La notte sento distintamente rodere il legno in profondità. Suppongo si tratti della polpa saporita e addormentata di un qualche legno assorto che regge la casa; suppongo si tratti del cuore tenero e indifeso del legno acerbo, il lamento vegetale del legno stanco, il grido di dolore del legno ferito a morte, colpito nello scorrere amaro del suo midollo. Il rumore ruvido e scricchiolante, vagamente polveroso, proviene da una lontananza fosca che non riesco a identificare ma che di certo ha un suo luogo specifico d’origine, una fonte inequivocabile di dolore da cui si dirama libero un monotono e prolungato lamento. In ogni caso vigilo seguendo la mia naturale e duttile curiosità, anche se discutibile, verso tutto ciò che è motivo, magari indiretto, di spavento, d’angoscia o più semplicemente di panico diffuso. In certi momenti, quando la situazione sembra sul punto di disintegrarsi, il rumore confuso che percepisco assomiglia a sabbia triturata da denti solidi, a carta velina manipolata bruscamente, a oggetti metallici spigolosi che cadono e rimbalzano su pavimenti lucidi. Ciononostante il rumore è sopportabile (non posso negarlo), mi lambisce il corpo smangiandomi solo leggermente la parte sorridente della faccia, mi penetra a piccole dosi avvelenandomi il sangue, si mescola viscido al sonno nel quale mi sono adagiato con fiduciosa e futile incoscienza. Questa progressiva e per molti aspetti sorprendente e devastante azione corrosiva che non trova altro rimedio se non nella sua tacita accettazione passiva, proviene senz’altro, stando alle prime ipotesi, da un oscuro, sommario e imprendibile roditore (almeno credo) gonfio di schiuma, di denti, di parassiti e di cieca rabbia dominatrice come solo i roditori sono gonfi quando invadono con la forza e l’inganno il territorio altrui. L’ipotesi è francamente banale, addirittura ridicola se non fosse ovvia e assolutamente disarmante, ma è la sola che conosco per ora, la sola che mi interessa, l’unica che mi convince. Comunque mi piace enormemente l’idea, indiscutibilmente perversa e labirintica, che un giovane roditore occhialuto, magro, segaligno, dinoccolato, scalzo e dunque lento nell’incedere, tragga con voluttuosa sensibilità musicale parole nuove dal legno, suoni dolci e malinconici, sapore e odore intensi mai percepiti prima, fors’anche languori amorosi toccanti e altre preziosità cosmiche tutte rigorosamente stridule, dissonanti. E’ successo così: una notte mentre tardavo a prendere sonno ho sentito chiaramente un roditore solitario sminuzzare con rabbia il legno stagionato delle travi come fosse polvere bianca immacolata; sulle prime ho ignorato lo strano rumore altalenante pensando che provenisse direttamente dallo schianto massiccio e simultaneo di tutte le mie vecchie ossa sotto il peso insostenibile degli anni e degli affanni; effettivamente quello stridulo fenomeno sotterraneo poteva celare miserie e tristi presentimenti, ma la provenienza, quella vera, andava senz’altro cercata nel ventre molle e spappolato della casa e più precisamente nelle sue viscere profonde che, del ventre molle e spappolato, sono la parte per eccellenza più tenera e appetitosa, la più ambita. Infatti i roditori di ogni epoca e stagione, (soprattutto quelli storici) nel putridume più sudicio e schifoso ci sgrufulano beati e deliranti, con i loro denti indistruttibili, tutti perfettamente bianchi e sani, duri e flessibili, smaglianti come sorrisi fin troppo esibiti. Naturalmente, chiunque sia urtato da tale aggressiva arroganza sfacciata, finge di ignorare lo spiacevole inghippo, arriccia il corpo e il naso sotto le lenzuola come fossero senz’ossa: solo carne magra e flessuosa come un gomitolo di lana. Dormo male, ma il presunto roditore dorme