COME SCRIVO – Angelo Rendo

Mi muovo sul foglio di carta come chi non ha mai saputo tenere il rigo; le parole non sono più parole ma numeri dentro radici in spazi aperti, chiusi dalle lettere.
Sulla carta, intera sta l’ombra, il rigore che trattiene, mentre particole turbinose mirano ad altra luce.
Qui non c’è nulla di solido, come poco più in qua, invece, dove la carta è il fondamento.
Qui tutto è in vista, e scorre, logorando le cavità più note, cresce, si gonfia chiudendo ogni spazio.

PUGNI CHIUSI – Angelo Rendo

Teneva i pugni chiusi, si temeva a immaginarseli aperti. Non vi era immoralità, o istinto malvagio, nella determinazione dimostrata di fronte al pericolo; siamo sempre in pericolo. Onesto, disgorgava l’odio, che ostruisce il passo di ogni uomo che cammina teso teso.

Non ritorna chi è attratto dalla logica. E lui era fra quelli che trovarono rifugio nella venerabile sfera dell’intenzione.

Non bisogna mentire in presenza dei resti della carità. Nel condizionamento non c’è nulla da vedere, solo l’ira diventa sostanza e confine di vita.

Noi tutti abbiamo avuto un buon amico, la cui gentilezza è scomparsa nel pozzo dell’orgoglio.

L’uomo rimane deluso, se cessa di accompagnarsi all’uscita, quell’ostacolo, che altri chiamano abbandono, non è che convenzione.

Chiunque stia coi pugni chiusi, sa che l’austerità si manifesta col torpore, ha un codice e conduce l’ansia alla fine del dubbio.

PUH, SPARATU! – Angelo Rendo

Stretti improperi, gonfi regimi del senso il dialetto porta in dote. È il caso del violento e sorvegliato aplomb in “Puh, sparatu!’, che s’impone quando i dormienti vogliono continuare a dormire. Ognuno col proprio reddito universale, a dormire, o col tempo nel tempo per sempre presente.

Un ottativo (“Possa tu morire sparato, e sputato!”) per un uomo che mal si sopporta, o del quale risibile è la verve nel presidiare la grande fortezza egotica. O finanche può condurre alla chiara, legale presa visione dei tanti fori nell’anima, riversa a faccia all’aria e ferita; più adatta alla compassione che alla ferocia, ché di questa pienezza è l’ambasciatrice più seria.

L’INCOGNITA – Angelo Rendo

Tuccio Tagliabua, scrittore, amava essere a corto di idee. No che gliene fregasse non averne, era più per gli altri, che ne avessero gli altri, e basta, di idee.
Non conosceva nessuno al mondo, non conosceva altri scrittori, cosa volevano, perché lanciavano grida, facessero i seri, ritornassero al loro antico mestiere.
Un giorno, attraversando il ponte della Triste Usazza, inciampò su una trista pietra; e fu allora che si imbattè per caso – gli ruzzolò fra le palle, diciamo – in Rocco Il Neonatologo, neoteologo, il quale non parve degnarlo, come fosse stato un vituperato trattatista ebraico, mentre era proprio lui, lui il pacificatore estremo delle rovine, lo scienziato, e tante altre cose, persino il costruttore, l’operaio, il sanpietrino, il trattatista, e avrebbe dovuto capire.

NOVEMBRE – Angelo Rendo

Non sono rimaste che orme
tre lingue sature col più grande
spazio al centro.

Tumulo e alta onda lontana
alle dune alla fine del cielo.

Bisogna stare al contrario
Per vedere meglio come la terra
Come il cielo sia la terra
Il mare.

C’è sempre qualcuno
Davanti al fotografo
Sempre.

Ne inizi una che pare
La giusta, la vera
Mentre un’altra bussa e dimentica
Che la terza è la prima.

Novembre

Ha i colori delle salme
La luce indifesa di novembre

Dell’argento sepolto.

EPOMENI STASI SYGGROU FIX – Angelo Rendo

Le parole diventano umili, deboli e sconnesse; si piegano alla semplicità. Discettano sulle loro sorgenti. Compiono le azioni più scontate, vitali.

Uno scoppio nell’atrio del Museo Archeologico Nazionale ad Atene. Io che faccio la fila, Adriana alle mie spalle seduta. Adriana che svita il tappo della bottiglietta di acqua frizzante. E boooom! La bottiglietta rimane tramortita e ritta sul suo grembo, decollata, il tappo lì accanto giace. Nessuno che si preoccupa, l’acqua non si versa, ribolle, nemmeno sfiora le teste possa trattarsi di un attentato. Il botto è stato incredibilmente forte, da non credere. Adriana già si vede circondata dalle guardie, dai custodi. Io rido. Sono nel mio centro. Intronato. Gli altri ridono. Non è successo nulla, nessun controllo. Abbraccio il vaso del Dipylon.

Il Picasso in dialogo coi manufatti cicladici e dell’antichità greca al Museo Goulandris è terribile, gli basta niente, pochi gesti, per rimescolare le carte e diventare l’artefice cretese della testa di toro o il veggente scultore di idoli cicladico, il tebano, o il minoico appunto, il miceneo, distruttore di mondi. Questo fa Picasso, chiuso in una bolla temporale grande quanto l’orbe tutto. Fa confusione di ruoli.

Il maialino da latte a Kolonaki o le costolette di agnellone a Syntagma, il sovlaki di Pangrati. Epomeni stasi Syggrou Fix.

I FIGLI SUOI PIÙ DEBOLI – Angelo Rendo

La cronaca irrompe minuta e franta nel lazzaretto-mondo, incespica su se stessa e manda avanti i figli suoi più deboli.

È il caso, stavolta, del sindaco di Messina Cateno De Luca, il quale, intestatosi di promuovere una manifestazione di motoenduro, ha prodotto un video nel quale lo si mira equipaggiato di tutto punto da endurista e in sella a una moto nella sua stanza al municipio, smarmittando e suonando il clacson per compiere l’opera.

Non c’è alcuna forza che possa fermare e dimettere l’autorità, che, in tutta evidenza, si autofagocita e restituisce la più alta degnità al terrore che avanza.