Il poeta selvaggina (una parte) – di Gianluca D’Andrea

il poeta selvaggina
il poeta selvaggina

In un illuminante saggio apparso su Atelier 53 del marzo 2009 si discute del rapporto tra opera artistica e ingenuità primigenia dell’autore della stessa; sono attraversati “a volo” interi secoli di letteratura e attività dell’arte (si parte dall’Odissea dei viaggi “meravigliosi” per giungere, saltando le stagioni e accennando ad autori decisivi dell’ ‘800 e ‘900, ad una riflessione sull’umana struttura e, forse, essenza – in senso universale).

Prendo spunto dalle idee del saggio per sfiorare un’altra prospettiva, diversa faccia della stessa medaglia, quella dell’artista maturo e “civile” (meglio dire “civilizzato”), uomo culturale, razionale, in un certo senso ovattato. La scelta mi sembra scaturire dal tentativo di integrare (sempre “a volo” o di sfuggita) lo splendore emanante del “poeta selvaggio” con la sua zona oscura (o illuminata?), occupata dal “poeta selvaggina”, l’uomo di mercato, colui che tenta la propria agnizione e la sente come il risultato di un riconoscimento immediato e, a tal scopo, sembra darsi o essere dato in pasto alla società degli uomini.

Nessun tentativo di approfondimento in direzione d’esaustività muoverà la mia penna: si tratterà piuttosto di bagliori e intermittenze, secondo lo stile del saggio originario.

Il saggio e’ qui: http://www.nabanassar.com/ilpoetaselvaggina1.pdf

Canto dei lettori dei Canti del Caos

C’eravamo anche noi al briefing. Eravamo nascosti sotto la scrivania a guardare la Musa e a raccogliere gli assorbenti dilatati di quell’altra fontana. Alcuni chiamavano Pompina, altri Ditalina, altri ancora Bodyna. Qualcuno sussurrava al Gatto pssst, pssst circa un manoscritto. Il softwarista non poteva vederci, era troppo occupato con l’account, poi con la donna dal viso scoppiato. Ma c’eravamo anche noi e li’ siamo rimasti dopo che tutti siete usciti e prima che arrivasse la Meringa. Quando la transazione e’ stata accettata, nel prima dopo che era’ sara’, noi stavamo discutendo con il pestatore di merde di cui avevamo letto su un giornale, visto delle foto.

Se non ci siamo mossi, se nel raccoglimento e nella convergenza verso l’annuncio noi mancavamo, se Antinisca pur ci chiamava senza risposta, e’ perche’ noi effettivamente mancavamo, eravamo infatti la sostanza mineralizzata e non ancora increata nella testa del Matto, eravamo lo schizzo increato e investito prima ancora che il Matto increasse se stesso, prima ancora che la Musa aprisse anche a noi il suo letto arlecchino. Noi trapanavamo lo studio dell’ultimo snuff movie mentre Lazlo dava al Matto il lanciafiamme. Noi reggevamo le tubature della Citta’ di Sperma mentre Dio, un Dio per ogni Popolo, un Dio per ogni miliardo dei cento cinquanta ottantavanta triliardi di biliardi di Popoli, mentre ognuno di questi Dio increava increa increera’ il suo Matto. Noi che reggiamo i tubi, noi circondiamo nel buio della luce fermata il Matto pronto all’uscita che era’ era sara’, noi a nostra volta seguivamo Aminah assieme al prete, noi gli arti rigenerati di Aminah mancata che era, noi padrifigli attoniti in questo increar per via di schizzo minerale in sottopancia tutto scopato e insanguinato, noi non lo vediamo, non ci serve, e’ una maschera di porcellana che qui non usa piu’.

E dunque noi, quando Lanza e’ tornato con il gelato, abbiamo avremo diciamo solo: gemmazione! Il pianeta che e’ stato transitato era uno e si e’ fatto due, poi quattro, poi otto, poi sedici e sessantaquattro. Ma questo pianeta transitato, investito, increato, poi cos’e’? E’ un battito di ciglio, e’ quello che abbiamo cercato per anni da quando siamo nati in Egitto, noi imperatori di giustezza, noi gia’ increati nel Matto quando ancora quello pestava le merde. La transazione e’ avvenuta.

Profili

La piccola preda sfugge alle pinze: schifata, dopo essersi detta tanto chi sono? Quale frutto, che il gonfiore illumina e palla.

Il fine malchiuso nel vistoso spacco.

O del coltello che incardina la porta falsa.

Ché chi conserva, spadroneggia.

Al malo anno ridotto al cuore, perché basta.

Spremendo da fuori le narici e girandovi stretti dentro, la strada si allunga.

Plissè e gessato con termoregolatore alla tasca, tenuti in conto, tessuti tormentati per l’orrore.

Tiene sulla riga l’alto

l’aria che là non entra

turbinate tu devi

venire com’asta leonia.

Mi giro solo. E la signorina, col petto mafioso e l’occhiale, carica cartelle. C’è un dente di cinghiale lamato fresco, unito al collo luminoso di paillettes, tra noi. L’entrata dell’una nell’uno, la scomparsa dei due.