Manuale di scrittura decreativa – Angelo Rendo

Inventare non fa per me, nessun pensiero cosciente può essere così spudorato da disporsi in parole. Sperimentare non fa per me. Non ho tempo per scrivere ciò che il saggio esorta a non fare.

Osservatore come il padre e come il nonno, come la madre e come la nonna, non riusciremo a reinventarlo, scoprirà mano mano chi è stato, passando per chi sarà.

Potrebbe accadere nulla se il per caso prende possesso dell’azione deliberata? Questo ci si chiedeva mentre temperavo la matitina.

Ho dimenticato di scrivere quanto sia bello partire da qui per finire qui.

Un dialogo incisivo non s’è mai visto. Porterebbe a ragione un’idea.

Svelare il patto silente fra lettore e lettore è compito di ogni lettore.

Sfuturati è lo stesso che sfaticati.

Non sei tenuto a oltrepassare l’ostacolo che ti fronteggia.

Guarda, non ti arrabbiare, avvicinati, là ci sei tu ma non c’è lei.
Cosa?
Può darsi.

Il taglio dato alla pagina è inattendibile, lentamente fuoriesce l’inespresso per multipli di sei.

Tra il sotto e il sopra vi è una netta linea di confine. Essa attesta l’inevitabilità del prima e del dopo e di come bisogna disporsi affinché in breve si compia il viaggio.

Accorciare la distanza, la porta è chiusa.

Che sia di breve durata o lunga l’esautorazione, resti la regola che a un ritmo deciso si accompagni un silenzio perduto per sempre. Arso.

Osserva chi grida e chi sta in silenzio, imitali, prima che possano farlo loro.

‘Non si gioca con le parole’ sono le ultime parole.

Non aver fame di dare nome: passare senza risvegliare, riprendere dai candidi viluppi del filo.

Non imporsi nulla tranne l’attiva rimozione del segreto letterario.

Un’opera vasta la si lasci al mare, a tutte le intermittenti e conosciute dinamiche del compiuto.

Qui c’è il giogo, e la sua scomparsa.

Venera il sole, l’arte rimanga in attesa.

Fino all’ultimo, piega a metà le pagine scritte, ché la riga netti l’identità più estrema.

Nel 4000 non parleremo più.

Felicità, levità si chiede, alla luce del sole. Al suo colmo.

Il ricordo bussa alla porta, stretto a un bastone, claudicante, tossisce e prende gli odori alla stregua di un cane dallo sguardo altero e il naso all’insù. Pensa ma non sente, riprende il suo cammino all’indietro.

Quel che è avvenuto non sempre risponde, spesso si attarda al blocco di partenza.

Nel viaggio può capitare si riesca a sacrificare un appunto, è la cosa migliore tu abbia scritto.

Pensa al reale, quindi scordatelo, la fantasia è sparita.

Due parole, solo due parole, per suscitare la tempesta.

L’insofferenza si conferma tratto distintivo di chi vuol farla lunga, la smania di ogni autore, che sorveglia i percorsi sulla propria mappa.

Oltre a questa cornice da cui sporge, cosa avrebbe potuto sperare, signora? Di essere la creativa più in vista del villaggio? La verità è che l’élan ultimativo mal si adatta alla logica.

Certo, è vero, potremmo pure riscrivere questa puntata, o persino le precedenti, non perderemmo nulla. Dire poco, niente, e una sola volta.

Viviamo per l’immaterialità. Ogni creazione è immateriale. Raccogliamo oggetti, sentimenti e pensieri con l’intento un giorno possano farsi carne. Non è così.

È impagabile dalle altezze più grandi seguire il filo spezzato di ogni vita.

Non hai bisogno di enfasi, o, se proprio non puoi farne a meno, non seguire questo consiglio. Nessun consiglio giova.

Non puoi cavare nulla da chi esce dall’acqua completamente asciutto. Se ne parla come di un miracolo, ma è nel genio delle cose la solidarietà fra l’ordine della coscienza e il disordine della scienza.

