DISEGNO COME ESCREZIONE – Angelo Rendo

In silenzio, gentili e accoglienti gli uni gli altri, i liberi disegnatori della Santa Rosa – la libera scuola di disegno fondata nel 2017 a Firenze da Francesco Lauretta e Luigi Presicce, ieri a Siracusa, domani altrove, quasi sempre a Firenze, e che tanto lustro sta dando al panorama artistico italiano edulcorato e dopato – siedono e disegnano. Non vogliono sentir nulla. Il loro è un ufficio immancabile, ad elevata dipendenza. Si guardano negli occhi, si lanciano sguardi di sottecchi, o furtivi, o aperti. Ognuno col proprio segno. Veloci, nervosi, trattenuti, lievi, sfumati, delicati. Raffigurano a vicenda se stessi, o qualsiasi altra cosa cada sotto i loro occhi, disanimata.
Un miracolo. Ad aleggiare non v’è alcuno spirito, come ci si aspetta che sia scritto, ma la noncuranza della gratuità. L’involucro che ci avvolge si disfa in segno e avanza inesorabilmente verso la sua fine. Il fine del disegno.

Come esempio porto “Angelo che mangia” di Francesco Lauretta. Mangiavo erbe del campo, o fiori, o merda? Il calice dell’eterna alleanza sembrerebbe esser pronto a raccogliere quella spessa e sospesa materia. Tra il sentire e il dire passa l’escrezione, la primaria e più risoluta forma d’arte.

L’imene della dissimulazione – Angelo Rendo

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[Francesco Lauretta, Femminile, 2006]

Ieri Chiara e Gianfranco si sono sposati. Nella Chiesa di Santa Maria di Betlem a Modica. Qui la secentesca ‘Dormitio Mariae’, statua lignea di Bongiovanni Vaccaro – trasposta e dipinta su tela dieci anni fa superbamente da Francesco Lauretta e titolata ‘Femminile’ – ci ha destati dal torpore. A furia di darle l’occhio l’ho spinta più in là, a un passo dal sonno eterno. Ho gioito per un carissimo amico, col quale ho trascorso tanti momenti spensierati dell’adolescenza. Gianfranco è rimasto a quei tempi, come me. Ci si vede poco, ma ogni volta le trame del discorso si riannodano, per via di quell’arguzia dinamitarda e dolce che è del sogno, l’imene della dissimulazione, quel far finta che la Vergine dorma.

LE INTERMITTENZE DELL’OCCHIO – Angelo Rendo per Francesco Lauretta

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Le inesistenze di Francesco Lauretta non vanno trattate. Sono intermittenze dell’occhio. Due scalini, poi altri due; quindi si ritorna da dove si è venuti. Così ha fatto il mio occhio, entrando e uscendo più volte, annusando, toccando, svelando e coprendo, come se potesse mai avere avuto arti prensili e sensi; quasi pronto per vedere.

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La sua prima sortita dalla galleria sarà avvenuta intorno alle 18:30 del 28 maggio. L’occhio è rimasto un bel po’ davanti all’ingresso, in via della Vetrina, di fronte al banchetto inaugurale provvisto di vino, focaccia e mortadella; ha vissuto il suo tempo morto e vagheggiato l’interno. D’un tratto, ha benevolmente incrociato un arzillo Achille Bonito Oliva, che, mirando dritto al cibo, ha esclamato fuoriuscendo decreato: “Meglio che niente!”. Aveva compiuto una veloce visita e dell’inesistenza non aveva colto che l’esistenza della mortadella.

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L’azzardo del nascondimento, della dormienza d’oro, il pulsare del rosso sangue al centro, la creazione decreata dall’immagine stanca e pervertita del pixel, la bara che risuona nel campo santo dove non resta che polvere vivono nel percorso di questo pittore indomabile.

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Nunciante – Francesco Lauretta per Andrea Di Marco

ANDREA DI MARCO. Endemico

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[Ad Agrigento, presso FAM Fabbriche Chiaramontane, si celebra a partire da Sabato 28 Marzo 2015 fino a Domenica 14 Giugno, a due anni dalla prematura scomparsa, Andrea Di Marco. In mostra trenta opere di uno tra i protagonisti della Scuola di Palermo.

