Sirene – Angelo Rendo

Ogni mezzo può condurre alla fine della mimesi. Adeguandosi alle rotture fra zona e zona cade il derivato nel fondo. E, sebbene la vita tenti la fuga, non permane che un detto: “Separa l’isola dall’astratto”.

All’inizio non mostrano che gli incisivi, attaccano in preda all’angoscia; quindi, risuonano i loro campanellini, si accingono a prendere sembiante, a impressionarsi, fanno come i postulanti, che trattengono il proprio parere mentre mostrano i loro appetiti corrotti, mentre ciò che si apre brilla, insorge non visto.

L’assertività non riposa nel mezzo, esclusivo della quiete. Uno è l’aspetto che rende perplessi: l’uomo tiene dietro al comando. Costruisce su questa base, interroga a più non posso, prende dall’una e dall’altra parte, padrone del calcolo, mappa le zone, nascondendo le sorgenti luminose. Le sue fattezze perimetrano lo stato di emergenza.

La stabilità supera ogni definizione. Si muove senza esser giudicata, fa prova di coscienza.

Il pensiero dominante è tutto tono, inautentico, si forma nei cunicoli dell’intrigo; nessuna proprietà oltre il viluppo.

La concordia finisce sempre con l’essere. Che non ammette repliche, sgomenta. Ho visto. Cosa hai visto? Non si è mai visto niente.

Mi ricordo che la salvezza non chiarisce, sta a fondamento di una postura, delimita un luogo.
Se proprio volessimo raggiungerla, guardiamola nel suo luogo: eccitata, bagnata, abbandonata, mentre lo sgomento la irrigidisce, e fa gridare. Il suo essere un fenomeno.

Siamo lontani dal definire una forma. Scade prima ciò che viene dopo. Fa il pieno di paura la salvezza. E non si è mai ritenuta vera una bocca aperta che trama per finirsi.

Così ci muoviamo, e contiamo, di fronte a quel che ci pertiene. Dall’altra parte ogni fazione se ne va per come è venuta. Ed è retto ciò che è storto.

Non accade mai che la storia sia destino. La legge e il gusto confliggono e si schiantano contro lo scoglio della visione.

Confesso che è facile montare, più difficile escludere violenza e passato. È chiaro che il confine fra desiderio e certezza rimane al fondo, inesperito.

Quanto più mi possiedo, quanto più mi trattengo, tanto più la mia insistenza mi spacca.

Il corpo della prudenza vive nella dottrina, hai voglia di macchinare dalle carceri. La misura non ha un metodo, e non genera godimento.
Popolare è invece la riproduzione, e la caccia al diverso. L’età nuova è lontana, se la disperazione preda.

La sobrietà non ha luogo, ed ebbre gerarchie contano le parole del discorso, sostituendosi alla giustizia, e approntando lo schema del destino.

Non ha senso che la cura proceda sul carro dell’autonomia, l’energia ha parole solo contrarie, e resiste alla volontà, rimanda un suono che mantiene la discordia al centro.

I due corni – Angelo Rendo

L’idea – che prima viveva dentro l’unico uomo, il primo sulla terra, oscura, e non trovava ancora forma, la giusta distanza fra segno e senso – si ruppe sopra il capo di quel primo, misuratore del santo e del giusto, e scomparve, quando, una volta aperti gli occhi – era cieco – vide un altro uomo, ancora orbo, scomposto e lontano fra i rovi cercare un accesso. A quel lampo il buio, al buio il lampo.

L’emergenza dell’incantamento, per quanto l’uno balzi verso l’altra, sopravvive nell’alterità. Chi non si orienta e a vuoto sbatte le ali è condannato al premio della disubbidienza.

Iperandroidismo – Angelo Rendo

Il cielo sputa l’animale. Dov’è? Dov’è?? Non siamo stati più attenti di ora; ora che si avvicinano alla razza estinta, chiusa nel torpore, orba e senza pedali, i portatori di zanne, le maestranze del fiore aguzzo. Empia la dose ingoiata dagli allevati in cattività. La vita al prezzo straccio di una netta anima.

Altrove l’articolazione dei segni lascia presagire che l’uomo, senza accorgersene, stia perdendo il proprio confine: la liquefazione in atto ha bloccato la resistività del relativismo androide a beneficio del calore che tutto ammolla e getta avanti: al sé i resti che la vita risputò.

Bambagia – Angelo Rendo

La figura fissa – la ‘cosa’ che porta se stessa – è in crisi; più la si riduce, o la si vezzeggia, più sciama il fronte memetico coi suoi layers. Non mancherà l’arguzia, mentre lo spaesamento a cui la memetica indurrà la coscienza – quell’ingovernabile filtro intessuto di soggetti politici indecidibili e indigeribili – non consentirà di ‘vedere’ quanto rumore informazionale giunga dall’orizzontalità pervicace del mondo ‘classificato’ e quanto grande in realtà – ahimè – sia il desiderio di bambagia.

Il cielo in terra – Angelo Rendo

Che per quanto uno si allontani o se ne allontani, c’è sempre una forte dose di stanchezza e privilegio, una regola. Uno stato di ascesa, la somma delle perdite, l’attesa resistenza del pensiero che si piega in parola. All’inizio. Per non dire di quando risuona quel monito: ‘Falla caminari ‘a testa!’

Ossigenala, falle fare una bella passeggiata, dalle una direzione, spingila in avanti, seguila, calala negli intrighi. Falla camminare ‘sta minchia di testa, in ultimo!

Ma la testa non ha piedi; chi glieli dà la forza, preme il tallone sulla sua vera natura, che non è anfibia. Portare in terra il cielo è azione da baro.

Compro oro – Angelo Rendo

Non riesco ad allontanarmi. Nel pomeriggio, passando in macchina lungo un’arteria molto trafficata del paese, a un tratto sono catturato dal “Compro oro”. Getto uno sguardo veloce ma bastevole a vedere una casa mortuaria, luci alte e profondissime, un tramezzo al centro in cartongesso, pareti bianche e vuote, una lacrimosa pianta al di sotto della finestrella della ghigliottina, ove si impegna ciò che ha valore, valore non avendo certo il corpo morto che lì si reca; sulla bilancina intravista stava un cranio, un impermeabile marrone colava dalla finestra.