Al simile non rispondere facendo finta non ti riguardi, snaturerai il tuo nome. Cerca invece una stanza, dove il tu possa scambiarsi di posto col noi.

Alla storia non hanno riservato che testimonianze, memoria, mentre la vampa la fa cenere.

Chi parte ‘con l’idea di’ non ne farà mai a meno, eccetto che non si faccia largo nella sua mente un comando: fare presto e bene.

Lo spazio bianco non lascia presagire nulla di buono, arrivano le luci della storia.

Non sai perché? Levaci mano.

Non hai un piano? Ritirati.

La frase imbarca acqua, affonda, se l’aria ha voce nasale, rotta agli urti e famelica.

Prova a sentire la più piccola emozione – piccola, umile e fugace emozione – ricordati, non c’è più nulla di ciò che pensavamo ci fosse.

Non è un caso il fumo si spanda prima ancora che le parole arrivino a cottura.

Il marcio maschera il soffio sottile dell’inesperienza.

Gli esperti, dopo aver servito il piatto, si infilano due dita nel cannarozzo.

Rimanere rinchiusi nel letteralismo, prima che arrivi la persecuzione.

Tutti ricercano un premio, poiché vivono. Un taccuino, una rete ampia di contatti, un missile, una navicella, il neoliberismo, la religione.

Vedrete le parole più importanti, arrivano prima, e non se ne vanno più.

L’energia giunge al vertice – dopo aver circolato fra i sassi – durante la sepoltura. È un approccio vertiginoso al problema della forma. Vi è uno specchio sottoterra, e un nido: il debito, non la bulimia.

EPOMENI STASI SYGGROU FIX – Angelo Rendo

Le parole diventano umili, deboli e sconnesse; si piegano alla semplicità. Discettano sulle loro sorgenti. Compiono le azioni più scontate, vitali.

Uno scoppio nell’atrio del Museo Archeologico Nazionale ad Atene. Io che faccio la fila, Adriana alle mie spalle seduta. Adriana che svita il tappo della bottiglietta di acqua frizzante. E boooom! La bottiglietta rimane tramortita e ritta sul suo grembo, decollata, il tappo lì accanto giace. Nessuno che si preoccupa, l’acqua non si versa, ribolle, nemmeno sfiora le teste possa trattarsi di un attentato. Il botto è stato incredibilmente forte, da non credere. Adriana già si vede circondata dalle guardie, dai custodi. Io rido. Sono nel mio centro. Intronato. Gli altri ridono. Non è successo nulla, nessun controllo. Abbraccio il vaso del Dipylon.

Il Picasso in dialogo coi manufatti cicladici e dell’antichità greca al Museo Goulandris è terribile, gli basta niente, pochi gesti, per rimescolare le carte e diventare l’artefice cretese della testa di toro o il veggente scultore di idoli cicladico, il tebano, o il minoico appunto, il miceneo, distruttore di mondi. Questo fa Picasso, chiuso in una bolla temporale grande quanto l’orbe tutto. Fa confusione di ruoli.

Il maialino da latte a Kolonaki o le costolette di agnellone a Syntagma, il sovlaki di Pangrati. Epomeni stasi Syggrou Fix.

Tanto vi rilassa questo, quanto l’altro, quello in alto, vi sfinisce – Angelo Rendo

Capita che uno pensi – più del dovuto, sempre, o distrattamente – a quanto, in letteratura, fra una parola e l’altra si attorcano liane di ansia, relitti e miao metadiabolici. Che insieme, tutti, infestano il pensiero.

Un sistema binario, e le sue istruzioni, o un ribobolo informativo, invece, quanto siano capaci di disperdere le nebbie, chetare l’anima, esaltarla nel senso e in quale, potremmo affermarlo senza alcuna prevenzione. Tanto vi rilassa questo, quanto l’altro, quello in alto, vi sfinisce.