Di seguito il testo in catalogo di Francesco Lauretta.]

Nell’assenza, si nota meglio il corpo. L’ora è misteriosa, quella con sole e notte, ma d’una notte che ricorda quanto un catafalco mostra, adornato come in festa, l’omaggio a quanta vita è trascorsa e a quanta morte, invece,  s’ingrassa. C’è l’ultimo in quel quadro. C’è del sacro anche, incenso quasi, evaporate  vite. Ho sentito questo attrito invisibile in visibilio davanti ai misteri, perché i misteri zampillano in esso:  se si osserva solo dentro il perimetro blu. Cosa rimarrà di noi? Cosa ci oltrepassa? E, davanti a quell’assorbente blu, a noi è lasciata la possibilità  di intonare un cantabile requiem. Lui, come un nunciante che se ne va: quel quadro che ci vede ci dice che noi, noi non possiamo sopravviverci.

Qui siamo intorno al blu.

Eppure c’è quanto basta. C’è luce. C’è infine l’abisso sulla luce. E’ finito e non, quest’opera. Non è firmata, non ancora. Quel non ancora è la nostra possibilità d’accesso. Quella luce, così nostra e differente, così differente dall’essere epigoni, lontana dai cavilli modaioli, è unica: di sola luce è pittura, qui.  E questa luce dice della resistenza, o r esistenza, o re esistenza. E con questa luce i corpi saranno di marzapane, dolci, evanescenti, inesistenti e cioè possibili nell’attrito dello stare ‘tra’:  vita (tra) morte.

Andrea sapeva, me lo aveva accennato, di questa follia dell’esistente. E la pittura è varco denso verso questo stare, è monumento che avvista il Tempo, sopratutti e sopra tutto. E’ stato un sollievo, per me, avere scoperto questo Blu. Non ancora, la sua firma come corpo mancante rende quest’opera inquieta; come il Cacciatore Gracco è unica e vagante sempre per noi, coristi di requiem.

Mucchietti di terra – Francesco Lauretta

24 dicembre 2014 Ispica ore 21:30

Sono stato al cimitero oggi. Ho fatto alcune foto. Ho riconosciuto alcuni fantasmi. Mi domandavo come sarò sepolto io, e dove, seppur vorrei farmi cremare – si dice, e si desidera, così?-. Ne ho riconosciuto alcuni volti, volti visti una sola volta in vita mia, poi sepolti. Ho fatto alcune foto. Entrando al cimitero ho visto alcuni gatti, erano a proprio agio lì dentro. Mentre cominciavo ad orientarmi sentivo alcuni rumori, voci, sussurri e preghiere. Credo sia vietato fotografare in questi luoghi. Ero andato prima che calassero le tenebre e il sole, generoso, lanciava lame di luce sui mucchietti di terra. Andavo al cimitero dopo aver letto tre capitoli de “Il radicante” di Nicolas Bourriaud. E mentre andavo verso il cimitero scivolando la collina con la mia Multipla blu, satanassa, pensavo e mi domandavo se io fossi afflitto da una specie di ‘esotismo’, o se potessi definirmi esotista, o esoto. Ho freddo. Sono avvolto dalla coperta arancione e steso sul divano della mia tana frigo d’estate, e d’inverno nel mio girarrosto, ospite. Ma ho freddo e un mal di testa feroce coi 28 gradi centigradi accuratamente selezionati in camera per avvolgermi poi come un bozzolo arancione. Ho fatto molte foto al cimitero in tre aree simili e diverse allo stesso tempo. Mucchietti di terra coprono corpi dentro bare, alcuni sembrano di cenere, altre sembrava –la terra- bagnata e di un colore solido, un bruno straordinario e compatto così come i verdi, magnifici e vari, del muschio e le erbacce –alcune erbe dolci- bellissimo a vedersi e pensavo alla Puglia, al 28 gennaio pensavo mentre ascoltavo “For Stephen Wolpe” di Morton Feldman.

