C’è freddo umido. E un verme dinoccolato fa passi da gigante verso una direzione sconosciuta. Pare gli manchi la concentrazione, di continuo singulta, distende il pensiero e in men che non si dica lo contrae, appare un uomo.
Dall’alto del suo bel vestire, cala la mano, preme lievemente col polpastrello il verme e una sostanza collosa si versa lenta nel globo d’aria che grava su uno spazio aperto di quattro metri quadri.
È tutto così sgangherato, le fibra raccolte a mantello svolazzano per non sapersi dire quello che sono. Si impara, ci si gonfia, si giudica il ricco, il delinquente, il ciarlatano, il truffatore, l’evasore. Si sogna. Punto importa alla scrittura del bel viso mostrato dalla pedanteria prolissa e sgamata.
Come un pennuto che si liscia col becco le penne, spostato l’asse che governa la colonna vertebrale all’indietro, così fa mostra di sé nell’aria collosa il Fogliamara.
Mese: dicembre 2013
Angelo Rendo per Francesco Lauretta
[Dal 6 dicembre al 14 febbraio 2014 Francesco Lauretta è alla GAM di Palermo con la personale dal titolo “Esercizi di equilibrio”. Per l’occasione pubblico in tre puntate i testi in catalogo di Claudio Cinti, Luigi Grazioli e Angelo Rendo. A. R. ]

Passo lungo
Io qui mi fermo, in questa stanza, qui la vita, il dovere. Non sono ancora entrato che un chierico mi avanza un paramento viola; lo restituisco. Sarei quasi tentato di non parlare con nessuno, e nulla scrivere, quel che è avanzato ritornerebbe a fare il suo dovere.
Faccia e spalle occhiute non possono mirare se non il cuore muto della fine che ogni inizio si porta chiuso nella teca: la reliquia esplosa come un rosario di miccette.
Allora, più sputi di seme e lame di madre dolorosa e gialla arsura, maestro, vossignoria! E luce rossa carica o filamentosa al punto da scordarsi, e scordarsi del luogo nel quale si procede, del motivo della venuta, della ricerca di sostanza.
La testa gira più per le mute esplosioni, le nebbie che per la pittura. La pittura sta sparendo, è simile a un pannuzzo graveolente marrò con chiazze minime di luce bianca lì per destino d’evoluzione. Oppure è lì lì per essere risucchiata dallo scarico celeste. Naturalmente il Paradiso c’è. Chiamiamolo giungla.
Luigi Grazioli per Francesco Lauretta
[Dal 6 dicembre al 14 febbraio 2014 Francesco Lauretta è alla GAM di Palermo con la personale dal titolo “Esercizi di equilibrio”. Per l’occasione pubblico in tre puntate i testi in catalogo di Claudio Cinti, Luigi Grazioli e Angelo Rendo. A. R. ]

Sarai
È come se tutti gli strati di colore che Frenhofer aveva sovrapposto sulla tela lasciando affiorare in un angolo solo un unico piede, sia pure di bellezza folgorante, stessero pian piano evaporando lasciando serie successive di stesure monocrome, rosse e azzurre soprattutto, all’interno delle quali, a seconda delle angolazioni e delle distanze, emergono forme, figure, abbozzi, tracce di altre tracce cancellate e rinascenti, memorie, progetti, scarti, tutti assieme, o come in un brodo primordiale delle figurazioni, o della percezione, o di emozioni ignote e potenti che cominciano a fissare questo o quel segmento, o volume, o sfumatura o linea o segno, a provare a dare un nome, ancora prima che a eventuali cose da esse sorte, alle intensità da essi suscitate, al disagio, e all’euforia, della loro confusione, a questo continuare a essere con, e a essere ancora e sempre, insieme, questo e quello, e poi di vedere un questo e un quello che cominciano a fare segno, a dirsi e mostrarsi, pronti sempre a ritrarsi ma già, almeno nei sensi, vivi, riconosciuti, tanto che poi anche perderli è bello, e non importa.
(o come nel magma lavico di un vulcano, dentro, prima ancora di uscire, o Sotto il vulcano, come nella serie di Pierre Alechinski, come nel libro di Malcom Lowry che l’ha ispirata, o nel Vulcano di Antonio Moresco, o nei suoi Canti del caos)
Claudio Cinti per Francesco Lauretta
[Dal 6 dicembre al 14 febbraio 2014 Francesco Lauretta è alla GAM di Palermo con la personale dal titolo “Esercizi di equilibrio”. Per l’occasione pubblico in tre puntate i testi in catalogo di Claudio Cinti, Luigi Grazioli e Angelo Rendo. A. R. ]