Letteratura e fermezza – Angelo Rendo

[Sono fermo. Fermo ai tempi in cui la pizzeria si chiamava pizzeria, l’osteria osteria, il laboratorio di analisi cliniche laboratorio di analisi cliniche con l’aggiunta del cognome del conduttore.]

La letteratura cade – e hai voglia a cercarne il corpo – quando la lettera non cade sul foglio, ma macchia un punto già oscuro, quando il mimetismo – naturalmente pop – la inghiotte, quando il discorso stretto della legge e della separatezza la perde di vista. Le applicazioni le tolgono profondità e costituzione. Quando perde il suo codice, l’infilatura stretta della ragione, per dove passa il calcolo, cade.
Ma alla fine dei conti non è in pericolo la letteratura; se non per se stessa, da un’altra parte è. Passione e responsabilità sono basti per l’individuo, la massa non combatte guerre, se non per perderle, di ritorno a casa, mentre chi scrive dimidia la mediazione.

La letteratura è una scienza, un blocco unico, per nulla si effonde in discorsi analitici. I criteri interpretativi sono valoriali e illusivi: criteri legislativi, di ordinamento. Perché mancano le scritture del caso? Quando il campo energetico individuale stenta, nascono i sovradiscorsi, gli sforzi. La vanità.

Come sia e sia, tutto nella scrittura si risolve. Tutto si risolve.

Dentro la libreria, nei pressi di Piazza Navona, c’erano delle commesse, tre, chiacchierone e vanitose; era tutto un dire questo l’hai letto e quest’altro, io ho Siti sul comodino e se lo dice Cortellessa; si davano molto tono, si pompavano, e disturbavano.
I due titoli del caso, dunque, non potevano che essere “Nello sciame. Visioni del digitale” di Byung-Chul Han, edizioni Nottetempo, libri poco curati nella veste grafica e cari nel prezzo, impaginati in maniera sciatta al punto da sembrare oggetti da rilegatoria, tesine e “Letteratura come utopia” di Ingeborg Bachmann.
Fin dove arrivano le scritture che si muovono per opposizioni, afferendo più a una critica del gusto che a una sentita epochè, volevo vedere.
Da una parte la verità, selettiva, esclusiva, implicita, che impegna il negativo, dall’altra l’informazione, cumulativa, additiva, esplicita, che tiene al positivo.
Il filosofo coreano delimita il campo di analisi conducendo una battaglia di retroguardia, affidandosi a una bibliografia minima, datata e scontata: McLuhan, Barthes, Linder, Le Bon, Hardt-Negri, Von Gehlen, Heidegger, Sartre, Lacan, Bredekamp, Arendt, Flusser, Schmitt, Hegel, Foucalt, Benjamin. Quel campo risulta patentemente massificato, rappresentazionale: un campo di apocalissi vestite.
La forma del pamphlet è appetibile, sfiziosa, persuasiva. Per professionisti della cultura, senza dubbio. Non appena lo apro e affondo il naso al centro, sento gli stilemi della castrazione.
“La società della sorveglianza digitale […] sviluppa tratti totalitari: ci consegna alla programmazione psicopolitica e al controllo.”
Byung-Chul Han scaglia i suoi modelli previsionali in preda ad un’ansia di nominazione, e di rimozione del caos; il suo orientamento filosofico è troppo schiacciato sul presente e dello sciame è l’ape regina.

Quando uno scrittore non si vede più, si dice che è stato abbandonato, o che si è ritirato.
Si crede, cioè, ci sia un campo, che qualcuno lo lavori. E che qualcuno, nullafacente, lo abbandoni. Bene. Chi lo solca, non osa abbandonare; chi lo scava di notte a notte, prepara le fosse per chi lo lascerà. Chi non lo sente e non lo vede, fa un altro lavoro.
Scrivo tutto ciò a margine di quella lunga linea che, partendo dal basso, finisce nel ghigno temperamentale e collettivo e mostruoso dell’intellettuale, poco poco più a destra o a sinistra dal punto da cui è partita.
Dio ci liberi dalle scuole di scrittura, dai generi, dalle interpretazioni del vivente, dal passo lento della sera.

