
Il nero, vuoto e montuoso Peloponneso è ad una stretta di mano da Catania. Dall’alto, è una casa del cielo.
Un’ora e dieci per l’Attica. Atene. E il fondo, silenzio, nel lindo sottopasso del Venizelos a Spata.
Atene, ano d’Europa, e Grecia – panno usato e scosso da irresistibili venti occidentali – che teme, che desidera le coste turche, contro le quali impatterà, mentre le isole Egee, sconvolte da un ciclone indomabile, tentano di frenarne lo schianto, a guardar bene carta e forme.
Più l’occidente s’avvicina, meno si compattano le terre, e più l’oriente scarica le colpe al mezzo.
Rimane la rovina, la superba decadenza, l’angusto sentiero dell’abisso metafisico dentro quei volti strizzati e composti. La metro è un grande banco di prova, aiuta. Presa all’arrivo e mai più lasciata. Nessuna lingua straniera nelle viscere della terra. Gli Ateniesi covano il lutto. E da siciliano prendere parte all’ininterrotta processione dei treni è stato naturale.
Lo sguardo non è libero di vagare, come nei paesi dell’Europa del nord, ma deve dar conto all’umanità circostante. È per questo che non c’è più spazio. Atene manca. Secoli e secoli di esistenza non possono che condurre dritti alla tomba. Il tempo non batte più, come del resto se ne sbatte dell’Italia, il tempo.
Atene manca mi diceva Adriana. Certo, mi son detto, manca della morte, che la regalità sta apprestando per l’immondo futuro, o per il mondo futuro, abiotico.
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