Arancinette – Angelo Rendo

Entrai nella basilica col piumino, incappucciato. Celebravano il concilio. Ero pieno d’ombra e consolazione, e la liturgia, biforcuta, piombava dall’alto. Non potevo che afferrare quelle schegge umiliate di latino a volo, come arancinette lanciate verso la bocca di un giocoliere, saldato alla prima colonna a tiro. 

Che lento scivolava, dibattendosi scomposto dentro il piumino. Le sue mani mulinavano senza alcun comando dal petto ai genitali coperte, inspirava balbettando e pensava che dopo che la storia passa su un uomo quell’uomo è morto.

Esthétique du mal [VII – VIII] – Angelo Rendo

VII

Come è rossa la rosa, la ferita del soldato,
le ferite di molti soldati, le ferite di tutti
i soldati caduti, insanguinati,
il soldato del tempo diventato immortale, grandissimo.

Un monte dove non c’è mai sollievo –
o forse indifferenza alla morte più profonda
significa pace – si innalza nel buio, una collina di spettri,
e là il soldato del tempo ha l’eterno riposo.

Cerchi concentrici di ombre, immobili
per parte loro, ma mosse sul vento,
formano intrecci mistici nel sonno
del soldato rosso del tempo, immortale sul suo letto.

Le ombre dei suoi compagni gli si fanno intorno
nella notte alta, l’estate soffia per loro
la sua fragranza, una sonnolenza pesante, e per lui,
soldato del tempo, spira un sonno estivo,

in cui la sua ferita è buona perché la vita lo fu.
Nessuna parte di lui fu mai parte della morte.
Una donna si massaggia la fronte con la mano
e il soldato del tempo giace calmo sotto quella mano.

VII

How red the rose that is the soldier’s wound,
The wounds of many soldiers, the wounds of all
The soldiers that have fallen, red in blood,
The soldier of time grown deathless in great size.

A mountain in which no ease is ever found,
Unless indifference to deeper death
In ease, stands in the dark, a shadows’ hill,
And there the soldier of time has deathless rest.

Concentric circles of shadows, motionless
Of their own part, yet moving on the wind,
Form mystical convolutions in the sleep
Of time’s red soldier deathless on his bed.

The shadows of his fellows ring him round
In the high night, the summer breathes fot them
Its fragrance, a heavy somnolence, and for him,
For the soldier of time, it breathes a summer sleep,

In which his wound is good because life was.
No part of him was ever part of death.
A woman smoothes her forehead with her hand
And the soldier of time lies calm beneath that stroke.

VIII

La morte di Satana fu una tragedia
per l’immaginazione. Una negazione
capitale lo distrusse nel suo palazzo
e con lui molti fenomeni blu.
Non era la fine che aveva previsto. Sapeva
che la sua vendetta provocava vendette
filiali. E la negazione era eccentrica.
Non aveva nulla della tonante nuvola giulia:
assassini lampo e tuono…Gli erano stati negati.
Fantasmi, cosa vi rimane? Quale sottosuolo?
Quale posto in cui essere non è abbastanza
per essere? Via, poveri fantasmi senza luogo,
come argento nel fodero della vista,
quando l’occhio si chiude… Che freddo abisso
quando i fantasmi sono svaniti e il realista scosso
per la prima volta vede la realtà. Il no mortale
ha il suo vuoto e tragiche fini.
La tragedia, tuttavia, può avere avuto inizio,
ancora, nel nuovo inizio dell’immaginazione,
nel sì del realista detto perché deve
dire sì, detto perché sotto ogni no
c’era una passione per il sì mai persa.

VIII

The death of Satan was a tragedy
For the imagination. A capital
Negation destroyed him in his tenement
And, with him, many blue phenomena.
It was not the end he had foreseen. He knew
That his revenge created filial
Revenges. And negation was eccentric.
It had nothing of the Julian thunder-cloud:
The assassin flash and rumle…He was denied.
Phantoms, what have you left? What underground?
What place in which to be is not enough
To be? You go, poor phantoms, without place
Like silver in the sheathing of the sight,
As the eye closes… How cold the vacancy
When the phantoms are gone and the shaken realist
First sees reality. The mortal no
Has its emptiness and tragic expirations.
The tragedy, however, may have begun,
Again, in the imagination’s new beginning,
In the yes of the realist spoken because he must
Say yes, spoken because under every no
Lay a passion for yes that had never been broken.

La pietà popolare – Angelo Rendo

A Ragusa hanno fatto FestiWall, figa incipriata, street art pregna. La Scicli pia celebra invece la sua santa patrona, Maria Santissima delle Milizie. Memento per l’automobilista distratto, lungo una strada che qualche anno fa fu teatro di un terribile incidente. 
Un grigio serbatoio fa da vedetta, la matrice, occhio ciclopico, benedice, un cavaliere col suo timido cavallo per caso assistono all’impennata del cavallo santo, Maria fende orribilmente l’aria con la sua spada. Ma non c’è più nessuno. Se non dentro quella casa o nei ghetti festivalieri.

