UN CONTINENTE ALLA DERIVA – Angelo Rendo

[Naipaul, “Dolore”, nella nuova collana digitale ‘Microgrammi’ di Adelphi.]

Naipaul soppesa il lutto: il dolore ne è il precipitato. Esso non ha luogo, se non in quella soluzione chiamata vita. E non ha niente a che fare con la parola dolore questo dolore.

La parabola delle tre esistenze che nello scritto si incrociano oscilla sopra un regime vocazionale intriso di umorismo e astuzia. Che è poi lo stato assoluto di quel continente alla deriva chiamato Scrittura.

LE CREAZIONI DEL SUONO (Wallace Stevens – trad. Angelo Rendo)

Se la poesia di X era musica,
che gli veniva da sola,
senza nemmeno comprenderla, uscendo dal muro

o sul soffitto, dentro suoni non scelti,
o scelti velocemente, in una libertà
che era il loro elemento, non sapremmo

che X è un ostacolo, un uomo
troppo se stesso, e che sono migliori le parole
senza un autore, senza un poeta,

o di un autore separato, un poeta che non è poeta,
che ci cresce dentro e da noi esce, intelligente
al di là dell’intelligenza, un uomo artificiale

a distanza, un espositore secondario,
un essere di suono, al quale nessuno si avvicina
uscendo fuori dal seminato. Da lui, raccogliamo.

Dite a X che la lingua non è silenzio sporco
ripulito. È un silenzio ancora più sporco.
È più di un’imitazione per l’orecchio.

Egli non ha questa complicazione venerabile.
Le sue poesie non sono della seconda parte della vita.
Non complicano la vista del visibile

né, riecheggiando, conducono la mente
su trombe particolari, a loro volta spinte
dalle peculiarità spontanee del suono.

Non ci diciamo come nelle poesie,
ma in sillabe che nascono dal pavimento,
lievitando come parole impronunciabili.

THE CREATIONS OF SOUND

If the poetry of X was music,
So that it came to him of its own,
Without understanding, out of the wall

Or in the ceiling, in sounds not chosen,
Or chosen quickly, in a freedom
That was their element, we should not know

That X is an obstruction, a man
Too exactly himself, and that there are words
Better without an author, without a poet,

Or having a separate author, a different poet,
An accretion from ourselves, intelligent
Beyond intelligence, an artificial man

At a distance, a secondary expositor,
A being of sound, whom one does not approach
Through any exaggeration. From him, we collect.

Tell X that speech is not dirty silence
Clarified. It is silence made dirtier.
It is more than an imitation for the ear.

He lacks this venerable complication.
His poems are not of the second part of life.
They do not make the visible a little hard

To see nor, reverberating, eke out the mind
Or peculiar horns, themselves eked out
By the spontaneous particulars of sound.

We do not say ourselves like that in poems.
We say ourselves in syllables that rise
From the floor, rising in speech we do not speak.

PROPAGANDA ‘STA ‘NDUJA! – Angelo Rendo

La retorica di Gipi a Propaganda Live è di bassissima lega, volgare, e muffita, soprattutto. Tutta la tv è di stato. La radiotelecomunicazione è di stato. Restituisce la condizione del paese, cullandolo del suo sé diviso e ghignante.
Sghignazza, ride, la parte buona del paese; intanto, quella cattiva si mangia la ‘nduja.

DISEGNO COME ESCREZIONE – Angelo Rendo

In silenzio, gentili e accoglienti gli uni gli altri, i liberi disegnatori della Santa Rosa – la libera scuola di disegno fondata nel 2017 a Firenze da Francesco Lauretta e Luigi Presicce, ieri a Siracusa, domani altrove, quasi sempre a Firenze, e che tanto lustro sta dando al panorama artistico italiano edulcorato e dopato – siedono e disegnano. Non vogliono sentir nulla. Il loro è un ufficio immancabile, ad elevata dipendenza. Si guardano negli occhi, si lanciano sguardi di sottecchi, o furtivi, o aperti. Ognuno col proprio segno. Veloci, nervosi, trattenuti, lievi, sfumati, delicati. Raffigurano a vicenda se stessi, o qualsiasi altra cosa cada sotto i loro occhi, disanimata.
Un miracolo. Ad aleggiare non v’è alcuno spirito, come ci si aspetta che sia scritto, ma la noncuranza della gratuità. L’involucro che ci avvolge si disfa in segno e avanza inesorabilmente verso la sua fine. Il fine del disegno.

Come esempio porto “Angelo che mangia” di Francesco Lauretta. Mangiavo erbe del campo, o fiori, o merda? Il calice dell’eterna alleanza sembrerebbe esser pronto a raccogliere quella spessa e sospesa materia. Tra il sentire e il dire passa l’escrezione, la primaria e più risoluta forma d’arte.

I FIGLI SUOI PIÙ DEBOLI – Angelo Rendo

La cronaca irrompe minuta e franta nel lazzaretto-mondo, incespica su se stessa e manda avanti i figli suoi più deboli.

È il caso, stavolta, del sindaco di Messina Cateno De Luca, il quale, intestatosi di promuovere una manifestazione di motoenduro, ha prodotto un video nel quale lo si mira equipaggiato di tutto punto da endurista e in sella a una moto nella sua stanza al municipio, smarmittando e suonando il clacson per compiere l’opera.

Non c’è alcuna forza che possa fermare e dimettere l’autorità, che, in tutta evidenza, si autofagocita e restituisce la più alta degnità al terrore che avanza.

CHODASEVIC, L’ULTRAPOETA – Angelo Rendo

Vladislav Chodasevic (1886 – 1939), di cui Bompiani ha appena pubblicato un’ampia antologia poetica, “Non è tempo di essere”, nella nuova collana Capoversi, è un poeta malfermo. E solipsistica e crepuscolare la sua vena. Un nichilista.

