IL COZZO – Angelo Rendo

Nun ti fari battiri u cuozzu. U pani nun m’u manciu rô cuozzu.

Queste due belle espressioni del siciliano – al quale mi appello nei ritagli di tempo, dato che ogni tempo è un ritaglio, e di ritaglio in ritaglio si fa una vita – onorano il cozzo.

A Scicli, e altrove, fra l’altro, Cozzo è un toponimo – teniamo ad esempio a un Cozzo Pilato, il cui significato balla, come una scorciatadicollo, fra collo e occipizio – e si mostra sempre pelato, brullo, calvo: da qualsiasi parte lo si guardi non ha una faccia, questa collinetta, e il resto del suo corpo è sprofondato nell’argilla.

È una parte delicata ed esposta, inviolabile, il cozzo. Sede di virtù avite, è un’altra faccia, ombrosa, imperscrutabile, intima e, al tempo stesso, senza occhi, nuda.

Dal cozzo non si mangia, e credere di poterla dare a bere alle spalle è un difetto: una turpe feritoia dell’anima che, celebrandosi, s’annienta.

Parlo in dialetto – Angelo Rendo

Non mi sono mai concesso di parlare l’italiano, nel mio paese, Scicli, o nei centri vicini, o nella mia isola. Mio, mia, miei per modo dire, ché più avanzi meno possiedi.

Quasi sempre sono qui. E quasi sempre parlo in dialetto, mentre punteggio in una lingua senza nomi, senza inflessioni, una lingua assente, che non ricordo di aver mai conosciuto prima del suo affioramento ma che, in tutta evidenza, invece, è pronta all’uso, una volta abbandonato il consorzio umano.

È il motivo per cui mi sento estraneo alle lingue d’occorrenza e consortili, appunto. Di esse beneficiano professionisti, alti e borghesi od estimatori degli uni e degli altri. Che nell’ordine mimetico sguazzano, per non cadere preda.

IO E IL CINEMA – Angelo Rendo

Rarissimo io vada al cinema, poiché soffro di acuti sonni cimiteriali, in quel luogo.

È il buio, che acceca, diranno i più; un minor numero sosterrà è una questione di predilezione.

Al cinema è impossibile esercitare il privilegio della sospensione. Ogni cosa scorre non vista. Bramata e deglutita.

Perdo tempo al cinema. Per me – che fondamentalmente solo leggo, e mi caccio nei vicoli dei testi – vedere un film significa consegnarsi alla noia.

Ma lunedì, avevo proprio intenzione di addormentarmi al cinema, così sono andato per “L’apparizione” del francese Giannoli (terzo di quattro film del primo dei due cicli del cineforum diretto a Scicli dal caro amico Peppe Puglisi).

Iniziato in sordina, carburato nella parte centrale – durante la quale ho sofferto per una decina di minuti di abissi ipnotici – involatosi nella terza e ultima parte, un brusco risveglio, il film è di estrema sottigliezza, coi due protagonisti principali a far la differenza.

Il regista pare assumere un atteggiamento rinunciatario sul tema più grande, quello del mistero e della fede. Ma così non è. Su un sottile filo si regge. In equilibrio.

La Chiesa è mostrata pudicamente per quel che è, una sentina di vizi, come ogni contenitore umano; e la veggente vera – che sfugge alle visioni per farsi una famiglia, sostituita dalla più cara amica che, cristicamente, al suo posto si immola, e per lei muore – avvolge l’opera in una pellicola impenetrabile.

La salvezza per lo spirito (e per la Chiesa) dovrà ricercarsi al di fuori del ‘costituito’ – sembra più volte ribadire Giannoli.

E il comico e il tragico, stretti in un mortale abbraccio, garantiscono il mio sonno, la mia veglia.

AUGURI DI NATALE (Delle due storielle, una, bisogna chiuderla!) – Angelo Rendo

Ogni anno, la vigilia di Natale, non manca mai di venirmi a trovare. Si gasa. Lo gaso. Certo, lui non me lo può dire il motivo – lo derubrichiamo fra gli atti di estrema educazione – ma è chiaro che venga per porgermi le gote rosse pregne di pino silvestre. E io, ogni anno, ricambio la gentilezza, anzi, lascio che per l’intera giornata il suo ricordo silvestre mi assedi le nari e riempia il cuore.

La seconda, non merita neanche di esser chiusa, ora che ci penso, è una maglia aperta, l’unica, di poco più di due chilometri nel tratto di costa che mi riguarda lungo quasi venti. Da Donnalucata a Plaja Grande. Un’entrata nella luce marina: scavalchi il guard rail e ti mangia il mare. Lo bevi. Una ferita benefica. Che solo accoglie. Invita ad entrare e uscire senza requie.

La Scicli di Velasco Vitali – Angelo Rendo

Non conoscevo quest’opera di Velasco Vitali del 2003: Scicli vista dal colle San Matteo.
Annegata nel piombo, Scicli sembra una città bombardata, in parte ricondotta al passato. O a climi mediorientali. Cancellata.
Un’interpretazione annichilente e furiosa. Non la più bella città del mondo, ma un quartiere di Beirut. Che poi, secondo una geografia interiore non malcelata ma esposta, è la Scicli di oggi.