Lunga vita a Miko Mission! – Angelo Rendo

Se un artista è quello che è, l’uomo traballerà, e non potrà che abbandonarsi e rinascere – dopo aver tentato vanamente la carriera di interprete, tre volte a Sanremo: 1965 (“E poi verrà l’autunno”, reinterpretata da Mina), 1976 (“Signora tu”), 1987 – approdando infine al piano bar di una grossa pizzeria di un qualsiasi litorale.

Don Miko, Miko, Pier Bozzetti, Miko Mission. Sagoma di Marzullo, piemontese giramondo, anni 71, col vizietto di nasconderseli (ci dice essere del 1960), in lui ci siamo imbattuti per caso ieri sera. E pure questa volta, come a Sanremo ’87, Don Mikilino ha barato, e barato con maggior agio e ardimento, sulla sua età. 
Ecco cosa scriveva qualche anno addietro Michele Serra su “Repubblica”, citando da un Almanacco Panini Festival: “Miko, alias don Miko, all’anagrafe Pier Michele Bozzetti, si presenta una prima volta a Sanremo nel ’65 come don Miko, poi nel ’76 come Miko, nell’87 come Pier Bozzetti (nell’occasione dichiara sei anni di meno, come i calciatori sudamericani in cerca di ingaggio, ndr), infine conclude la carriera come Miko Mission”. E la conclude – aggiungo io – divenendo uno fra i più importanti esponenti della disco music italiana anni Ottanta.

Dunque, mentre noi mangiavamo, Don Miko ha cantato per due ore senza requie e tema, stonandoci la testa, accompagnato da Vanna Marchi alla tastiera, a sua custodia. E alla fine, quando gongolava fra i tavoli, uno dei miei commensali, un istrione, mio fratello, lo ha chiamato a me, inventandogli che volevo fare una foto con lui. Mi ha chiesto il nome. L’ho stretto e l’ho abbracciato. Mi è passato il mal di testa.

Fesso – Angelo Rendo

Stavo dalla mia parte, sopra il pensiero, quasi mezzogiorno, quando, improvviso, un venticello fresco e liberatorio giunge; alzo la testa dal libro e getto occhi distratti dall’altra parte della strada. Subitanea la lettera cerchiata in rosso nella foto, iniziale dei proprietari del bar, attaccata al muro, all’entrata, una F colossale, chiama con nonchalance a sé la scritta Esso, impressa nella parte superiore della colonnina del rifornimento.

Dipingere in punta di piedi (per Marco Bettio) – Angelo Rendo

14232485_10210358474223399_9029891669694428290_n

Non è concepibile si stenda il colore temendo; ogni minimo tocco uno svarione, mai sia. Perciò la paura, quel controllo che la scioglie e la rende necessaria, superba.

Quando, infine, l’opera è compiuta, la mano appare decisa, tagliata, la scena sapientemente elementare – ammantata da tanta gentilezza e da una fedeltà primigenia alla geomanzia – e dalle estremità della tela, e da ciò che il colore cela, emerge come spettro silente, dimentico della propria origine, e del proprio destino il pittore.

‘Prima dell’annunciazione. L’apparizione dell’angelo’ (nella foto) di Marco Bettio è a casa mia. Un dono.

Solo il cielo senza incertezze e la luce marina possono accogliere le triangolazioni che si involano sulla tela e la finiscono: astrazione temeraria, azzardo rosso aragosta, fondo che inizia a tremare.

L’angelo è in croce. O è una libellula senza testa o uno di quegli artigianali ombrelloni di legno da spiaggia o un ragno.
Non è concepibile che dalla terra ferace inizi la metamorfosi. Che sia subumana. Eppure quell’ombrellone, venuto fuori dalla sabbia, spinge dal fondo per annunciare nulla che si sappia, nulla che non si apra.

Lo scheletro anticipa il paesaggio, e la pittura.

Su una mostra non vista – Angelo Rendo

​[MILANO, Palazzo della Ragione 

WILLIAM KLEIN
Il mondo a modo suo

dal 17 giugno all’11 settembre 2016]

Mi rammarico di essermi perso questo pezzo ispirato ed esauriente di Silvia Mazzucchelli, apparso su Doppiozero il 19 agosto. Non conoscevo Klein, e, iniziata la lettura, pensavo fosse morto. A guardare un po’, la cifra predominante di questo fotografo pare essere quella dell’estemporaneità. Un uomo che racconta la fine del tempo, scatto dopo scatto, svelandolo, ‘rovinandolo’. E del caso coglie l’accidente, e contro la foto – e la fine che essa contiene – lavora senza freno, preferendo alla posa l’inseguimento. Come se la macchina fosse una pistola, non un oggetto da dotare ancora di senso.