Quanto pretende questo libro? E chi vuole compiacere? La teoria si autofagocita per sovradeterminazione. E il libro appare inopportuno, senza via di fuga. Sommerso dal contemporaneo – e nell’orizzonte di attesa che esso dispone alla vista – versa in condizione di resto, minutaglia. Facile e comodo per prefiche e lamentatori. Commemorativo: un epicedio prima del seppellimento.
Un libro di testimonianza, troppo concentrato su se stesso. Quando l’autore, verso la fine, riprende Scheler, il quale scrive “il caso estremo è quello di un individuo o di un gruppo che considera la propria stessa esistenza e il proprio stato come motivo di vendetta”, e a seguire chiosa: “[…] non è questa appunto la condizione della classe disagiata?”, a me pare che un atteggiamento discriminatorio, classista, di palpabile posizionamento in seno alla società, infantile, innervi la “Teoria” e la pianti al suolo. La voce che ristagna al fondo è pretesca e subisce il richiamo delle storture psicanalitiche. Così le “finestre” – che più volte nel testo si aprono sul campo letterario – finiscono per edulcorare la teoresi. E infiammare le code mozze dell’evoluzione. Kafka viene pestato.
Scrittura da fortino. Che non osa nulla. Cucitissima. Che non rischia note in calce né bibliografia. Una massa che non permette distinzioni di sorta fra chi scrive e chi è ripreso. Un libro da capolinea, carico di troppe fermate, e in posa.
Il riconoscimento reclamato non è che un freno, la forza latente dell’ironia rincula. Ma soprattutto è difficile comprendere come l’istinto classificatorio non abbia ancora finito di tenere in ostaggio l’umanità.