
Ho letto Le plaisir du texte in una piccola libreria di Rue Cujas nel febbraio del 1974. Non male come inizio. Ero a Parigi da due o tre settimane, per preparare la tesi. C’ero arrivato senza prenotazioni e senza conoscere nessuno. Avevo solo l’indirizzo dell’amica di un’amica, che sono andato a cercare appena sceso dal treno per farmi dare qualche suggerimento, o forse per non sentirmi sperduto. Ma non credo: ero spavaldo, allora, e non sentivo il bisogno di raccattare umanità. Era domenica mattina, abbastanza presto probabilmente per gli standard metropolitani, e il quartiere dove abitava la ragazza era deserto. L’unica persona che c’era in giro, la prima che ho visto per le strade di Parigi, la stazione e il metrò non contano, è stato un clochard che frugava in una poubelle. L’incontro con la capitale dei miei sogni è stato un cliché. Mi sono sorpreso: che la realtà imiti la finzione, per me era solo una vaghezza teorica, allora. Ho riaggiustato la visuale immediatamente. Del resto Parigi per me non era mai stata altro che un luogo immaginario. E tale è rimasta, nonostante il tempo in cui ci ho vissuto e le volte che ci sono tornato. Certi quartieri li conoscevo così bene che davo indicazioni ai turisti. Una soddisfazione! Mi accontento di poco, io. C’ho una morale ascetica, in fondo. Di un ascetismo tenue, vago, per niente atletico. Sempre ascetismo, comunque. O così mi piace pensare. Non so perché racconto queste cose. Alcune le ho già scritte e odio ripetermi quando scrivo. Quando parlo è un altro paio di maniche: ma anche allora, per quanto cambi l’interlocutore, ad ogni ripetizione mi ritrovo umiliato. Eppure mi ripeto. Sarà che sto invecchiando? Sia quel che sia, la letteratura che indulge alla memoria non mi piace lo stesso. Va be’, avanti. Concediamoci questa debolezza. Non imparerò mai a essere indulgente con me stesso. Non è il caso di vantarsene, comunque. Per tirare un’ora decente sono entrato in un bar a prendere un caffelatte con un croissant. Prima delusione. Il croissant era caldo ma non buono. Unto, molle, elastico come un chewing-gum. Il caffelatte già me lo aspettavo schifoso, e quindi l’ho bevuto con piacere. C’era le tele accesa, e parlavano, ricordo, del Loto. Non sapevo cosa fosse e l’ho guardata per un po’ senza ascoltare. Che razza di trasmissioni fanno alla domenica mattina in Francia! Nel frattempo ho fumato la seconda Gitanes maïs che mi ero affrettato a comprare in un bar della stazione dove avevo trangugiato un primo caffelatte, dopo la notte in treno senza viveri e bibite. Ho anche sfogliato un giornale. Quando mi sono deciso a suonare alla porta della ragazza c’era un po’ più di gente per strada, saranno state le dieci e mezza, tardissimo per le mie abitudini, ma alla porta è comparso un tizio in pigiama, tutto assonnato, che mi ha guardato con la faccia stranita. Una figura uguale uguale l’avevo già fatta qualche anno prima alla porta di Ugo Carrega. Non mi è servita a niente, a quanto pare. Va detto che allora erano le 8 e mezza! Il giovanotto in pigiama era il compagno della ragazza. Quasi subito è arrivata anche lei, pure in pigiama, e mi hanno invitato a fare colazione con loro. Praticamente era la terza, ma ho accettato per non essere scortese. Già ero in imbarazzo per i pigiami! Quasi quasi toglievo dalla valigia il mio. Volevo limitarmi a un altro caffè. Abbastanza buono questo. Per la contentezza mi sono preso anche una fetta di pane con la marmellata. Il pane era fresco. Come poteva essere fresco se erano ancora a letto? Un mistero. L’avevano comprato all’alba, prima di rientrate a casa? Lo spediscono per posta pneumatica? La ragazza mi ha dato alcune indicazioni che non mi sono servite a nulla e mi ha invitato a tornare a trovarli, o lì, o alla libreria che il suo compagno, un libanese druso, gestiva assieme a un bretone nel quartiere latino. Mi sono arrangiato per conto mio e sono stato un paio di settimane da solo, senza parlare con nessuno, a studiare, a girare la città e i musei e a andare al cinema. Quando ho deciso che era ora di parlare con qualcuno sono andato alla libreria. C’era solo il libanese, un bel ragazzo, gentile, che mi ha invitato a sedere da qualche parte in attesa che la ragazza arrivasse. Lei non era granché, invece. Come