UN CONTINENTE ALLA DERIVA – Angelo Rendo

[Naipaul, “Dolore”, nella nuova collana digitale ‘Microgrammi’ di Adelphi.]

Naipaul soppesa il lutto: il dolore ne è il precipitato. Esso non ha luogo, se non in quella soluzione chiamata vita. E non ha niente a che fare con la parola dolore questo dolore.

La parabola delle tre esistenze che nello scritto si incrociano oscilla sopra un regime vocazionale intriso di umorismo e astuzia. Che è poi lo stato assoluto di quel continente alla deriva chiamato Scrittura.

PROPAGANDA ‘STA ‘NDUJA! – Angelo Rendo

La retorica di Gipi a Propaganda Live è di bassissima lega, volgare, e muffita, soprattutto. Tutta la tv è di stato. La radiotelecomunicazione è di stato. Restituisce la condizione del paese, cullandolo del suo sé diviso e ghignante.
Sghignazza, ride, la parte buona del paese; intanto, quella cattiva si mangia la ‘nduja.

UN’ADORABILE PROPENSIONE ALLA VITA – Angelo Rendo

(Iscrizione ellenistica su pietra calcarea, Antiquarium, Teatro greco-romano di Taormina)

Si tratta di un altare, dedicato a Hestia da Karneades, sua moglie Pythias e dalla figlia Eraso, presso il tempio di Serapide, scoperto nel 1861 all’interno della Chiesa di San Pancrazio a Taormina.

Il testo: “Accanto a queste mura di Serapide, il guardiano del tempio Karneades di Barca, figlio di Eukritos, la sua sposa Pythias e sua figlia Eraso hanno eretto a Hestia un altare; come ricompensa per questo, o tu che governi le meravigliose dimore di Zeus, concedi loro un’adorabile propensione alla vita”.

***
La chiusa finale, letteralmente tradotta, verrebbe: “possano loro avere sempre una vita felice e prospera.”
Ma quanto meravigliosa ed emozionante iunctura (“un’adorabile propensione alla vita”) ha tratto fuori da quel blocco di pietra l’anonimo traduttore facebookiano.

La traduzione è chiaramente forzata. Ma pendere avanti, rimanere sospesi tra la certezza di esser vivi e il dubbio di non esserlo, quasi sentirne il nodo alla gola, non possono che rendere degna di adorazione l’attitudine alla sospensione, alla inclinazione, all’intenzione di onorarla, la vita. Mettere in mani umane ciò che è del divino e ad esso è stato tolto.

CHODASEVIC, L’ULTRAPOETA – Angelo Rendo

Vladislav Chodasevic (1886 – 1939), di cui Bompiani ha appena pubblicato un’ampia antologia poetica, “Non è tempo di essere”, nella nuova collana Capoversi, è un poeta malfermo. E solipsistica e crepuscolare la sua vena. Un nichilista.

La poesia è questa cosa, indimostrata e realissima: debolezza del corpo e della psiche, questo restare ai margini, fra le righe, invisibili. Ché invisibile è la poesia, marginale, debole. Come la vita, che aumenta se segue il codice, sminuisce e smemora se rimane chiusa nel guscio del tempo. Pare.
Questa grande arte, la poesia, che disperde ogni nube psichica e fa chiaro il cielo.

“La scimmia” è la poesia più intensamente disumana del volume, e per essa vale acquistarlo. Poi che la voce è troppo compromessa, incrinata, tra il volo e la definitiva caduta, nascosta al genio. Dorme, sosta, ma non è… che tempo, sabbia, vento.

Curatela e progetto grafico speciali. Rispettivamente nelle mani di Caterina Graziadei e Polystudio. Con un solo grande errore: la numerazione delle pagine. Il numero è destinato al margine interno vicino alla rilegatura; e tutte le volte che il libro lo si apre e poi richiude è insetto schiacciato, briciola, tabacco o cenere quel numero. Neo.

“UN VERO COMICO, UN CLASSICO”: HERMANN HESSE A NORIMBERGA – Angelo Rendo

Che importanza ha Hermann Hesse? Questo stupido e sincero umorista – ancora a mezzo servizio, come egli stesso ammette, dissimulando una pratica scrittoria di ostentata cialtroneria – non ne ha. Come ogni grande, non ne ha.

Leggendolo, lettore, non scorrerai righe di testo, ma attraverserai un fondo chiaro ed eliso, dolci rilievi, insormontabili delicatezze, creste, gole, di nuovo creste. Così, agisce, di soppiatto, diagrammatico. Le frasi si compongono senza alcun interesse, l’apparenza ne determina il paradosso. Che se canti, non senti, se gridi, cadi nel silenzio più inverecondo e un cerchio di sole estivo fa i lazzi per chi non intende. E muta il male in male come fosse opera di bene, la più calda riuscita per una mente adusa alla certezza. Che crolla e dilaga nel mare duro.