Mucchietti di terra su terra come non se ne vedevano da cent’anni o da cinquant’anni, un secolo o mezzo quasi e che formano un principio, nuovo, di cimitero –potrei dire- diverso da quello di fine anni 70 e 80 dove le tombe furono oggetto di un’agguerrita speculazione edilizia, pareva ci fosse l’urgenza di avere un alloggio o condominio per l’eternità, selvaggi erano i vivi e i morti, i vivi perché già impegnavano i geometri novelli a stabilire una corsa vanitosa, anche per i morti poi, e questo aveva in qualche modo dato pane ai muratori, ai giovani studenti che in estate soprattutto andavano a lavorare come manovali per potersi, poi, pagare qualcosa, gli studi, o la fine.

Salvo Monica, Maria va a trovare Elisabetta, inchiostro acquarellato su cartoncino, 1994

25 dicembre

[…] che in fondo questo esempio totale di disegno senza arte né parte, in questo tempo dove si privilegia l’esodo come scampo, dovrei dire come ulteriore chance nell’invenzione di un modo comune, ha qualcosa di unico. Quel sinistro niente, affissato male al muro, che per vederlo bene bisogna stare in punta di piedi, ha qualcosa che in niente assomiglia all’arte se non alla sua fede, fedele alla sua risorsa sorprendentemente fuori da ogni tempo.

Angelo Rendo per Francesco Lauretta

[Dal 6 dicembre al 14 febbraio 2014 Francesco Lauretta è alla GAM di Palermo con la personale dal titolo “Esercizi di equilibrio”. Per l’occasione pubblico in tre puntate i testi in catalogo di Claudio Cinti, Luigi Grazioli e Angelo Rendo. A. R. ]

Fuochi, video muto
Fuochi, video muto

Passo lungo

Io qui mi fermo, in questa stanza, qui la vita, il dovere. Non sono ancora entrato che un chierico mi avanza un paramento viola; lo restituisco. Sarei quasi tentato di non parlare con nessuno, e nulla scrivere, quel che è avanzato ritornerebbe a fare il suo dovere.
Faccia e spalle occhiute non possono mirare se non il cuore muto della fine che ogni inizio si porta chiuso nella teca: la reliquia esplosa come un rosario di miccette.

Allora, più sputi di seme e lame di madre dolorosa e gialla arsura, maestro, vossignoria! E luce rossa carica o filamentosa al punto da scordarsi, e scordarsi del luogo nel quale si procede, del motivo della venuta, della ricerca di sostanza.

La testa gira più per le mute esplosioni, le nebbie che per la pittura. La pittura sta sparendo, è simile a un pannuzzo graveolente marrò con chiazze minime di luce bianca lì per destino d’evoluzione. Oppure è lì lì per essere risucchiata dallo scarico celeste. Naturalmente il Paradiso c’è. Chiamiamolo giungla.

 

Luigi Grazioli per Francesco Lauretta

[Dal 6 dicembre al 14 febbraio 2014 Francesco Lauretta è alla GAM di Palermo con la personale dal titolo “Esercizi di equilibrio”. Per l’occasione pubblico in tre puntate i testi in catalogo di Claudio Cinti, Luigi Grazioli e Angelo Rendo. A. R. ]

Disegno del mattino
Disegno del mattino

Sarai

È come se tutti gli strati di colore che Frenhofer aveva sovrapposto sulla tela lasciando affiorare in un angolo solo un unico piede, sia pure di bellezza folgorante, stessero pian piano evaporando lasciando serie successive di stesure monocrome, rosse e azzurre soprattutto, all’interno delle quali, a seconda delle angolazioni e delle distanze, emergono forme, figure, abbozzi, tracce di altre tracce cancellate e rinascenti, memorie, progetti, scarti, tutti assieme, o come in un brodo primordiale delle figurazioni, o della percezione, o di emozioni ignote e potenti che cominciano a fissare questo o quel segmento, o volume, o sfumatura o linea o segno, a provare a dare un nome, ancora prima che a eventuali cose da esse sorte, alle intensità da essi suscitate, al disagio, e all’euforia, della loro confusione, a questo continuare a essere con, e a essere ancora e sempre, insieme, questo e quello, e poi di vedere un questo e un quello che cominciano a fare segno, a dirsi e mostrarsi, pronti sempre a ritrarsi ma già, almeno nei sensi, vivi, riconosciuti, tanto che poi anche perderli è bello, e non importa.