peggio di me dovendo lavorare in condizioni disumane (direi) tutta la notte, in profondità e a temperature impossibili, senza mai vedere la luce del sole e delle stelle. Con i suoi denti assassini rimastica avido persino il legno già masticato più volte come fosse bava dolce trovandolo, al gusto, sempre di primissima qualità; insomma un essere immondo che scava subdolo nella polvere del legno, identificarsi definitivamente con la polvere di legno, vola con la polvere del legno, e poi sporca dappertutto senza pietà. Tenere a bada un essere così spregevole e repellente è un conto, tenere a bada un mucchio di polvere sporca e maleodorante è un altro: se non capisci la differenza sostanziale tra le due cose non capisci il problema. A questo punto l’animale (o presunto tale) ha percorso in galleria (a una certa profondità) o fuori galleria (lungo i muri), a modo suo, un bel tratto portandosi a ridosso della mia paura meglio custodita, senza peraltro attaccarla frontalmente, il che mi lascia sul momento perplesso e sconcertato, senza parole. E’ troppo astuto (mi dico) per essere un semplice roditore notturno qualsiasi ed è troppo ingenuo per essere qualcos’ altro, per cui vive conflittualmente, cioè male, questo suo inconfessato dramma esistenziale; ora è di qua, ora è di là, non si fida di nessuno, non si sente mai appagato, rode ma ciò lo disgusta, non sa cosa attendersi dalla vita, quindi rode senza metodo. Psicologicamente parlando mi lavora ai fianchi con animalesca incisività, mi spinge sull’orlo del crollo nervoso, mi deprime fino a stordirmi; ma io non ci sto, non assecondo la sua imbarazzante follia, cambio letto ogni notte con grande rapidità, e qualche volta cambio anche casa fornendo generalità sbagliate, pratico luoghi sconosciuti che probabilmente non esistono, non ancora perlomeno, ma ciò è irrilevante: esco di casa più di quanto non rientri e questo dovrebbe deporre a mio favore (almeno numericamente parlando). Scopro persino certe nostre incredibili affinità di vita: anch’io tendo con gli anni a rodere gli oggetti che più mi sono cari con inusitata veemenza (un po’ mi vergogno), come lui scavo gallerie lunghe e tortuose nei terreni dei vicini di casa, come lui e forse meglio di lui produco disastri sconvenienti ogniqualvolta muovo un passo azzardato: in pratica siamo la stessa cosa, solo che lui è più diffidente e cocciuto di me. L’animale, nel diuturno lavoro di scavo, mi sottrae ossigeno, mi priva delle mie preziose bollicine d’aria sgonfiandole, per cui mi limito a effettuare respiri smorzati, in sordina, mentre il sangue un po’ mi va alla testa e un po’ scende, la vista si accende e si spegne a intermittenza, le forze mancano e ritornano, la vita si vede e non si vede, ma per ora non corro seri pericoli immediati, ha tutto l’interesse a tenermi quanto meno in uno stato comatoso visto che senza di me anche lui si estinguerebbe all’istante e per sempre. Il roditore (o presunto tale) avanza a testa bassa, scontroso, iroso, frantuma tutto ciò che trova sul suo percorso peraltro non dei più facili, fa polpette della mia paura, percepisce a distanza l’odore lungo e nauseante della mia paura, memorizza tutti gli odori lunghi e nauseanti delle paure che stagnano nei dintorni, li riconosce ad uno ad uno a colpo sicuro, li seleziona con passione e pazienza usandoli nel modo più opportuno: in queste analisi minuziose è formidabile e io lo ammiro follemente. Per non sentirlo rodere mi tappo le orecchie con tappi di cera, mi copro la testa con un berretto di lana grossa che abbasso fino al mento, giro innumerevoli volte la sciarpa intorno al collo guadagnando subito una sordità ovattata quasi perfetta, invidiabile. L’animale (se c’è) per giungere strisciando al cuore del mio