Una favola di Kierkegaard – Angelo Rendo

Il giglio selvatico e l’uccello sono la stessa cosa. Come la terra e l’aria, e i due mondi, e la libertà apparente o il sacrificio di essere nient’altro che quel che si è.

È una favola nera per adulti bambini più che un libro d’artista per bambini questo luminosissimo oggetto da collezione, “L’avventura del giglio selvatico” di Søren Kierkegaard, tradotto da Gianni Garrera e illustrato superbamente, con ardua ed estrema sintesi, da Matteo Fato (Quodlibet, ottobre 2018).

La traduzione di Garrera – studioso di riferimento di Kierkegaard – invece, risuona all’orecchio piena di inciampi; e, nonostante cerchi di mimare la lingua raccogliticcia dei bambini, non arde nel candore; il traduttore soppesa più del dovuto la parola, che rimane sospesa, anfibia, zoppa e brutta.

Delicato, tremulo e triste giglio Kierkegaard, niente di più vero,
suo alter ego l’uccello tentatore, gradasso e stanco – senza che se ne renda conto – della sovranità che in petto gli batte.

“LA NATURA CHE ESISTE E L’UMANITÀ CHE DIVIENE” – Angelo Rendo

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Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.), Einaudi, ed. 1957, a cura di Giorgia Valensin, prefazione di Eugenio Montale.

Copertina rigida in cartone, color verde mimetico, dorso in tela, 18 cm x 11,5 cm., pp. 250, collana Universale Einaudi.

Presumo la progettazione grafica – giocata tutta sul carattere, le dimensioni e i netti contrasti in un contesto di risoluta essenzialità – sia di Albe Steiner, il quale invita il lettore subito al centro, dentro una fitta foresta millenaria.

“La natura che esiste e l’umanità che diviene”: così Montale nella prefazione distingue i due mondi, l’orientale dall’occidentale.

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CITTÀ FANTASMA – Angelo Rendo

‘La mia città’ di Antonio Moresco e Giuliano Della Casa – appena uscito per Nottetempo – si legge in un quarto d’ora. È il Moresco favolista, che sigilla il proprio fantasma. Una evocazione precisa, minima e puntuale. E Della Casa che prontamente sparisce. In un punto, in un appoggio che manca e nella fredda monumentalità della sofferenza.

GIOVANNI PASCOLI, O DEL DEPENSAMENTO – ANGELO RENDO

Stamattina, sul lungomare di Donnalucata, al mercato delle pulci, ho scovato le ‘Poesie’ di Giovanni Pascoli nell’edizione Arnoldo Mondadori del 1951. Si tratta di un volume di 1600 pagine, che misura 20×14 cm, ed ha taglio superiore delle pagine celeste. Presenta fioriture all’interno e nel taglio laterale. Tuttavia mantiene, a sessantasette anni di distanza, intatta la struttura, e in discreto stato la sovraccoperta.

Ho ripreso a leggerlo a distanza di venti anni e più. E non penso, depenso – è il classico a porti nel depensamento – leggo a perdifiato, irretito da musicalità e tremendo pathos. È un suono cilestrino, rustico ed alieno a pensare se stesso e il poeta a implodere schiudendosi. Non esiste poesia più onnicomprensiva di quella lirico-elegiaca. Induce al pianto il lettore, lo mette dinanzi al corpo nudo poetico, e al simbolo, che tracima dal canale cortese per celarsi negli abissi della poesia pura. Elettrica.

‘Il corpo si perde nel corpo’. Quattro poesie di Jean-Louis Giovannoni – trad. Angelo Rendo

[Scelta di testi tratti da ‘Poesia’, numero 331 (Novembre 2017), lì curati e tradotti da Marco Rota.]

Si crede
qualcuno verrà
ad aiutarci.
O trattenere.

Errore.

Il corpo si perde nel corpo.

***

Si cade
nel fondo

le ossa
all’esterno.

***

Quando non si parla,
si crede
di essere fuori
dalle nostre parole.
Siamo invece
il loro corpo.

***

Non appena una parola
è detta,
si annida subito
in sé, luogo
della scomparsa.

TESTO FRANCESE

On pense
que quelqu’un viendra nous aider
à nous retenir

C’est une erreur

Le corps se sectionne dans le corps

***

On meurt
par effondrement

Les os
vers l’extérieur

***

Quand nous taisons
nous croyons vivre en dehors de nos mots
alors que nous sommes
par ce silence même
dans leurs corps

***

Dès qu’une parole
est pronuncée
elle cherche aussitôt
en elle
le lieu de son effacement