La poesia è questa cosa, indimostrata e realissima: debolezza del corpo e della psiche, questo restare ai margini, fra le righe, invisibili. Ché invisibile è la poesia, marginale, debole. Come la vita, che aumenta se segue il codice, sminuisce e smemora se rimane chiusa nel guscio del tempo. Pare.
Questa grande arte, la poesia, che disperde ogni nube psichica e fa chiaro il cielo.

“La scimmia” è la poesia più intensamente disumana del volume, e per essa vale acquistarlo. Poi che la voce è troppo compromessa, incrinata, tra il volo e la definitiva caduta, nascosta al genio. Dorme, sosta, ma non è… che tempo, sabbia, vento.

Curatela e progetto grafico speciali. Rispettivamente nelle mani di Caterina Graziadei e Polystudio. Con un solo grande errore: la numerazione delle pagine. Il numero è destinato al margine interno vicino alla rilegatura; e tutte le volte che il libro lo si apre e poi richiude è insetto schiacciato, briciola, tabacco o cenere quel numero. Neo.

USO IMPROPRIO – Denis Montebello (trad. Angelo Rendo)

{Un racconto breve e strepitoso di Montebello, apparso sul suo blog.
Grazie Denis!}

Rileggendo un vecchio testo nel quale credeva molto, nonostante fosse giunto quasi alla fine, non smetteva di meravigliarsi. Molto tempo dopo, e dopo alcuni importanti rifiuti – cosa che, piuttosto, lo aveva oltremodo spinto a provarci con editori meno prestigiosi, poi con piccoli editori e persino con case clandestine o editori a pagamento – rileggendo questo manoscritto, in cui s’era imbattuto per caso durante delle grandi pulizie, e che aveva tirato fuori dal cassetto e aperto un’ultima volta, prima di distruggerlo, affinché di esso, nel quale lui aveva tanto creduto, non rimanessero che rimpianti, scopre, trent’anni dopo, di aver digitato (con l’indice della mano destra, che è sempre – sebbene sia passato dalla Remington alla tastiera, e si sia convertito con vero entusiasmo al computer – lo stesso dito a digitare) “mésuser” invece di “méduser”, ovvero ‘usare impropriamente’ invece di ‘sbalordire’. E poiché non c’era un correttore, un Robert che non s’era preso la briga di consultare – aveva fretta di finire ed era sicuro dell’ortografia – il refuso era rimasto. Che lo contempli pure sbalordito ora, e al tempo stesso rassicurato. Dentro questo guscio tutto ciò che c’è di più banale, che ci farebbe al massimo sorridere, egli vede – non riesce ancora a schiodarsi – le ragioni del suo insuccesso.

UN INCHINO – Angelo Rendo

Arriva suonando il clacson, si ferma davanti alla porta, grida scomposto Un’e reci*! Sono di spalle, mi giro, lo guardo come non lo vedessi e gli chiedo “Quantu? Una ‘i ‘nchilu??”, trasformando in domanda l’esclamazione, senza dubbio disturbata, Una ‘i ‘nchilu, che camuffa e deturpa il ben più cerimonioso Un inchino, e stabilisce un nesso fra il chilo, il poco peso tributato ad una persona al posto dell’inchino, e il chino, il pieno. Contro il vuoto che avanza. Ribadisce No, una ‘i reci.

*Una bombola da 10 kg

Credits: Dario Vanasia mi ha sciolto ogni dubbio sull’origine della paronomasia (un’e ‘nchilu/un inchino); per ciò lo ringrazio.

I DOLCINI DI MARCO – Angelo Rendo

[Le opere pittoriche di Marco quotidianamente mi passano davanti agli occhi, spesso mi afferrano, e capita che io inizi a tastarle, girarvi intorno, chiamarle all’amicizia.]

Cosa ce ne facciamo di questa pittura, se non la liberiamo dai rumori che la infestano, cosa di questo atto dell’inermità, se non gli chiediamo sapore?

I dolcini di Marco Bettio non consolano, non fanno venire l’acquolina, fanno sangue. Quel sangue depurato dalla carnalità, quel sangue che regola le nostre pause, le nostre accensioni, la nostra calma, il nostro raziocinio.

Potreste chiedervi perché un pittore così sfacciato, e certo non si sbaglierà a notare quanto la pennellata di Marco trasmetta il nitore criptico dell’intelligenza, l’inconsolabile forma a cui la carne destina il pensiero.

MANGIARE POESIA – Mark Strand (trad. Angelo Rendo)

Schiumo inchiostro dalla bocca.
Sono felicissimo. Ho mangiato
poesia.

La bibliotecaria non crede a quel che vede.
Ha occhi tristi
e cammina con le mani dentro il vestito.

Le poesie sono morte.
La luce debole.
I cani sulle scale dello scantinato: stanno salendo.

Occhi che ruotano,
e zampe bionde che bruciano come sterpi.
La povera bibliotecaria inizia a battere i piedi e piange.

Non capisce.
Quando mi metto a quattro zampe e le lecco la mano,
grida.

Sono un uomo nuovo.
Le ringhio e abbaio.
Scodinzolo nel chiuso di un libro.

EATING POETRY

Ink runs from the corners of my mouth.
There is no happiness like mine.
I have been eating poetry.

The librarian does not believe what she sees.
Her eyes are sad
and she walks with her hands in her dress.

The poems are gone.
The light is dim.
The dogs are on the basement stairs and coming up.

Their eyeballs roll,
their blond legs burn like brush.
The poor librarian begins to stamp her feet and weep.

She does not understand.
When I get on my knees and lick her hand,
she screams.

I am a new man.
I snarl at her and bark.
I romp with joy in the bookish dark.