Inno metalinguistico sproiettato
La città “è” la banalizzazione del luogo, lo spazio libero anticoercitivo, senza limiti se non quelli fisici dell’altro oggettuale (palazzi, marciapiedi, pali, piloni, semafori, cani, gatti, uomini ecc.).
Sfiorare i limiti, le soglie corporee – primo grado di un rapporto aleatorio – inizio di una pregnanza avvertita come irriducibilità del mondo, l’ormai classica irreparabilità.
Solo l’essere banale, conscio della propria mancanza di originalità, della propria messa al bando (che si mette al bando), riesce ad intravedere una diversa singolarità comunicativa divenendo il principale nemico dello stato in quanto a-politico abitante, o meglio, commerciante-cliente non cittadino, mercante primitivo del proprio essere disseminato che, essendo consapevole della propria singolarità comune, diviene responsabile della propria assenza di scopo o fine (sé in-finito, in ogni caso continuamente provvisorio, precario). E’ questa – dell’essere singolare comune – l’unica prospettiva plausibilmente slegata da ogni forma di nichilismo, l’ottica nuova che riesce a svincolarsi dal tentativo concettualmente obsoleto di una ricostruzione identitaria, quel punto di vista in-finitamente di-versificato il quale conducendo ad effettiva estraniazione produce il libero movimento dell’essere, la sproiezione nella varietà-verità del mondo.
Proprio perché a-causale (casuale), il singolo comune è inadatto a sciogliere il nodo individuale e in tal modo è sempre pronto ad accogliere e disperdere (da un punto di vista fisico, si pensi ai residui organici e non), ad appena avvertire – sfiorare – l’altrui soglia ovvero il comune esser vago nel vuoto: ogni eventuale legame è disciolto nell’eventuale presenza-assenza. Metaforicamente l’essere singolo comune è campo coltivabile indefinitamente a cui s’intreccia (non si sovrappone) la figura del seminatore razionalmente consapevole dell’impossibilità di auto-inseminazione – in pratica la fertilità di un interscambio attivo, osmotico, d’azione. Paradossalmente questa sproiezione metaforica dell’essere singolo comune tras-pone un principio individuale dell’ordine delle cose, non un ritornare dialettico bensì uno stornare in itinere: nel senso che l’azione sproiettata nell’a-spazialità (precipuità ineffettiva) del continuo movimento spaziale dis-pone alla creazione di un mondo (mistificazione assidua: la nuova tecnica o la nuova arte se si vuole).
La nuova visione che scaturisce da questa trasposizione dispositiva dell’essere si spiega in termini di stupro identitario che il singolo compie nell’approccio, accettazione, connessione all’altro (abolizione definitiva di qualunque concettualizzazione di verginità traslata; piuttosto ritorno all’origine etimologica cioè alla spinta e poi forza, energia, turgore, nutrimento, maturità – lo slancio è l’opposto della stasi, l’intatto l’immacolato è deflorazione). Stupro identitario cioè perdita di una memoria atavica, il vetusto valore della tradizione occidentalidentitaria: la dissoluzione della trita memoria è pratica, ginnastica di continua sostituzione, etica nuova nuovo costume, nuova prospettiva, frustrazione del fine – la verità – nessun centro, nessun bersaglio, l’unica attenzione possibile è dis-tratta e quindi attratta su ciò che potrebbe sfuggire.
Solo un’attenzione disattenta all’evidenza del momento è accadimento del reale, desiderio d’esterno, dispiegamento di mondi intreccio momentaneo e dissoluzione di trame, sboccio, aria, amore. Scaturigine spontanea di una partecipazione ineluttabile proprio perché involontaria, la vita è dovere esorcizzare la morte come concetto a-priori, blocco dovuto a un preconcetto identitario e umanista, nonché, in quanto esperienza decentralizzata, apertura al possibile.
Gianluca D’Andrea (23/05/2003)
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