cervello duro come il marmo, sordo come una chiesa vuota, scava gallerie in tutte le direzioni incontrandosi qualche volta, fa brillare piccole mine indolore, fa saltare piccoli ponti non robusti, supera modeste asperità anonime, senza peraltro essere certo di trovare subito la via giusta, quella che porta al cuore del problema, sicché scava come un ossesso, sonda il terreno con tocchi lievi, procede per ipotesi, non lascia nulla di intentato. A tratti si smarrisce, l’incauto, nelle sue stesse complicanze teoriche che lo conducono, come è naturale, diritto verso dubbi e ripensamenti, addirittura verso dietrofront tanto improvvisi quanto vergognosi e umilianti. La precauzione più vistosa che prendo in questo momento critico è quella di ripararmi dietro un vecchio muretto di cemento alto pochi centimetri con una feritoia in mezzo; in pratica pongo un limite invalicabile spaziale e temporale tra me e lui, gli taglio la strada a zig zag, gli mando all’aria i suoi piani più sensazionali, gli spunto l’unica arma efficace di cui dispone: seminare il caos in casa altrui in circostanze poco chiare. In realtà il rumore che sale dal fondo è talmente assordante e vischioso che neppure il roditore (suppongo) riesce a capire perfettamente se stesso con buona approssimazione acustica. Di notte, ma anche di giorno, rode tutto ciò che gli capita a portata di denti, se potesse roderebbe anche i suoi lunghi denti a cominciare dalle punte lucenti, cioè dalla parte più tenera e indifesa, per poi proseguire selvaggio e spietato con il resto. Allora mi dico in un momento di virile consapevolezza, dovrà passare sul mio cadavere quel maledetto animalaccio schifoso, fetido, con il suo orrendo fiato puzzolente, la sua micidiale bocca stracolma di denti e di germi d’ogni dimensione e forma, lo sguardo piccolo e pungente, i piedi di porco, e tutto il resto, e io sarò lì con il bastone nodoso in pugno ad aspettarlo appassionato e ingenuo, insinuante nel mio candore assassino, innamorato fors’anche, biologicamente suo per sempre. A meno che non si tratti di un inganno affettivo doloroso, di una illusione passionale insopportabile, di un ingiusto equivoco d’amore, perché certi animali dal pelo folto ma sottile prima ti lusingano con offerte sentimentali irresistibili, poi ti mollano di schianto al tuo destino senza nemmeno fornire uno straccio di spiegazione plausibile. Ammetto, comunque, che non è agevole vivere o convivere con un animale (o presunto tale) dentro di te, che ti dilania le carni con scientifica precisione come fosse un chirurgo sadico e scatenato, ti scarnifica dal di dentro un po’ alla volta, senza dare troppo nell’occhio, di notte preferibilmente, quando tutti dormono o guardano dalla finestra il cielo nero in movimento senza fare commenti. Il frastuono emesso dalle narici della bestia mi ossessiona a tal punto che scaglio (idealmente s’intende) con gesto definitivo le orecchie quanto più lontano possibile, non le rivoglio più, non le sopporto più, dono spontaneamente gli organi usurati quando sono ancora caldi e in buone condizioni, anche se mortalmente stanchi, ai più bisognosi, poi cedo, come mi accade spesso, alla disperazione, alimento mucchi di disperazione, concentrati densissimi della migliore disperazione possibile, sembro la disperazione stessa fattasi persona, sono la disperazione in persona. Intanto l’animale sfonda le ultime mie disperate difese esterne, per cui tento una rapida sortita sulla destra (rispetto a lui che è mancino) senza sperare d’essere troppo fortunato (potrebbe imbrogliarmi), ma lui forte dello stesso ragionamento però fatto all’incontrario, tenta una sortita dalla parte opposta (rispetto a me), sicché ci evitiamo civilmente, come se non ci fossimo mai