
Parevano premere delle personae in “Bambino Gesù” (2010) di Daniele Mencarelli; ciò che presumevo è venuto via via materializzandosi. Ben si può dire che – dopo, appunto, “Bambino Gesù” del 2010 e “figlio” del 2013, entrambi pubblicati per nottetempo – “Storia d’amore” (2015), apparso nella collana pordenonelegge di Lietocolle, rappresenti la chiusura di una trilogia. La lingua di Mencarelli si trattiene a fatica sul bordo spesso della poesia.
Non sono però sicuro che questa raccontata sia una storia d’amore. Ci sono la ferocia, la rabbia, il lutto della carnalità. Ci sono le slogature della riluttanza a raccogliere un più alto grado d’amore, che qui è nascosto nel maiuscolo di quel “Lui”, è vero. Ma l’intreccio dei piani risulta pretestuoso. La vita è sempre dopo, mai prima; la volontà di riannodare le fila è compito del romanzo, laddove la poesia invece trema, sonda e acquista forza e sapere nella perdita.
Mencarelli intende raccontare una storia, ma la corteggia troppo; e il ritorno ad un evento assai andato gli comprime la voce al punto da caricarla oltremodo, ridurla a replica di un dire che nei precedenti libri subiva la necessità di un tempo tutto incarnato e in sé risolto, mentre ora il rischio è quello di attestarsi nei pressi della forma-canzone.
Nascosto dalla sigaretta
cerco qualcosa sul tuo viso,
magari saperlo cosa di preciso,
intero passo ogni lineamento
ogni tratto da orecchio a orecchio
da fronte a mento passando per la bocca
fino al collo liscio e giù alle spalle,
ma quello che di te non so
nulla di più riesco a sapere,
mentre tu con le tue amiche
a discutere di storia da studiare
di antichi da conoscere a memoria
neanche fossero tra noi ora,
tanto ti è cara la questione
che vibrano le labbra e il viso
da dolcezza a fiamma viva
forza celeste dentro l’iride.
Mi distrae una tosse acre
un sapore plastico alla gola,
il filtro della sigaretta non si fuma.
Il fuoco minimo di una sigaretta: uno schermo. Il pensiero poetico è preda di una carne dopata, ogni sintagma fortemente interiorizzato e digerito, dal sapore dolciastro. Come se la voce-esca venisse a tal punto portata all’indietro da giungere dentro lo specchio lenta e solo a fatica trovasse il mare.
E’ sempre l’animo creaturale a fare Mencarelli, seppure in minore stavolta, con ricorrenze talora lancinanti, salmi nascosti in invisibili bolle di nero, come in questo caso:
Scendi dal bus carnaio
e una voce da dentro esplode
punta dritto all’azzurro altissimo
al cielo che diventa spazio
voce che urla una parola sola
parola sentita parola toccata
Grazie ripetuto Grazie
in eterno allo sfinimento Grazie,
ma chi per la tua carne bionda
per l’incendio che fai scoppiare
fino al mare lontano una linea
chi ringrazio per il tuo nome
per la dolce voce luminosa
per il viso amato tuo viso
chi posso inginocchiato ringraziare?
Tuo padre autista brav’uomo
piccolo di fronte stempiata?
O tua madre donna di scuola
maestra di classi d’asilo?
Perché sento più grande di loro
gigante il mio grazie?
Ma chi o cosa è così grande?
E se fosse niente da ringraziare
come si ringrazia il niente?
La terzultima delle sette sezioni di cui si compone il libro è la più flagrante; iniziamo a sentire il riso, perciò deflagra in più alta unione il risicato passo indietro sul quale Mencarelli ha tentato di fondare il poemetto.
Non è il mio inferno
quel regno di pena e fiamme
minaccia ai bambini sul più bello,
il mio demonio è una mattina
scolorata dal cielo alle persone
tu di chilometri lontana
in gita con la scuola per l’Italia,
io scarpa senza la gemella
buttato da una parte sconto il tempo.
Non è teatrale il mio demonio
non è mostruoso non ama il fuoco
lui gioca a svuotare le promesse
ad alitare il suo comandamento
tutto il suo verbo in un solo ritornello
tre parole piantate in mezzo agli occhi:
Non rimane niente, non rimane niente,
di questo tempo di tutti i tempi
di tutte le madri le mani dei padri
del tuo viso inciso nei giorni
non rimarrà che il niente,
siamo un urlo nello spazio
per caso viventi per caso amanti
disordine è il padre da onorare.
Questa è la terra dell’inferno
questo niente da tramandare
niente da difendere niente da sperare,
ti prego fai presto, torna,
senza di te sono meno di un disperso,
io senza il tuo neo come mi oriento?
La donna-stampella, la cui ombra si proietta alta lungo la Scala.
Hai dato nomi al magma
incendiato il nulla con la luce
nell’acqua sorgiva dei Tuoi mari
ti sei specchiato e quel che hai visto
vive sul suo viso di ragazza,
il sangue assaporato dal suo dito
è del Tuo colore la Tua razza,
lei è Tua figlia prediletta
lei è la Tua terra migliore,
come ogni umano a ben vedere.
Questo noi siamo, questo noi valiamo.
E così la poesia di Mencarelli si radica a terra, fronteggia Montale, per poi, inaspettatamente, nella penultima sezione, mettere le ali, gigioneggiare, sognare, premere sul basso ininterrotto popular fino a che non piomba la lettera dell’amata, Anna: la ferita si richiude, il poeta scompare.
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