(o come nel magma lavico di un vulcano, dentro, prima ancora di uscire, o Sotto il vulcano, come nella serie di Pierre Alechinski, come nel libro di Malcom Lowry che l’ha ispirata, o nel Vulcano di Antonio Moresco, o nei suoi Canti del caos)

Claudio Cinti per Francesco Lauretta

[Dal 6 dicembre al 14 febbraio 2014 Francesco Lauretta è alla GAM di Palermo con la personale dal titolo “Esercizi di equilibrio”. Per l’occasione pubblico in tre puntate i testi in catalogo di Claudio Cinti, Luigi Grazioli e Angelo Rendo. A. R. ]

Madreperla
Madreperla

Il mondo potrebbe ben accontentarsi di essere in bianco e nero

Il mondo potrebbe ben accontentarsi di essere in bianco e nero. Come nelle pellicole del Neorealismo italiano. Come nei sogni di ciascuno di noi. E detto fra noi che osserviamo le opere di Francesco Lauretta, io penso che non vi sia nozione più equivoca, in arte, del cosiddetto “realismo”, con o senza suffissi (neo-, sur-, iper-, e chi più ne ha più né metta, anzi, ne tolga), con o senza aggettivazioni. Io penso che tra sfera del mondo e sfera dell’arte, come tra quest’ultima e dimensione del sogno, non vi siano rapporti così sostanziali da giustificare sbandamenti dimensionali o interferenze reciproche tra le sfere. Di più: penso che se sbandamenti e interferenze si verificano, non siamo già più nella sfera dell’arte, ma in quella del mondo, la cui realtà è tanto vasta da comprendere anche il sogno. E dirò anche (visto che siamo tra noi, a osservare l’arte di Lauretta), che mai il poeta forse più grande di tutti mentì tanto spudoratamente quando affermò (fece affermare a un suo personaggio) che “vi sono in cielo e in terra più cose…”. Più cose di quante ne possa sognare “la filosofia”, forse. Ma Shakespeare intendeva dire “l’arte”. Il poeta, l’artista, fingono sempre. Fingono persino contro se stessi. L’artista, il poeta, possono essere brutti, sporchi, cattivi e perfino bugiardi nella sfera comune a noi tutti (che osserviamo le opere di Lauretta), ovvero la dimensione del mondo, quella che comprende realtà e sogno, ma non lo saranno mai entro la sfera che è loro propria, che appartiene soltanto a loro e che noi dobbiamo accontentarci di sognare, o di denominare attraverso equivoche nozioni di scuola. Il mondo è brutto, sporco, cattivo. Le sue bugie possono ben accontentarsi di essere tradotte in un realistico bianco e nero. L’arte è l’unica finzione di purezza che ci consente di giudicarlo senza esserne sporcati. L’arte (anche quella in bianco e nero) è quella sfera di colore entro cui il mondo riesce a dissolversi.

Transiti – Francesco Lauretta

Transito I

Ho visto passare dalla porta che s’apre in cucina verso la tana, il cesso e le stanze da letto, mio padre. Era di corsa col suo bastone, la tuta Adidas.  Fino a ieri e per tre anni è rimasto immobile nella sua tana. Mentre correva in quello breve spazio batteva il bastone per terra e ansimava, Ahi, ahia, ahi! Una scheggia è stato, un lampo che sono riuscito a vedere in un rallenty che mi ha commosso.

