto di nominare sono dei veri artisti e quindi qualcosa di più della sincerità o dell’aderenza al proprio lavoro secondo me lo hanno dato. Rimanderò a dopo dire che cosa. Per ora mi fermo un attimo al significato del termine avanguardia, coniato circa un secolo fa dai futuristi. Il movimento che si fregia o viene insignito dell’onore di questo termine (è lo stesso che si chiami così o col prefisso trans) nasce dall’insofferenza per l’arte. Sic! Più precisamente per gli aspetti dell’arte esistente facilmente fagocitabili e smontabili dai suoi fruitori; diciamo scontati. E’ evidente che di questo passo i movimenti non possono che seppellirsi a catena uno dopo l’altro e magari a un ritmo sempre più frequente, al passo con la velocità dei mezzi di comunicazione. Ma nell’insieme e guardando le cose un poco da lontano, cioè con l’ottica di uno o due secoli successivi, da questo marasma di lotte intestine e spesso crudeli (l’artista dimenticato è frequente tanto quanto quello di successo) qualcosa si salva: l’arte. Un grande russo, letterato però, parlava di continue e vitalissime eresie e soprattutto di un unico edificio che tutti contribuiscono a costruire e (questo lo aggiungo io) che non appartiene a nessuno in particolare (l’ho già citato in questo blog).
Ma che cosa è fagocitabile e cosa è scontato? Prima di tutto ciò che denuncia intellettualismo. E questo perché l’artista tende spesso al narcisismo e quindi nasconde dietro il proprio sentire una necessità egocentrica: ma la necessità in arte non è mai personale, è necessità per gli altri. E poi, precisato che l’intellettualismo può benissimo sposarsi con l’idea preconcetta di artista sporco di colore (Duchamp non sarà stato un artista, ma era una persona intelligente), direi che è chiaramente smontabile e fagocitabile, cioè che facilmente può essere disinnescata la carica rivoluzionaria di un prodotto anche assolutamente nuovo e originale, se esso non ha mistero e quando lo ha, se non sa conservarlo. E il mistero della sua essenza è tale, prima di tutto e non solo cronologicamente, per il suo creatore. Non è misterioso solo il sorriso di Monna Lisa, ma quello di qualsiasi opera d’arte autentica. Tanto per fare un esempio: la pila dei cappotti di Beuys (lui si affretta a depistarci spiegandoci che durante la guerra è stato salvato dal congelamento seguito a un incidente da quelli che gli hanno buttato addosso a mucchi dei mongoli). L’artista in genere tende a star zitto, a far parlare solo l’opera, ma quando usa le parole svia il discorso, va per la tangente, inventa trabocchetti e nascondigli, magari servendosi di titoli fuorvianti, pone diversivi insomma. Queste operazioni di depistaggio, meglio di arretramento dietro l’opera vengono poste in opera prima di tutto nell’opera stessa: sembra quasi che questa debba la parola altamente pregnante e significativa con cui l’ho indicata solo al risultato di un cammino a ritroso fatto allo scopo di proteggere un mistero. E voglio ricordare a questo proposito la grande funzione della memoria collettiva nella questione del contenuto del messaggio (coniugate perciò rapidamente cumulo di coperte e mongolia e sarete un po’ più vicini a quel lavoro del tedesco), perché un mistero è tale soprattutto quando è conficcato nel profondo dell’anima di tutti noi, in quello a cui gli analisti hanno dato il nome di inconscio.
Questo fatto ha due corollari: che l’arte non è traducibile in linguaggio altro, diverso da quello in cui si è espressa e che la critica (anche quella con le migliori intenzioni) corre il rischio fortissimo di diventare la complice di qualsiasi svuotamento: perché tende a intellettualizzare il suo approccio all’opera. Ma non è il momento di occuparsi di queste questioni. Torniamo all’avanguardia, alla sincerità e soprattutto al perché di questo lungo cappello.