conosciuti né incontrati prima d’ora, ognuno va per la sua strada persuaso di aver avuto buon gioco sull’altro. Effettuo anche, così tanto per effettuare qualcosa di concreto, un cenno di ritirata strategica ma senza convinzione, infatti stavolta non mi riesce come al solito: quando ti senti braccato mortalmente le ritirate strategiche non ti riescono mai, meglio evitarle, se le eviti ti riescono subito e meglio. Del resto la mia sortita è più tattica che strategica, preferisco spaventare o allarmare l’animale tossendo senza mettermi la mano sulla bocca, raschiandomi più volte la gola ruvida, schiocco lingua e dita della mano con colpi secchi, ma è chiaro che si tratta di palliativi, di momentanei sedativi, sto giocando una complicata partita impari contro un avversario beffardo e perplesso. Le prime difese della casa vengono travolte con relativa facilità ma ciò, come spesso succede quando si parla di atteggiamenti mentale improntati alla massima apertura, permette solo in parte di valutare la situazione che di fatto si è venuta a creare e delle relative conseguenze. Cade come neve fitta l’intonaco dei muri ammucchiandosi sul pavimento, mentre si formano le prime crepe nelle strutture portanti dell’edificio; i quadri (i peggiori per fortuna) oscillano pericolosamente, oggetti di vetro vanno in frantumi per primi, quelli non di vetro vanno ugualmente in frantumi per primi, è uno stillicidio di piccole e grandi disgrazie epocali che non riesco ad arginare, che non saprei arginare, che non voglio assolutamente arginare. Per ora i danni materiali sono lievi, irrisori, si valutano con un’occhiata rapida, benevola e un sorrisino di circostanza; quando l’intonaco precipita dai muri come una slavina in casa, allora il danno si fa tangibile, concreto, per un momento senti che tutto è andato perduto e che tentare di salvare il salvabile è semplicemente velleitario o addirittura pazzesco (più pazzesco che velleitario). I muri nudi scrostati trasmettono una energia oscura e gravida della paura, mentre un destino malvagio resta immobile nei paraggi pronto a colpire alle spalle con le armi della vergogna. Cade tutto, le travi scricchiolano sotto il peso degli eventi (e degli anni), gli infissi cedono a loro volta, la desolazione riempie la casa dei suoi ninnoli preferiti: comincio a preoccuparmi seriamente, mentre il frastuono (o quello che io scambio per frastuono) è tale che non riesco a esprimere compiutamente il mio sdegno (che in parte ha origini romantiche), né la mia rabbia più duratura, allora ammutolisco offeso ribadendo ancora una volta la mia estraneità ai fatti che mi stanno travolgendo mio malgrado. Crollano pezzi di muro, i muri vecchi sottili sono i primi a crollare sotto la spinta micidiale del rumore che preme da sotto gonfiandosi come fosse un’enorme testa d’ariete viva. Attraverso i muri sbrecciati o collassati su se stessi, metto fuori la testa, esco indenne dalle macerie, percepisco l’entità del pericolo incombente, me ne faccio un’idea sommaria ma attendibile, constato, esamino, verifico, soppeso e poi traggo precise conclusioni. Per il roditore (suppongo) rappresento anch’io un incubo da stanare quanto prima, un intruso da cacciare senza pietà, uno straniero da sbranare vivo, un ruffiano da sequestrare e uccidere con tecniche crudeli e mai abbastanza deprecabili. La casa comunque è andata persa, è andata distrutta in un attimo, in un attimo è andata in polvere, addirittura mulinelli fastidiosi di polvere, vortici fruscianti di polvere, nuvole alte di polvere, immani trombe d’aria di polvere, catastrofi enormi di polvere, polvere dappertutto senza pietà. Mi siedo disperato e singhiozzo come un disperato seduto sulla propria casa ridotta a un misero mucchietto di instabile