Transito II

Una scheggia. Mentre sorseggiavo un sorbetto spagnolo acquistato da Pitima dopo mare, in costume da bagno e bruciato, infarinato di sale e rena abbrustolita, in cucina, ho visto, superati i tre gradini che partono al corridoio che sboccia nella tana a sinistra e nel cesso e le altre stanze della casa a destra, un lampo, annunciato dalla zoppia percussiva ora forte ora spazzolata, la corsa. Di corsa ho visto passare mio padre, in novanta centimetri d’area, una corsa folle di lui in tuta da ginnastica e il suo bastone. Un lampo di stupore che mi ha commosso: erano tre anni che non riusciva a smuoversi dalla sua tana che già una bara, pareva. Un trasloco, urlava lui, Ahi, ahia, ahi, e il bastone, appresso, l’accompagnava.

Lettura dell’ultimo doppio numero di “Nuova Prosa” (60/61) – Angelo Rendo

Nuova Prosa 60/61

Dell’ultimo numero di “Nuova Prosa” (60/61) – clicca qui per acquistarla – la rivista diretta da Luigi Grazioli, ho consumato centonovantaquattro di trecentocinquantacinque pagine. Da Marco Codebò – un saggio su “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo, diciassettesimo intervento secondo l’ordine alfabetico in copertina e all’interno – a Claudia Zunino, ventiseiesimo e ultimo scritto, il non ancora letto e il già letto altrove.

Esclusi Codebò, Facoetti (“Dialoghi con Leucò”: Cesare Pavese e il progetto della virilità) e Saletta (Il “corpo a corpo” con la parola di Pier Paolo Pasolini ed Elfriede Jelinek), tre saggi, il resto è rappresentato da recensioni per lo più dicevo già apparse su ‘doppiozero’, eccetto alcune di Giacomo Giossi e Isabella Mattazzi presentate rispettivamente su “Blow Up” e su “L’Indice”, e su “Il manifesto”, prima ancora che su ‘doppiozero’.

La rivista a garanzia delle patrie lettere – mai ci si stanchi di dirlo – ha stavolta provocato in me un attacco di pirotecnia aggettivale. Spesso condannato, l’aggettivo mi si è messo davanti timoroso e con le guance rosse, sono stato a sentirlo. Per ogni autore un botto unico.

Narrazioni

Camillo Acquilino, Baxeicò: tecnica

Gianni Agostinelli, Santo Spadoni beve succo di frutta corretto: esilarante

Giovanni De Feo, La testa sull’armadio: suggestiva

Vincenzo Estremo, La lezione prospettica della crocifissione di Masaccio: fuorifuoco

Luigi Grazioli, Luoghi chiusi: fetale

Danilo Laccetti, In lode di un colore. Piccolo omaggio flaianesco. Con ricordo altrui: estenuata

Francesco Lauretta, La vita raggiante: arraggiata

Giovanni Marchese, Fratelli per  la pelle: pretenziosa

Francesca Matteoni, L’unico momento in cui eravamo soli: sfarfallante

Eliana Petrizzi, Due di quattro: sensualerotica

Piero Pieri, Nascita di un serial killer: amareggiata

Filippo Roncaccia, Un’altra meditazione: passatista

Giacomo Verri, Le tette di Claudia Schiffer: fuoritono

La Traduzione

Julien Green, Leviatano: centrale

Massimo Manghi, Una misteriosa traversata. In margine a Léviathan di Julien Green: puntuale

Saggi e recensioni

Marco Candida, Imperial Ellis (L’antisessualità): infantile (letto perché mi è parso più vicino alle Narrazioni che ai Saggi)

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Se dovessi, in conclusione, esprimere una mia preferenza, direi Gianni AgostinelliSanto Spadoni beve succo di frutta corretto. Mi ha fatto ridere, e non di lieve sbocco o scoppio, ma legato all’inciampo, al gesto goffo dei protagonisti a cui la prosa non presta il braccio, li fa rotolare anzichenò. Mi piacerebbe proporlo ai lettori di Nabanassar come anteprima del numero nuovo, chiederò ad autore e direttore.