Due mostre, anzi due serie di mostre impazzano oggi per l’Italia, quelle dedicate alla Transavanguardia e quelle dedicate all’Arte Povera (Milano, Torino, Roma, Bologna, Modena più una serie di personali in giro per il paese). E’ banale osservare che in epoche di crisi, per proteggere il proprio orticello dagli assalti schizofrenici del mercato si tende a storicizzare prima del tempo. E’ del resto un tentativo di mettere in guardia chi insegue le “novità” e va in brodo di giuggiole dietro le boutades degli ultimi arrivati e dei furbacchioni (Cattelan & C.). Vorrei però dire una parola in difesa dell’odiato movimento pompato dall’abilissima penna di un imbonitore raffinato come Bonito Oliva e nel contempo dare una mano a chiarire come quello portato avanti dal suo antagonista di allora, Germano Celant, non possa esser ridotto a una generica formula di avanguardia divenuta da tempo obsoleta.
Con in testa lo spropositato ma necessario cappello di questo scritto, sarò brevissimo: non un solo artista della truppa guidata (è il caso di usare questo verbo) dal primo (comprendendo anche i minori – tipo il signor Germanà o il signor Salvo – cioè quelli che sono montati sul carro del successo orchestrato da lui) vale la pena di un’occhiata seria. Naturalmente questa è un’opinione personale e potete prenderla come meglio vi piace. Comunque per me, a parte qualche loro prodotto iniziale e giovanile (soprattutto quelli anche dimensionalmente modesti  perché la grandezza spesso si rivela un trabocchetto per l’arte e inganna soprattutto i deboli, gli amanti del successo), qualche lavoro che riusciva ancora ad attingere alla freschezza (penso soprattutto a quel fanciullo che era Paladino ma non a quel goliarda di Clemente), tutti sono finiti nella trappola dell’intellettualismo, anzi del suo esatto rovescio (che è la stessa cosa). La formula era semplice: lasciatevi andare, senza preoccuparvi minimamente di quanto è già stato fatto, la vostra singolarità è garanzia della nostra licenza.
Se non ché non si sfugge al linguaggio, che è tiranno e dimostra senza mezzi termini la propria prepotenza: nel déjà vu migliore. Ma, c’è un ma. La reazione all’intellettualismo dell’epoca immediatamente precedente, il concettualismo alla portata di qualsiasi elucubratore mentale che di linguaggio visivo proprio non ne capiva un accidente, è stata sacrosanta: l’arte aveva bisogno di tornare a studiare con gli strumenti suoi classici: il colore, il disegno, il volume, la composizione. B.O., lo dico obtorto collo, aveva ragione. Peccato solo che abbia scelto male, senza guardare con attenzione: il ritorno a Matisse, ai Fauve, a certo novecentismo non poteva ridursi a una formuletta reattiva. Certo lui aveva bisogno di successo e la presunzione degli uomini a cui aveva messo gli occhi addosso glielo avrebbe garantito, ma questo gli si è ritorto contro. Oggi, dopo aver conosciuto i Musei di tutto il mondo, i quattro o cinque cavalieri dell’Apocalisse non se li fila più nessuno e lo stesso mercato, con la spietatezza tipica dell’investimento finanziario, li sta scaricando. Ci vorrà molto ad arrivare allo zero o giù di lì che meritano, perché la storia dell’arte fa il suo corso lentamente, ma ci si arriverà.
Che ci fossero le premesse al successo orchestrato dal napoletano nello stesso movimento sostenuto da Celant è sotto gli occhi di tutti quelli che visitano oggi le retrospettive sull’Arte Povera. Basta guardare la pletora di animali messi in circolazione da uno come Merz o certi tavolini fatti di stracci di uno come Pistoletto per rendersene conto: hanno spalancato le porte ai ribelli venuti dopo e del resto, si sa, era nei loro studi che quelli avevano fatto la gavetta. Bene, ma senza ripetere quanto ho già detto nei post precedenti, se l’Oltremare o l’insalata di Anselmo, se le riflessioni sull’inappropriabilità dell’immagine, penso a certi specchi di Pistoletto, se l’uso spregiudicato del ghiaccio e del piombo da parte di uno come Calzolari, se la pelle di Penone, fotografata centimetro per centimetro e stesa su una parete ecc possono sembrare a qualcuno ( e non sono) antipatiche boutades, l’Eresia, la ricerca di allargare il vocabolario del linguaggio a qualcosa al di fuori della tavolozza e del cavalletto, sono indubitabili e non hanno ancora fatto il loro tempo: in questo negano la meccanica dell’alternanza e del succedersi frenetico delle mode sul palcoscenico dell’arte. Solo che occorre distinguere, valutare bene: quel lavoro e non l’altro e poi cosa è superato, cosa ancora valido?
Mi rendo conto di lavorare col picozzino, sono cosciente del pericolo di un giudizio di grossolanità e semplicismo che corrono le mie parole, ma lo accetto non solo perché la brevità programmatica dei miei post lo sconta, ma soprattutto, a dispetto del mercato e della pubblicità, per spingere a tornare a una salutare fiducia nei propri occhi, senza intermediari. In fondo trovo che il piacere di guardare un’opera senza sovrastrutture culturali sia sano e comune, e voglio incoraggiare il fruitore più sprovveduto, ma sempre sincero, a farsi una cultura partendo dal proprio. Quando entro in una qualsiasi trattoria del nostro antichissimo paese, in cui è radicata l’abitudine di addobbare con quadri le pareti dei locali (ho riscontrato che la pratica non è molto diffusa altrove e non è un caso), cerco sempre di scoprire qualche anonimo e autentico artista riuscito a scambiare una sua opera con un piatto di minestra (fu così che al ritorno da Pisa dove avevo seppellito mia madre scopersi dei Viani alle pareti di una bettola lungo l’Aurelia).
A conclusione e tornando all’anonimo ( per voi) poeta incontrato nella galleria, voglio dire che dobbiamo tutti rilassarsi al piacere e disporci a porre maggiore attenzione alla specificità del linguaggio, un concetto che tenga conto dei punti fermi indicati da Sklowskj: la cattedrale è fatta di architravi, contrafforti, volte audacissime, ma anche di mattoncini e tutto è essenziale alla sua costruzione.
Che non finisce mai.


