In forma di saggio critico
Negli anni in cui lavora Giacometti, il Tempo ha già fatto irruzione nello spazio, da qualche decennio. Basta ricordare Proust, Cézanne, Bergson e i cubisti e i futuristi. Solo il primo aveva in proposito le idee particolarmente chiare; per tutti gli altri è ancora un dio positivo, il cui attributo principale è la dinamica, e Guernica è una descrizione: la storia, per quanto tragica, è un espediente per una dichiarazione di ottimismo. Non si esce dai limiti fissati dal positivismo.
Invece… “in noi dei cari inganni/non che la speme, il desiderio è spento”: questa è la saggezza dell’ ”architetto” Giacometti.
Giacometti aveva due mani. Non è da tutti.
La sua sinistra vuole, ricorda (volontariamente), aggiunge, costruisce, contrafforta il Tempo – col fil di ferro, la creta, il bronzo. La sua destra colpisce, cava, toglie, distrugge, in contemporanea.
Il risultato non sta nello spazio, lo attraversa – o ne è attraversato – bucato com’è dal Tempo.
A volte spunta un naso lunghissimo, totale, per una di quelle assurde intuizioni che spostano il centro in periferia.
Periferia:
l’uomo è l’eterna ossessione dell’uomo. Ma quando Giacometti guarda un uomo è come se lo guardasse un cane. La nostra presunzione di animale eletto ci fa perdere per esempio l’occhio del cane: la testa è piccola e lontana, questo animale padrone è sottile e verticale, solo i piedi mi sono vicini, sono a mia immagine e somiglianza.
Un cane che guarda un cane, poi, vede un cane, la sua fame.
Non so per quale ragione continuo ad associare le filiformi figure di Giacometti a quelle malate, possedute o abnormi che popolano il Malte. E’ lo stesso vuoto, la stessa operazione di scavo che le ha create.
Come guardando i cortometraggi e le fotografie del suo studio, ritrovo la ricchezza e la tenacia della vita comune appese ai muri sventrati delle case di Parigi. Sono qualcosa di aperto, senza difese, pulito perché promiscuo, senz’altra legge che quella della vita di tutti, e di tutti i giorni, coi suoi odori, i suoi sudori e le sue piccole sporcizie.
“Mio Dio, mi rammentai a un tratto: dunque, Tu sei. Ci sono prove della Tua esistenza”. Sono la bellezza, il cappello della domenica del cieco che vende i giornali, i chiodi duri piantati nelle Piazze, il sorriso che ci fa accettare la condizione che ci è data di ombre momentanee che non si incontrano.
Non si incontrano:
questa è la verità – non c’è arte senza verità – che Giacometti sembra mutuare direttamente da Proust: ”L’arte è l’apoteosi della solitudine… non vi è comunicazione, perché non vi sono mezzi di comunicazione”. Dirlo, caro Beckett, dire questa verità con le parole di un sia pur eccellentissimo saggio, non la smentisce; costruirlo in una Piazza è smentirla: quel piccolo quadrato di quaranta per quaranta mi ha fatto attraversare all’indietro d’un fiato tutta la Germania (l’avevo visto a Colonia), per rintanarmi nel mio studio a contenere l’emozione di quella verità sconfitta: la comunicazione era andata a segno, il mezzo della comunicazione esiste, perché non mi si dava una forma, ma un’agitazione.
Le figure di Giacometti hanno un che di comico e di antico. Mi ricordano le statuine dei nuraghi sardi, qualcosa dei carri assiri e dell’età del ferro, e anche il pagliaccio genovese Lasagna. Ma la loro comicità non si abbassa mai al sarcasmo dei busti di Daumier, come il loro arcaismo è solo una memoria (involontaria), la spina dorsale di qualsiasi opera d’arte che non voglia afflosciarsi nel giro di un’occhiata micidiale.
Forse è proprio nella prospettiva della distanza – il sempre stato è una distanza, al pari della comicità – che si rende possibile guardare.
Ma intendiamoci: la distanza dopo. ”Lasciate ogni passione” diceva Leonardo, trecento anni prima di Leopardi, e il suo è stato indubbiamente un occhio.
Il fratello Diego:
un modo di specchiarsi, l’autoritratto di una persona pudica che non vuole apparire e che non ce la fa a guardarsi. Per caso non siamo lui: veniamo fuori dallo stesso buco, apriamo gli occhi sulle stesse pareti domestiche, nello stesso paese, forse riusciamo ad avere con lui un rapporto più distaccato di quello che riusciamo con noi stessi. Lo vediamo di dietro e di profilo, e la scultura è centro, spazio che racchiude in circolo.
Giacometti diceva di Moore, che gli è sopravvissuto per molti anni, che una sua scultura sarebbe stata comodamente in uno dei vuoti delle mastodontiche figure dell’altro. Ma aveva torto: i suoi evanescenti fantasmi hanno bisogno di molto spazio intorno, perché si muovono: come Cristina Brahe, attraversano con passo lento la sala per sparire nel buio di una porta. Per questo sono così flebili. La loro incorporeità rimane nella stanza anche quando sono spariti e ce la portiamo dietro quando la cambiamo.
Giacometti naturalmente era esente dalle usuali fesserie a cui induce la venerazione della materia. Mi domando allora perché dalla creta al bronzo; anzi, non perché: come.
Il gesto dello scultore è movimento su un corpo, quello della materia sulla quale interviene. Questa materia ha una sua voce. Quella della creta è duttilità massima: non oppone resistenza di nessun tipo, si conserva nel tempo, a disposizione di qualsiasi capriccio e ripensamento, pronta a essere distrutta e a ritornare al suo stato originario, intermedio tra il liquido e il solido.
Forse proprio per questo, a un certo punto interviene una volontà di fissaggio, non una volontà, un’urgenza, un bisogno: che non vada persa tutta la storia (il Tempo) di quei continui ritorni, di quell’accumularsi di costruzioni e distruzioni, come fotografati su un unico supporto.
Ecco perché si dice ”duro come il bronzo”.
Voglio spezzare una lancia in favore dell’attualità di Giacometti.
Senza di lui un Fontana e un Gordon Matta Clark non sarebbero mai esistiti. Le operazioni di Warhol e di Christo su di lui sono pleonastiche: troppo poco ”immagine” per il primo e troppo inafferrabile per il secondo. Quanti equivoci e quante esagerazioni del dio della dinamica dei movimenti artistici contemporanei si sarebbero potuti evitare, se lo si fosse guardato un po’ meglio!
Fra i cinque o dieci nomi del nostro secolo destinati a rimanere (non di più: la cultura di massa è lo specchio della sua presunzione) c’è quello di Giacometti Alberto, nato a Borgonovo nel 1901 e morto a Chur nel 1966.
Il suo funerale l’ho visto solo in due o tre fotografie: quattro gatti dietro il carro funebre in una giornata invernale. Le immagini mi calavano in una sensazione rassicurante: niente popolo dietro il feretro di questo grande.
Ma viva il dubbio e lo scetticismo, che mi hanno salvato dal precipizio romantico verso cui mi spingeva il mio disinteresse per le cronache: intere delegazioni di artisti, critici, sindaci e naturalmente mercanti erano stati tagliati fuori. Il tempio, momentaneamente evacuato dalla frustata dell’arte (fotografica), è subito tornato ai normali regimi, del resto condivisi dallo stesso protagonista. Così va il mondo, e sarebbe stupido aggiungere purtroppo: così è il mondo, così ci piace il mondo. E in questo mondo Giacometti era un maestro.
E noi ora?
Nietzsche diceva: cercarsi un maestro, per distruggerlo.