Il vicesindaco di Chiamparino – Angelo Rendo

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Oggi è passato a gasarsi il vicesindaco di Chiamparino, ormai abita a Marina di Ragusa, è un pensionato. Tra una cosa e l’altra, non riuscendo a capirsi cosa fosse cosa e cosa fosse l’altra, a bruciapelo mi ha chiesto Lei è residente a Ragusa? No, a Scicli, questa landa è territorio di Scicli, peraltro. No, gliel’ho domandato perché sono in lizza per le Comunali di giugno a Ragusa. Ah, e con chi? Con una lista civica di Centro Destra. Ho capito. Lei ha già fatto politica, quando stava a Torino? (La volta precedente mi aveva rivelato di essersi da poco trasferito nel loco natio, a distanza di cinquant’anni, e di aver pure comprato casa. Un’occasione. Quindi, via, dopo aver messo cinque euro, con la sua Delta d’antan, la sua signorina, lui tutto impomatato.) Sì, sono stato vicesindaco di Chiamparino. (Chissà se durante il primo o il secondo mandato.) Ah, ora è migrato verso altri lidi. Sa come siamo noi politici, cambiamo facilmente bandiera.

Visita a Gesualdo Bufalino – Angelo Rendo

Fu agli inizi del nuovo secolo che mi saltò in mente di far visita a Gesualdo Bufalino. Non lo trovai.

Al cimitero di Comiso lo trovai, questo grandissimo scrittore, circonlocutivo e antifrastico. M’ero fatto 35 chilometri, ché tanto dista Comiso da Scicli, per non portare nemmeno un fiore, per non poter dire nemmeno una parola.

Ricordo di aver chiesto, stranito, al custode dove fosse la casa di Bufalino, e che di fretta mi diressi per il vialetto indicatomi. Mi pare girai a sinistra e che, prima di vedere Gesualdo Bufalino, vidi in basso Gesualdo Bufalino. Il nonno.

Due cose mi colpirono. La prima che i due Gesualdo avevano preso dimora entrambi a 76 anni, e la seconda l’epitaffio del nipote – del quale già sapevo – HIC SITUS LUCE FINITA. Ca n’attocca, quannu chiurimu l’uocchi. Mi parve inutile, ma formalmente ineccepibile, un ‘uno due due tre’ da chapeau. Non portavo cappello.

Serenate – Angelo Rendo

Cifra del nazionalpopolare, Cutugno contiene tutte le voglie, abbraccia tutti i facitori di layers – dai più intellettualmente saturi ai più sentimentali, dai più arguti ai più sottili militanti d’apparato – fa cantare polli, fagiani, pavoni e galli.

‘Bella ciao’, invece, non è una serenata per pensionati. Che la si distorca cognitivamente, non fa che abbassare i profili istituzionali. In tal caso, la memoria dell’antifascismo presta il fianco alla propaganda preelettorale. E ci rende capponi tutti. Italiani veri. Brividi.

Le “fumarole” di Plaja Grande – Angelo Rendo

Dietro il bunker di servizio, dove scrivo, a cinque metri, ci sono le serre. Siamo a Plaja Grande, a due chilometri e mezzo da Donnalucata, in antico contrada Piano Grande, ultima plaga del territorio costiero di Scicli, ad Ovest.

Sulla provinciale Donnalucata – Marina di Ragusa – dove appunto lavoro – e su per incroci e crocicchi che dalla provinciale diramano, e ancora oltre fino ai Macconi, fino a Marina di Acate, ad Ovest, e fino a Pachino, ad Est, la cosiddetta fascia trasformata, il paesaggio è sequestrato dalle serre. E da chi ci vive.

Capita che, come oggi alle 17:00, a circa trecentometri da qui, in barba a ogni regolamento, si dia fuoco alle piante di pomodoro estirpate, che si celebrino le velenifere “fumarole”.
Le piante – tra l’altro ancora umide per via delle piogge – allungheranno il fastidio per chi nei pressi vive. E a seconda dei venti di ponente o tramontana, a seconda del loro indugiare o del loro risvegliarsi, le nebbie, il fumo, il tosco prenderanno forma.

Nessuno vigila. E nessuno – o pochi – conferisce questi rifiuti speciali. Brucia. E fa bruciare gli occhi, la bocca dello stomaco. Porta la nausea, eleva lo stordimento a fase rituale ultima. Nessuno.

Il costume più memorabile che ho indossato è… – Angelo Rendo

[Facebook ha lanciato da qualche giorno una nuova funzione ‘Lo sapevi?’, una serie di domande random poste all’utente. L’operazione rientra nell’usuale categoria del “data mining” del colosso. La domanda a cui ho risposto, e che leggerete sotto, mi è caduta in bocca e l’ho presa al volo.]

Non c’è il minimo dubbio. Avevo sedici anni, eravamo nel 1992. A Scicli si teneva – e ancora si tiene – un Carnevale (“Carnaluvari ra Stratanova”) che mina la norma carnascialesca, la esalta. Ovvero è fuori da ogni seppur minimo controllo (estetico). Ciascuno si combina come meglio crede. Ecco i vestiti del babbo, della mamma nonna o bisnonno persino, e le maschere dei personaggi più in voga del momento; quindi le mazze, nude o riempite di sabbia, le pistole e i caschi integrali.

In quell’anno, il 1992 dicevamo, io indossavo un abito spezzato (giacca bianca, pantaloni neri) di papà anni Settanta, un foulard della mamma, portavo inoltre un fazzoletto viola nel taschino e una imprecisata congerie di stracci premeva sotto la giacca. La maschera di Diego Armando Maradona coronava un costume a dir poco memorabile. Ho la foto, aspetto mio padre me la mandi. È arrivata, eccola.