Translations – audiolibro di poesia per iPhone/iPod/iPad

Audio libro di poesie: 25 testi da Paul Muldoon, John Koethe, Philip Gross, Gerard Manley Hopkins sono tradotti in italiano da Giuseppe Cornacchia, che inoltre legge le sue stesse versioni. I testi originali in lingua non sono riportati.

http://itunes.apple.com/it/app/translations/id499090484?ls=1&mt=8

Nota a margine: scaduto il biennio di vincolo, ho sciolto il contratto con Lampi di Stampa e ritirato dal mercato il mio “Tutte le Poesie (1994-2004)”, ISBN 9788848810210, recuperando i pieni diritti sul mio materiale. Ho adesso in programma la realizzazione di un volume unico, omnicomprensivo (poesie, racconti, teatro, noterelle saggistiche e critiche), in formato elettronico.

Appunti dal buon senso senza senso (2) – Angelo Rendo

Il rito riga il disco cerebrale, ne nasce un’altra compiuta parte, il concavo-convesso, davvero esistente e solenne. Ogni punta un’orbita cava e la luce fiotta nell’interno, assorbe il motivo e nasconde l’interesse principale, la meta.

“[…] Come [se il libro] si fosse costruito sciaguattando tra il prima e il poi […]”, ho letto su un supplemento letterario diciannove giorni fa. Ma sciaguattare è di una volgarità contagiosa e caciarona, da lavandaia starnazzante. Non centra nulla, tuttalpiù potrebbe sublimare la smemoratezza di qualcuno, a me fa perdere il controllo, strapazzo il giornale e torno dentro.

La settimana successiva in una rubrica letteraria domenicale leggo lo spacchiuso linimenti: delicatezza da bascio e nerboruta, la svettante corsa di “i” fintoraffinate, fintoantiche, fintogalanti.

Goffo anche il moralismo smerigliato: è sempre una meraviglia il purismo, tuttavia sarebbe consigliabile soffiare a Murano, non nella vetreria sotto casa.

Perché i divulgatori non ci piacciono?

E’ questione di pedale, di tono, rappresentano la falsa coscienza della coscienza, al volgo il calice dell’eterna ignoranza, il surfare esibizionistico a loro.

Sono ritornato alla poesia dopo anni, non so quanti, né tanti né pochi, forse tre o sei, dopo Pagliarani, mi pare, ma forse non ricordo bene e non vale verificare, come poi?

Ho scelto Giampiero Neri, l’ho sposato, dopo averlo bevuto tutto d’un fiato. La notte sogni movimentati – ricordo di mattina appena sveglio – ingolfati. Che la poesia dica poco in poco non è vero, quando è troppo è troppo. Nel genere, nell’abuso dello stato in luogo, della prolessi la determinazione che l’accumulo innerva e non spenge. Tre poesie memorabili su duecento pagine, fossero state zero, avrei creduto nella poesia. E’ stato l’altro ieri.

Entri, ti aggiri per dove sai, la durezza del ferro e il fiero scopo sul classico non scapestrato; il contemporaneo lasci a riposare, o di esso acquisti l’opaco che brilla per integrità; dopo, paziente e testa di fuori. L’uno deve annullare l’altro.

[Prima puntata: https://nabanassar.wordpress.com/2011/09/27/appunti-dal-buon-senso-senza-senso-1-angelo-rendo/]