dice mia moglie, i bei ragazzi stanno quasi sempre con racchie. Io non sono d’accordo. E’ lei che vede racchie dappertutto. Io no. Io le racchie non le vedo proprio. Forse non ce ne sono. Forse c’è solo carne. Carne in attesa. Ho scordato i nomi di entrambi. Ho spulciato gli scaffali e quando mi è capitato in mano il libretto di Barthes ho cominciato a sfogliarlo, poi mi sono seduto in un angolino vicino alla stufa, come da piccolo con i fumetti nell’officina di mio papà, e l’ho letto tutto. Nelle pause scambiavo qualche parola con il libanese. Tra l’altro mi ha parlato della sua intenzione di tornare in patria, dove la situazione stava peggiorando e una guerra era più che probabile. Davvero? Più che probabile: inevitabile! Non ero molto al corrente. Una guerra! Esattamente quello che è avvenuto. Le guerre avvengono. I verbi mentono. I verbi? Che dire degli aggettivi allora? Mi è tornato in mente, lui, non quando la guerra civile è effettivamente esplosa, ma al ritorno dei miei genitori dalla loro prima crociera, per le nozze d’argento, quando mi hanno raccontato che la loro nave è stata l’ultima a approdare a Beirut proprio a causa del conflitto. Come si distende la sintassi, appena scatta la memoria! Ci dev’essere qualcosa, nel ricordare, che lo esige. A meno che non sia il contrario. La sintassi che presiede al ricordare! Che lo scioglie e costringe. Un nodo! Un groppo. Un’armatura! E allora via, tagliare! Spezzare. Se possibile. La zona turistica era ancora sicura però, hanno detto. Ho tremato per la loro incolumità retrospettivamente. Loro invece si erano divertiti e hanno sempre ricordato Beirut come una città bellissima e piena di vita. Allegra. Solo quello e nient’altro. Lo erano anche loro, a quei tempi. Felici, erano. La loro prima crociera! Il primo vero lusso, la prima vacanza senza figli. Ancora giovani e sani. Mi viene un tuffo al cuore a pensarci. Amen. Così, bellissima e piena di vita, sembra che sia tornata, la città, con tutto quello che è successo poi. Quella guerra e altre e tutto il resto. Sarà vero? Riuscirà a durare? Riusciranno a dimenticare? Chi è lontano lo ha già fatto. D’altronde anch’io ricordo solo scemenze.
Tornando a Barthes, sarà stato il posto, il momento, la circostanza che per la prima volta leggevo in tutta calma in una libreria senza che nessuno avesse da ridire, il calduccio, l’impaginazione e i caratteri, la carta, tutta roba che conta!, boh, fatto sta che Le plaisir du texte è stato una rivelazione. Avevo letto altri suoi libri, in italiano prevalentemente, già dal liceo. Ricordo Miti d’oggi pappato tutto in classe, durante le lezioni, e poco dopo Il grado zero, entrambi in edizione Lerici mi pare, e mentre il primo non mi aveva molto colpito, ovviamente perché ero troppo acerbo, dal secondo avevo imparato molto di più, anche se a proposito di scrittura avevo un altro riferimento, Derrida, sul quale avevo già deciso di fare la tesi ancora prima di iscrivermi all’università. Anche cose come queste avvengono. Le fissazioni che si hanno a quell’età! Bizzarre. Marchiate a fuoco! Poi restano solo le cicatrici. Il marchio. Vero cuoio. O magari no. In fondo, ma restano. Non le smuove più niente e nessuno. Accipicchia! Per cui Barthes mi sembrava sorpassato. I riferimenti orientano e accecano. Cercavo solo ciò che volevo trovare, o gli immediati paraggi. Solo ciò che mi importava, che mi premeva già prima cioè. Il resto quasi non lo vedevo, a parte quando leggevo poesia e narrativa. Un po’ come Barthes guardava le fotografie. Così è stato anche per gli Elementi di semiologia, che però devo aver letto all’università. Un ripasso, mi è sembrato. Nessun’altra traccia, se non che ero d’accordo sulla tesi di fondo. Bontà mia. Tutti i linguaggi in subordine e relazione a quello verbale, e così il loro studio. Ben detto! Anche queste sono cose che ti segnano. Vizi d’origine. La radice! Marcita quella, marcisce tutto il resto. Op!, e sei fregato per sempre. E così è stato per me. Pazienza. Mi ha fregato ben altro, poi. Di nuovo pazienza. Per Kafka, se non sbaglio, la pazienza è la virtù più grande. Per altri no. Io mi sono ritrovato a esercitarla tutta la vita. Ma con che risultati non saprei. E’ una citazione di Ornella Vanoni. Ci mancava anche questa! Ancora pazienza.
