[Rimesso in piedi un vecchio intervento parlato del 2003, a uso del tipo umano carnascialesco.]
Angelo Rendo
L’intrattenimento e l’incondizionato
Da una parte le gare, i campionati, i maestri di cerimonia. Le arie, le aure dei presenti, degli assenti, degli assistenti, del novellame, del mucco. Dall’altra parte ciò che esorbita, si impone, nudifica, nidifica: la nudità del corpo testuale. Ciò che si ha da guardare prima, mentre, dopo, oltre la previa autorizzazione castale.
Tenere le scarpe per terra
“Metà dentro/metà fuori”, beatamente i moralisti dell’integrazione. Coi loro romanzi frutto di committenza, marchette fra le tante, scaturiti dal fascino per l’imbecillità, le miserie, la pochezza umana, il modo meschino di ragionare. La poesia, invece, mirerebbe all’intelligenza, alla nobiltà, alla grandezza, all’intelletto. Secondo lo Scarpa dell’ottobre 2003, il quale scambia vendibilità di talento con spocchia d’invenduto.
Intanto Antonio Moresco. Moresco messo davanti, in avanscoperta, Nike di Samotracia, polena che fende flutti e venti. Onore a Moresco.
Moresco ha ucciso letteratura e scrittura, aprendo il punto, eliminando gli stanchi continuatori suoi coetanei, tutto quel segmento di nostra paternità biologica; è ritornato nonno.
Non c’è relazione in Moresco, tutto passa per le sue fauci, ingoia tutto, assorbe, vampirizza, infine vomita. Automortificazione sistematica, masochismo, quindi, visione.
Una scrittura patologica, via via sistematasi in opera. La concessione reazionaria, il passo falso tramite cui l’autore si innalza per la scala e, infiltrato, inizia a spingere sotto gli spaventapasseri traffichini.
Una poesia lirica sulla merda che rima con sentimentalismo; cosa altro è la esibita pornografia, se portata al punto di fusione, e di bianco massimo? Grazia o sentimentalismo? Arrivato tardi, Moresco, senso di colpa inconscio della postmodernità, compartecipa all’opera di vendita del pianeta.
Le forze demoniache si debbono risolvere, incanalare, dialettizzare?
Zavattini e l’illusione
Sei anni fa circa, 2003, mi capitò di leggere un invito di Zavattini agli scrittori italiani, riportato su “Il Rinnovamento d’Italia” del 4 agosto 1952. Vi era scritto:
“Nella mia ignoranza è apparsa spesso l’idea che saremo migliori solo quando non avremo più bisogno di scrivere, ma la nostra partecipazione alla vita sarà così aperta – ad angolo piatto- che l’essere e il raccontare si susseguiranno come il baleno al tuono, anzi si identificheranno.[…]
Parliamoci francamente, noi scrittori teniamo il piede in due scarpe. Abbiamo tutti i difetti dei borghesi, la vanità, l’orgoglio, la superbia, la difesa di noi stessi fino alla spasimo, soprattutto il facile oblio delle numerose ingiustizie che vediamo e di cui ci ricordiamo solo nell’attimo cosiddetto creativo.[…]
Ci spogliamo sulla pagina, e così la nostra coscienza si placa. Noi sappiamo che proprio lentamente quei nostri avvertimenti entreranno nel patrimonio del tempo, tuttavia ce ne accontentiamo sfuggendo quell’altra battaglia.[…]
Io credevo che la novità spirituale degli italiani potesse consistere in questo dopoguerra nel considerare ad ogni costo il problema dei poveri, degli infelici. Ma noi abbiamo una troppo soave pietà di noi stessi come se ci guardassimo essendo ancora bambini.”
Fin qui Zavattini.
In questo meccano, sporgo oltre la mia bocca, nella mortificazione dell’altrui propensione, la qual proietta su forme innate clamori d’oltremondo e gloria, o risibile gomorra: i migliori, i maestri, i saputi, i risolutori, le schiere di sordi affamate di sangue.
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