Non sapevo ancora parlare, quattro parole dicevo. Tapta, tumpui, chiumpiti, onci. Tardavo. Ero popolato da segni evidenti e resti di un universo logico-simbolico conosciuto. Tutto attorno vorticavano sbuffi, mugugni, lai, lie e scie monemiche. La langue subiva l’ictus della parole.
Mese: gennaio 2020
CHIODO SCACCIA CHIODO – Angelo Rendo
Dovremmo imparare ad accettare la volontà, il suo assoluto, lasciarla alla luce come una foce visibile al buio. Non avere nulla da dirle, o rimproverarle, su quella cosa della cui esistenza non è lecito dubitare. Quella cosa, ogni cosa, che a noi viene incontro, presa, e non ritorta contro. Da lontano, non si percepisce il detto, e solo l’evento trova modo, tempo e conclusione. Mai si dica perciò È inaccettabile; che lo si pensi, e si cambi strada, senza ribadire il diniego, se proprio non si riesce a fare a meno di tenere la bocca chiusa.
GALLISMO – Angelo Rendo
Il periodo si stinge insubordinandosi, procede lungo studiatissime tappe d’arresto, col solo terminus ante quem a fare il gallo.
PROPAGANDA ‘STA ‘NDUJA! – Angelo Rendo
La retorica di Gipi a Propaganda Live è di bassissima lega, volgare, e muffita, soprattutto. Tutta la tv è di stato. La radiotelecomunicazione è di stato. Restituisce la condizione del paese, cullandolo del suo sé diviso e ghignante.
Sghignazza, ride, la parte buona del paese; intanto, quella cattiva si mangia la ‘nduja.
ETÀ CHIUSA ALLA PAROLA – Angelo Rendo
Triste chi si vede e teme
una tomba
con poche ossa.
Venezia deve essere
spolpata.
PERSINO – Angelo Rendo
Il mondo è bianco, senza più colori. Per quanto sforziamo la vista, non ci distinguiamo più. Nessuno parla. Gli oggetti spariscono, e il metodo, persino.
LA DIVINITÀ DELL’EFFIMERO – Angelo Rendo
Che qualcuno scriva di un altro che scrive o ha scritto è condanna. Dire bene, o male, di qualcuno che ha vissuto, tramandarne la memoria mediando è questo il male. Che ogni ingegno passi senza che alcuno lo fermi. Discretamente io o l’altro renderemo grazie a chi ci ha preceduto, ma non in pubblico: stretto riserbo nel cuore. Che non si sappia del nostro rapporto è quanto vuole la divinità dell’effimero.
QUANDO ZIO SANTO MORÌ – Angelo Rendo
Con voce assai flebile mi disse di dargli il tovagliolo di carta appoggiato sul comodino. Glielo porsi.
Di fronte, la collina di San Matteo, che tutta si mostrava agli infermi.
Quel tovagliolo, conservato ora da qualche parte, servì quattro segni morenti, veloci.
Era la tarda estate del 2005, lo zio stava morendo, ed io lo assistevo.
L’ospedale Busacca ha una posizione invidiabile, accoglie luce da ogni parte, e fedelmente resta alla collinetta che guarda il colle San Matteo, e il centro tutto idealmente abbraccia.
Per chi muore la vista è lancinante e impagabile.
Leggevo, lui ritto mirava, fino a che non si fece prendere da un sussulto, e mi invitò a guardar bene il colle. Vedi la zattera? E vedi la libertà che guida il popolo? Balbettò Delà, Gericò, di lì a poco fu libero. Lasciò la zattera sul pezzo di carta. Entrò nella chiesa sconsacrata.