Ma io non dovevo scrivere di Barthes? Non importa. Avanti. Le plaisir du texte è stato la rivelazione di ciò che già sapevo, ma era bello sentirselo confermare in modo così autorevole e convincente. Ciò che già praticavo e credevo di sapere. Potenza degli equivoci! Ciò che ho creduto di sapere già, mentre leggevo quel libro. Qualcosa che autorizzava le mie debolezze. Non cerco altro. La debolezza, il piacere, di leggere tutto quello che mi andava e come mi andava. L’ho detto che era una fregatura. Borges d’altronde sosteneva di essere più orgoglioso dei libri che aveva letto che di quelli che aveva scritto. E bravo Borges! Però lui di libri ne ha scritti di niente male. E’ stato più o meno ai tempi di Miti d’oggi che ho letto Finzioni per la prima volta. Quella sì che è stata una vera rivelazione! La moda di Borges non era ancora esplosa. Che colpo è stato! Un diretto allo stomaco! Di quelli così forti che capisci subito, anche se sei un ragazzo, che devi tenertene alla larga. Pericolo di morte! Come con Kafka e Beckett. Leggere tutto ma non imitare! La civetteria è insopportabile negli uomini, anche in quelli grandi. Nelle donne dipende. Dipende se la sfoggiano per me, o in generale. Se per me, non mi disturba affatto. Ma può essere incantevole anche vista da lontano. O da molto vicino, o da lontano, tertium non datur. In entrambi i casi in modo esclusivo però. In un caso perché ne sono il destinatario, o il bersaglio, nell’altro perché non lo sono. Dovrei stare zitto, perché io per primo mi affanno a affascinare, quando posso. Le contraddizioni della vita. Resta una debolezza. Tuttavia, quando mi riesce, vedo che gli altri sono contenti. Allora non è del tutto mal, forse. Perché la debolezza diventa la loro. Niente scuse però. Resta anche mia. Vaffanculo.
A volte penso che l’educazione cattolica mi abbia fatto anche bene. Poi passa. C’è questo miscuglio di indulgenza e intransigenza che ritrovo, a volte, anche in Barthes. Intransigente nel suo lavoro e, immagino, grandemente indulgente con coloro che amava. Come potrebbe essere altrimenti? E tuttavia bisognerebbe essere intransigenti anche con loro. Io mi amo? Non ne sono sicuro, a giudicare dall’intransigenza che ho nei miei confronti. Vuol dire che non me lo merito. Gli altri li amo anche senza merito, di solito. L’amore è gratis. Mi piace amare. Con me no, invece. Sarò un cretino! Ma anche l’intransigenza ce l’ho tenue, vaga. Mi fa difetto l’accanimento. Per uno che si occupa di certe cose, è grave. La perseveranza non basta. Barthes invece questo accanimento l’aveva. Secondo me però gli faceva difetto l’abbandono. Secondo me, si abbandonava solo nel privato. E non tanto nemmeno lì. Nel privato più privato, diciamo. Ma in modo molto garbato. Per cenni impercettibili, con dolcezza rattenuta, che capiva solo chi poteva capire. Chi era come lui. Con quella reticenza discreta che ritrovo anche nei suoi scritti quando si avvicina a ciò che veramente importa. Toh, come il sottoscritto e sua mamma. Cribbio, sono proprio in vena di confessioni! Basta però. Per ora. Barthes aveva questo accanimento, questo metodo. Gli dicevano: scrivi di questo, e lui zac!, lo faceva. Scriveva solo su ordinazione, pare. Ma di cose che lo interessavano, sia chiaro. Poteva permetterselo. Se l’era guadagnato. Scrivere su ordinazione, o su invito di amici è una buona cosa. Così uno si costringe a parlare anche quando crede di non avere niente da dire. E’ quasi un verso di Eluard. E magari non ce l’ha sul serio. Se non che, scrivendo, qualcosa ti viene prima o poi. E impari quello che ti importa sul serio. Magari ci vuole tempo, ma se non sei del tutto stupido, prima o poi lo impari. Barthes secondo me l’ha imparato tardi. Non perché era stupido, ma perché non lo era abbastanza. Perché era troppo intelligente e ci teneva a esserlo. Anch’io voglio sempre essere intelligente, ma non essendolo molto, o quanto meno non nella misura in cui vorrei, come Dio per esempio, mi ammanto spesso di stupidità. Me ne incappuccio, direbbero i maligni. Dico e scrivo stupidaggini. Come qui? Non mi importa. Una volta mi sarebbe importato, ora non più. Credo che sia una delle grandi conquiste della mia vita. Un po’ tardiva, ma ce l’ho fatta. Champagne per tutti!
[Luigi Grazioli è nato nel 1951 a Fara Gera d’Adda (Bg), dove vive. Ha pubblicato i racconti “Cosa dicono i morti “(Campanotto 1991) e “Racconti immobili” (Greco&Greco 1997), e il romanzo “Lampi orizzontali “(Greco&Greco 2003, finalista al premio Bergamo). E’ del 2008 il libro di racconti, uscito per Effigie, “Il primo Congresso del Sindacato dei Profeti Viventi”. Collabora a quotidiani e riviste, dal 1999 dirige la nuova serie della rivista «Nuova Prosa» della Greco&Greco editori.]
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