Non ci vuole niente
quel poco che basta
a se stessi.

Ogni grande interno
spoglia e niente
dice.

A me non interessava affatto tenere a mente l’altro; una forza indissociabile dal pensiero mi riempiva. E se si crede che l’estensione del giusto e del bello a campi di memoria indifferenziata debba avere la meglio su questo torrido pianeta nero, di certo si tratta di errore.

Sempre meno e sempre tu
al più che io possa.

Le lamentazioni, quelle grasse
e cucite pance teoriche.

Franzen è uno scrittore rabbioso e saputo e bacchettone, troppo preoccupato di cosa gli altri pensino di lui. E pensa a Bloom e teme Pynchon e ammira il padre ma vuole superarlo. Sta col metro sempre aperto da adolescente; quando scrive di Updike e della sua [di Updike] scrittura regolare come una cacata quotidiana, vado in bagno.

Per quale motivo la finitezza ci spinge a far piccolo tutto ciò che ci è prossimo, finanche questo mozzicone di sigaretta vicino al mio piede?

Quando leggo teatro mi accade che tutte le voci si mescolino e non importi più chi parla. Parlo io.

È chiuso da un coperchio, che nella parte interna ha uno specchio, in una bara chi dà consigli o pratica poetiche.

Al fondo c’è la gaffe.

Quando ti vedo, scritto sul muretto blu – si sganascia la mente e si nasconde il cuore – per non saper che dire o a quanto minimo lustro sia destinato sul muretto che presto si sbianca, arrossisco.

Eppure, potremmo violare le fonti allegramente, prendere spunto da vecchie pagine – o essere esautorati dal classico a ciondoloni sulle orecchie, sorretto da due dita puntate dall’una e dall’altra parte… un libro a destra, uno a sinistra… cera contro l’incantamento – e procedere diritti in equilibrio, saltando da tavolo a sedia a muretto e niente sentire all’infuori di quella musica cilestrina, che aggiunge carico a chi non si fa beffe di lei, mentre l’asso canta e solitario carica.

Torniamo sempre. Solo alcuni – dalla mente plagiaria – che aguzzano l’ingegno per meglio tornire l’inganno, non tornano. Aver l’impressione di scrivere per altra voce, e per altra in effetti star scrivendo, dopo la correzione; e scrivere della scalfittura della diseguaglianza. Come quell’uomo che ricorre alla fuga nei cunicoli, perde i suoi liquami e ne fa verità, mangiando lei e tutti i suoi parenti.

Tutto ciò che è corretto è scritto. Perso il contatto, tutto fila liscio. Dimentichiamo di aver scritto e chi ha scritto. Chi ha scritto è chi non ha parlato e chi non ha parlato non ha mai scritto. È detto che chi ha dimenticato sia volato via; ma la mente che sta appresso al detto è falsa più di quanto sia stato corretto all’inizio fare. L’inizio è volontà. E sull’accento vi è posto. L’inizio.

Maestro, Principale, Buonuomo – Angelo Rendo

Tre sono gli esordi distintivi di un cliente all’arrivo: maestro, principale e buonuomo.

Maeeesro, il primo dei tre appellativi, è il meno formale, agguanta l’officiante del rito strapazzando la parola “maestro”. Il nesso consonantico -str- suona retroflesso -sr-, tutta la parola gonfia in bocca, prima di levarsi la lingua al palato ed esser cacciata via. E stranamente è un prendere confidenza che non riconosce ruoli, la bocca non trattiene la coscienza.

Arà principali…”Principale” è il più neutro, e come tale neutralizza gli umori. Di solito sono le nature più scontate e servili – quelle il cui principio sbatte contro la fine nel tempo di due secondi – a farne uso.

Infine buonuomo, “Buonuomo, cortesemente, mi mette…”. La sufficienza compassionevole che serpeggia in quest’ultimo caso, invece, è pericolosa. Carica com’è di turpe nonchalance, accende le polveri, risveglia i morti.