polvere secca senza nessun valore; prima però bagno con acqua fredda la polvere instabile affinché la casa non si disperda definitivamente nell’aria prendendo il volo. Penso al grosso roditore (o supposto tale) che si mangia gli spazi lasciati liberi da me controvoglia, li mangia e li occupa credendosi il nuovo legittimo proprietario e despota, ma si sbaglia (l’intruso), potrà mangiare il mio corpo, il mio odore, il mio coraggio e tante altre cose commestibili e non, ma mai la mia coriacea e scorbutica dignità. Distrutta sistematicamente la casa, il roditore (io insisto nel chiamarlo così) si trova all’improvviso senza nulla tra i denti, senza cibo e senza speranze, senza una continuità logica con il mondo, con lo stomaco vuoto e desolato, con l’esistenza annientata. Ma ciò è solo una innocente speranza, quasi un sogno ad occhi aperti se non addirittura un mite augurio, un timido auspicio; in realtà il roditore assassino prende fiato dopo l’immenso boccone che si è ingollato, si concede il lusso perverso di una breve pausa riflessiva, tira un respiro prolungato in santa pace, si abbandona a una pacata gloria provvisoria. Ne approfitto per ripararmi dentro una fittissima foresta tropicale persuaso che solo lì e in nessun’altra parte del mondo possa trovare un nascondiglio migliore e più sicuro, una protezione più infallibile e geniale contro il dilagare disumano del rumore di denti del roditore che non mi concede tregua. Non scelgo una foresta qualsiasi fitta fitta (ho le mie idee al riguardo), la prima che mi capita sottomano, non mi accontento della prima impressione, intendo assolutamente scegliere con discernimento, verificare ogni cosa, controllare la disposizione degli alberi, modificare eventualmente i corsi d’acqua, verificare le precipitazioni annuali, esprimere un parere sulle cose più urgenti da fare senza pretendere peraltro che sia vincolante. Se deve rodere una foresta intera, mi dico, deve almeno avere vita difficile, deve cominciare dal sottobosco spinoso anche se tenero e vulnerabile, deve piluccare i primi legnetti secchi appuntiti che trova, poi le foglie cadute in autunno, le erbe marce, e solo in seguito dare fondo alle sue diaboliche capacità di devastare intere macchie di verde dall’incommensurabile e irresistibile bellezza. Così di migliaia di alberi selezionati (grandi e grossi) restano solo magre ossa scarnificate rivolte penosamente verso l’alto, restano paesaggi un tempo famosi e floridi, un po’ fiabeschi, rosicchiati e indeboliti alla base da ripetute violenze, poi non restano neppure quelle; viene raso al suolo tutto con una animosità inspiegabile, una violenza primitiva, sicché la maledizione cade su boschi e foreste, colpisce fiumi, laghi e paludi, affossa strade e altri percorsi obbligati, persino le opere artificiali costruite dall’uomo e destinate a durare molto (come muraglie, canali e cose simili) spariscono immediatamente dalla faccia astiosa della terra. Nondimeno finché resterà (mi dico) un solo albero bello, robusto, svettante (ancorché brullo e slavato) su questo instabile mondo, mi sentirò tranquillo e persino un po’ confortato da quel verde speranzoso che si protrae verso il cielo e ne trarrò implicita forza spirituale e anche un po’ di coraggio supplementare. Capisco però che il roditore (ormai lo chiamo così) mi sta togliendo, con la perfida sistematicità che gli è propria, il terreno sotto i piedi, mi risucchia verso il basso, mi tira per la giacca, ma io procedo ugualmente incurante del pericolo, visibilmente impaurito, più leggero del solito. Quell’animale mi toglie il sonno, l’entusiasmo, la voglia di vivere: sa esattamente cosa togliermi e come togliermela, va sul sicuro, e poi mi lascia senza nulla addosso; ho la penosa