La radice ἀρ-, appena appena spuntata, è tenera, un soffio senza connotazione alcuna: l’aria in unione con la consonantica ansia primigenia. Ci vorrà tutto l’ossitonismo della materia a sostantivare in “maledizione” l’inesteso borborigmo della fame, ovvero la divinità.
Bisogna rispettare il tempo dieci
dodici ore al giorno il ragno fila.
Otto strade ferme e nere
quattro avanti quattro indietro
passi mi si passi
ora dentro silenzio ragno.
I sei versi di questa poesia – dettatami dal ragno ieri visto sul muro di fronte alla camera da letto – fanno rientrare dalla finestra la sempre cacciata mosca in posa sul vaso di Pandora. Se rimaniamo alla lettera, il graffio non copre che una tara persa, il sogno dell’incivilimento della massa non è altro che la disperazione prodotta dalla fama.
Questo appunto pare scivolare di gradino in gradino per un difetto di visione: fino a che non si capovolga lo schermo e risistemi il piano.
Quando si legge il proprio, l’accaduto è troppo vicino e non parla. L’interpretazione resiste armata: il tono piatto della non esistenza. Nemmeno ti vien da ridere, ma passi sopra – tu, l’autore – come chi è sordo e schifa la voce.