Uno sciame insidia l’utopia – Angelo Rendo

Dentro la libreria, nei pressi di Piazza Navona, c’erano delle commesse, tre, chiacchierone e vanitose; era tutto un dire questo l’hai letto e quest’altro, io ho Siti sul comodino e se lo dice Cortellessa; si davano molto tono, si pompavano, e disturbavano.

I due titoli del caso, dunque, non potevano che essere “Nello sciame. Visioni del digitale” di Byung-Chul Han, edizioni Nottetempo, libri poco curati nella veste grafica e cari nel prezzo, impaginati in maniera sciatta al punto da sembrare oggetti da rilegatoria, tesine e “Letteratura come utopia” di Ingeborg Bachmann.

Fin dove arrivano le scritture che si muovono per opposizioni, afferendo più a una critica del gusto che a una sentita epochè, volevo vedere.
Da una parte la verità, selettiva, esclusiva, implicita, che impegna il negativo, dall’altra l’informazione, cumulativa, additiva, esplicita, che tiene al positivo.
Il filosofo coreano delimita il campo di analisi conducendo una battaglia di retroguardia, affidandosi a una bibliografia minima, datata e scontata: McLuhan, Barthes, Linder, Le Bon, Hardt-Negri, Von Gehlen, Heidegger, Sartre, Lacan, Bredekamp, Arendt, Flusser, Schmitt, Hegel, Foucalt, Benjamin. Quel campo risulta patentemente massificato, rappresentazionale: un campo di apocalissi vestite.
La forma del pamphlet è appetibile, sfiziosa, persuasiva. Per professionisti della cultura, senza dubbio. Non appena lo apro e affondo il naso al centro, sento gli stilemi della castrazione.
“La società della sorveglianza digitale […] sviluppa tratti totalitari: ci consegna alla programmazione psicopolitica e al controllo.”
Byung-Chul Han scaglia i suoi modelli previsionali in preda ad un’ansia di nominazione, e di rimozione del caos; il suo orientamento filosofico è troppo schiacciato sul presente e dello sciame è l’ape regina.

La morte del libro – Angelo Rendo

I resti (o i testi) vanno confusi alla fine, mentre flottano sulle cime degli alberi. Ma prima? Non già che non siano stati  o non siano resti, lo sono, e quanto più è vero, tanto più tornano ogni giorno, concentrati, densi, fessi ai margini, in ambagi e pieni di vita.

Ma a pensarci dopo, ad aprirli dopo, a farne mescola incapace di fiottare al cielo è l’interesse agonistico verso la durata, verso la forma di inizio e fine.

Su Giuseppe Pontiggia – Luigi Grazioli

[Un saggio di Luigi Grazioli su Giuseppe Pontiggia (1934 – 2003) risalente al decennale della morte. Il saggio è già apparso sul blog di Luigi Grazioli: qui. Lo ripubblichiamo su Nabanassar per gentile concessione dell’autore. A. R.]

Dieci anni fa moriva Giuseppe Pontiggia, nel momento in cui, dopo il successo di Vite di uomini non illustri (1994) e soprattutto di Nati due volte (2000), la sua opera e la sua autorevolezza culturale e morale avevano ottenuto un vasto e meritato riconoscimento anche in campo internazionale. Oggi parlando con giovani scrittori e critici capita di scoprire che la maggior parte non ha letto una sua pagina, e che alcuni nemmeno l’hanno sentito nominare. E anche chi lo ha letto e conosciuto e stimato ne parla sempre meno, a parte le celebrazioni ufficiali, e talvolta ridimensionandone eccessivamente l’importanza senza che si capisca bene perché. Io gli ero amico e lo ammiravo. Non è solo per un atto di doverosa memoria che penso sia opportuno tornare a parlarne.