sensazione che conosca molto bene le mie abitudini e più ancora i miei vizi più pelosi, non c’è dubbio che mi spia, ma non capisco come. Non che voglia giustificarlo alludendo alle sue qualità migliori: serietà, instabilità, perseveranza, coerenza, ecc., ma forse non sarebbe azzardato da parte mia rabbonirlo proponendogli falsi scopi interessanti, metodi di lavoro inefficienti, progetti ambiziosi ma fuorvianti, ma forse non è il tipo che si lascia abbindolare. Dopo avermi tolto (strappato) il terreno sotto i piedi e tutto il resto, mi assedia da vicino, sempre più da vicino, mi tiene sotto tiro, mi soffoca letteralmente obbligandomi a cercare scampo nella mistica più rarefatta e inconcludente, che è notoriamente l’ultimo rifugio sicuro nel quale trovare conforto prima del suicidio premeditato. Da ciò si arguisce che la situazione si è fatta grave, per cui reagisco istintivamente voltandogli le spalle, lo umilio senza degnarlo d’uno sguardo, lo emargino simbolicamente, lo ignoro, lo metto in condizioni di non nuocere, sia pure per poco: in pratica lo castigo. Pongo tra me e lui quanto più spazio mi è possibile nel minor tempo, procedo a grandi falcate con o senza l’aiuto delle ali, fuggo esile e incerto nel caso mi tocchi saltare qualcosa che mi spaventa, tipo fossi asciutti, canali di scolo e piccoli avvallamenti di poco conto su cui potrei anche chiudere un occhio. Effettivamente riesco a porre tra me e lui una distanza di sicurezza che a naso reputo sufficiente, così mi concedo anch’io un meritato riposo nel corso del quale metto i vestiti ad asciugare, mi soffio il naso due o tre volte, fumo la mia solita sigaretta che mi fa male ai polmoni, me la gusto con la giusta calma assaporandone il meraviglioso sapore di niente, poi metto ordine tra le scarpe, spengo la sigaretta con qualche difficoltà motoria, metto fine ai piaceri terreni e torno alla realtà. E’ indispensabile che mi ponga in salvo (mi dico), che corra come un pazzo per distanziare l’orrendo animale, che corra con tutte le mie forze, che corra a perdifiato con la disperazione nel cuore, solo così avrò qualche speranza di salvezza, e forse neppure quella. Per bloccare sul nascere le mie velleità, il roditore (che non è stupido come si può supporre) comincia a rodere il mondo intero intorno a me fingendosi più affamato e ingordo del solito. All’inizio il pasto è sostanzioso e accattivante giacché a tutti piacerebbe mangiare il mondo in tondo almeno una volta nella vita, in quanto contiene vitamine e sali minerali in abbondanza, ma col tempo ci si nausea come accade con le cose prese in eccesso. Metà mondo il roditore la mangia subito, l’altra metà, quella sulla quale mi trovo io rifugiato, la mangerà in seguito e comunque quanto prima a giudicare dalle sue intenzioni non proprio rassicuranti. Mastica cose sgradevoli (rospi) se non addirittura velenose (mosche), beve molta acqua piovana (circa tre litri al giorno e fin qui ci siamo), mangia e sputa in continuazione, non è certo un esempio da imitare né da prendere a modello, divora enormi porzioni di terre incolte, calpesta tutto ciò su cui passa, fa strage di animaletti più piccoli e involuti di lui e questo è un bene insperato per l’ecosistema che in tal modo prospera su cadaverini ancora caldi. Gradisce orti e campi seminati da poco, che puzzano ancora di fragrante concime, di sudore e di urina, che assorbono l’acqua piovana con l’avidità multipla di un tempo, che sono accarezzati al tramonto da un venticello tiepido e sensuale che fa accapponare la pelle dal piacere perverso che dona. Per quello che mi riguarda mi metto in salvo occupando gli spazi ultimi non ancora divorati dalla furia bestiale dell’ingorgo e oscuro animaletto. Divora, con una facilità stomachevole