Pontiggia, nato a Erba nel 1934, ha rivelato una precoce vocazione letteraria che si è poi affinata alla scuola di Giovanni Anceschi e del “Verri”, da cui è nata la neoavanguardia negli anni ’50-’60. Pur condividendo con essa gli assunti di fondo di una critica ideologica del linguaggio, da lui intesa soprattutto come incessante smascheramento di ogni suo uso retorico e mistificante, e di una spiccata attenzione all’aspetto costruttivo della cosa letteraria (e quindi ai meccanismi formali e ai risvolti metaletterari che lui però ha sempre trattato, nell’opera narrativa, in modo indiretto), e conservando negli anni l’amicizia con alcuni suoi rappresentanti (Antonio Porta, Alfredo Giuliani, Giorgio Manganelli), se ne è però allontanato abbastanza presto. Non lo convincevano gli estremismi formali, che sconfinavano spesso nell’illeggibilità, e la forte politicizzazione; ed è stato proprio nel momento della cosiddetta crisi delle ideologie e del conseguente rapporto tra politica e letteratura, cioè a partire dagli anni ’80, che la sua opera e la sua figura pubblica, di alto profilo morale, fortemente impegnato in alcuni settori civili ma non schierato e attestato anzi in un territorio che poteva apparire di neutra distanza, hanno acquisito un notevole rilievo. Per inciso, sono forse le stesse ragioni per cui è meno letto oggi: ragioni che però trascurano, colpevolmente, il rigore e la qualità della sua narrativa e di gran parte sua critica (in particolare Il giardino delle Esperidi, 1984).
Uno degli elementi caratterizzanti tutta la sua scrittura è stata, al contrario dei neoavanguardisti, la ricerca di una leggibilità di prima istanza che però contenesse, stratificata, la maggiore complessità possibile di riferimenti e implicazioni, anche teoriche, e quindi di letture.

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In forma di lettera – Federico De Leonardis

[Ultima puntata di “In forma” (1993), pubblicato da Bacacay Edizioni – “casa editrice praticamente inesistente – in cento copie faticosamente tirate su una normale macchina rank-xerox e rilegate pazientemente dalla coppia autore-editore (il sottoscritto e Luigi Grazioli; e cento solo perché prevedevo che la sua diffusione, anch’essa a mano, non ne avrebbe richiesto di più e non, come penseranno i maligni, per rendere prezioso quel modesto sfogo epatico), pagine oggi disponibili su internet rivolgendosi direttamente a me (fededeleonardis@gmail.com) oppure attendendo la sua pubblicazione programmata a breve su www.nabanassar.wordpress.com.” FDL]

(Aperta)

                                                                                Veri sono solo i pensieri

che non comprendono se stessi

 T.W. Adorno

 Milano, 3 Gennaio ’93

Caro ***

ormai tre mesi fa, tanto è che rimugino l’intenzione, che cerco di dimenticarla, di soffocarla, incappo in un libro, un tuo libro, uscito dieci anni prima.

Non lo nominerò (le ragioni sono in questo scritto); è un libro di scarto, scaricato dall’industria culturale in uno dei tanti remainders che ci sono in giro. Son diventati loro i miei serbatoi, loro e le bancarelle; senza rigidezza, con eccezioni, ma in fondo un’abitudine: flâneur a Bocca di Serchio, dove arriva ogni tipo di ”ravatti”, anche questo; snobismo alla rovescia – mi piacerebbe nobiltà – o più probabilmente senso di soffocamento che mi dà sempre la cultura fresca di giornata, il rumore che dilaga su copertine fiammanti che vanno a ruba: ”à la page…, sensations…, surrogati della felicità offerta dal diverso sempre uguale” (il rombo della tua triste lucidità, Teodor W. copre ogni tanto il continuo rumore di fondo). Un amico di cui appena qualche mese fa è uscito un libro aveva la faccia, e il senso delle proporzioni, di dirmi che bisognerebbe inchiavardare i propri manoscritti e affidarli con testamento ai figli dei propri figli. Ho pensato alle piramidi.

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