che gli invidio, mari e monti, deserti pietrificati, savane e isolotti piatti, laghi abbandonati, magnificando un palato robusto e un appetito insaziabile, a tratti perfino vergognosamente imperioso, ma molto interessante per certi aspetti. Di conseguenza gli spazi si restringono all’indispensabile, vivi sempre con il timore di mettere un piede in fallo, resti per giorni in equilibrio su una sola gamba, non ti muovi e non respiri, non ti senti sicuro da nessuna parte, non puoi formarti una famiglia numerosa procreando figli vivaci in quelle infami condizioni, ti senti profondamente e stupidamente inutile e mai come in quel momento privo di casa e di affetti stabili, rinunci persino alle consuete fantasticherie erotiche pomeridiane, ne fai volentieri a meno. Infine, come prevedibile, il roditore scatenato rode me in prima persona (me l’aspettavo per la verità), rode proprio me nel senso più pieno e disgustoso del termine, mi rode con tutte le ossa e la carne rimasta appiccicata, nonché i peli fulvi, provando (suppongo) sensazioni contrastanti nelle quali predomina però il disgusto diffuso che non è molto dissimile dal mio. Non ho nessun dubbio circa le sue segrete intenzioni: mi vuole umiliare fino in fondo, cioè penetrarmi a sangue freddo, senza ricavarne piacere, lo capisco da tanti indizi apparentemente insignificanti e forse ingannatori, per esempio gioca con me al gatto e al topo, abusando non poco della mia pazienza in genere assai limitata. Quel gioco comunque non è la mia specialità, non brillo interpretando bene parti perdenti, sebbene certi miei limiti esaltino oltre misura quelli del mio accanito avversario. Senza un mondo reale stabile e duraturo che mi sostiene quando ho necessità, non posso neppure tentare l’ultima disperata fuga che mi porrebbe un salvo definitivamente. In ogni caso venderò cara la pelle, non la cederò facilmente al mio nemico storico, non avrà vita facile con me finché avrò un respiro in bocca per nutrirmi. Senza un mondo visibile e concreto a cui appoggiarsi nei momenti di massima angoscia, anche per lui – implacabile e disumano nello stringere i tempi – la faccenda si complica enormemente rischiando di vanificare in un momento tutti i suoi sforzi preliminari; resterebbe all’improvviso senza un mondo su cui stendere, con espedienti orrendi ma d’indubbia efficacia, il suo fresco dominio, la sua spietata dittatura. Può mangiarmi in un solo boccone, è vero, mentre spicco un salto disperato e ardito da un niente all’altro del mondo superstite, ma non potrà mai vantarsi con chicchessia di avermi afferrato al volo come si fa con i corpi più leggeri e trasparenti dell’aria. Mi vedo naturalmente con singolare realismo mentre mi afferra alla gola e mi inghiotte in un boccone non senza qualche problema di digestione essendo io, di fatto, molto più grande e ingombrante di lui, oltreché più intelligente e spiritoso. Ricavo subito una sensazione di evidente schifo morale e materiale entrando a fatica, facendomi largo con l’esterno dei gomiti, nella sua viscida pelle, nel suo stomaco barocco; più che altro provo una sensazione improvvisa e brutale di freddo che mi entra rapida nella pelle, mi entra dentro le ossa. Nondimeno mi lascio scivolare verso il basso come un peso morto, verso le parti anatomiche più aggrovigliate e incomprensibili del suo corpo, verso le sue giovani e selvagge vergogne. Lui ha mangiato me con sontuoso appetito ma io, a questo punto, mi rifiuto di stare al gioco, preparo la mia vendetta brutale e spietata: mangio lui dal di dentro con una voracità che mi è quasi sconosciuta, e con ciò ristabilisco una parità biologica tra noi due altamente precaria e meritoria, profondamente giusta, gravida di interessanti conseguenze imperiture.