Il mondo potrebbe ben accontentarsi di essere in bianco e nero
Il mondo potrebbe ben accontentarsi di essere in bianco e nero. Come nelle pellicole del Neorealismo italiano. Come nei sogni di ciascuno di noi. E detto fra noi che osserviamo le opere di Francesco Lauretta, io penso che non vi sia nozione più equivoca, in arte, del cosiddetto “realismo”, con o senza suffissi (neo-, sur-, iper-, e chi più ne ha più né metta, anzi, ne tolga), con o senza aggettivazioni. Io penso che tra sfera del mondo e sfera dell’arte, come tra quest’ultima e dimensione del sogno, non vi siano rapporti così sostanziali da giustificare sbandamenti dimensionali o interferenze reciproche tra le sfere. Di più: penso che se sbandamenti e interferenze si verificano, non siamo già più nella sfera dell’arte, ma in quella del mondo, la cui realtà è tanto vasta da comprendere anche il sogno. E dirò anche (visto che siamo tra noi, a osservare l’arte di Lauretta), che mai il poeta forse più grande di tutti mentì tanto spudoratamente quando affermò (fece affermare a un suo personaggio) che “vi sono in cielo e in terra più cose…”. Più cose di quante ne possa sognare “la filosofia”, forse. Ma Shakespeare intendeva dire “l’arte”. Il poeta, l’artista, fingono sempre. Fingono persino contro se stessi. L’artista, il poeta, possono essere brutti, sporchi, cattivi e perfino bugiardi nella sfera comune a noi tutti (che osserviamo le opere di Lauretta), ovvero la dimensione del mondo, quella che comprende realtà e sogno, ma non lo saranno mai entro la sfera che è loro propria, che appartiene soltanto a loro e che noi dobbiamo accontentarci di sognare, o di denominare attraverso equivoche nozioni di scuola. Il mondo è brutto, sporco, cattivo. Le sue bugie possono ben accontentarsi di essere tradotte in un realistico bianco e nero. L’arte è l’unica finzione di purezza che ci consente di giudicarlo senza esserne sporcati. L’arte (anche quella in bianco e nero) è quella sfera di colore entro cui il mondo riesce a dissolversi.
Appunti dal buon senso senza senso (61) – Angelo Rendo
Non è vero quel che si dice: “più stretto il contatto avviene, meno la produzione può disporsi sulle file serrate dell’opera.”. Meglio, è destino del carattere fare fronda scracchiando la superbia, pietra tombale.
Ho di fronte una credenza, mi preparo a lucidarla, ci ripenso.
Stanno venendo su obbedienti senza il tanto che stroppierebbe il canto pure a un bue, il fine: condurre a termine l’opera di recinzione.
Howe Gelb, “The Coincidentalist” – Stefano Ferreri
[da qui]
Proprio non vuole saperne di arrestare la sua corsa, quella canaglia volpina di Howe Gelb.
A patto che questa sua irrequietezza espressiva incontri opportuna gratificazione nel dispensare bellezza. Al comando della sua creatura più nota, l’artista di Tucson campa di questo da oltre trent’anni: ere di fedeltà e psichedelia parimenti basse, scurissimi boogie, divagazioni riarse, elettricità nervosa, blues sgretolato e caos da elargire a piacimento. Ma oltre i Giant Sand, ben prima che l’aggettivo andasse incontro a duplicazione enfatica con l’ingrossarsi della sua ghenga, il Nostro si è tenuto occupato con una moltitudine di progetti diversi e con i cosiddetti lavori solisti (se si possono definire tali album suonati assieme ai vari M. Ward, Steve Shelley e Thöger T. Lund, per tacere della pletora di ospiti, al solito molto speciali).
Dischi invariabilmente curiosi, nel cilindro il coro di una chiesa battista, una terna di chitarristi flamenco oppure i soliti noti, fa lo stesso. Dischi che il cantante non ha mai smesso di pubblicare, inflazionando di tanto in tanto le uscite, come nel corso di un 2013 che lo ha visto due volte – letteralmente – metterci la faccia. Ancora lei, quella di cui è facile invaghirsi. Bronzea. Seppiata, meglio, come le istantanee di un bandito ai tempi della frontiera. Con il copricapo d’ordinanza la prima, senza la seconda. Dove il buon Gelb si offre all’obiettivo come un maturo gentiluomo, trasandato ma romantico, incespicante e seducente, in quell’abito che ne ha viste tante e pure continua a far sensazione. Il tocco è leggerissimo. Frugale. Profuma di vecchio appartamento, un tantino dimesso, ma ancora confortevole. A restar impressa è la polvere, l’inchiostro con cui verga i suoi brani dalla notte dei tempi, oltre a una certa elegante approssimazione. Una pigrizia benevola, da cuori pacificati, che mette a proprio agio l’ascoltatore dopo avergli rivolto la più cordiale delle accoglienze nell’introduzione di “Vortexas”, crasi identitaria che è già tutto un programma.
Il casualista del titolo è anche un pauperista. Incidentalmente, come tiene a puntualizzare lui. Un disingannato, a caccia di oasi d’incanto dentro di sé. Per nulla incattivito da pose inesorabili, a differenza del fatalista Hugo Race. Addolcito semmai, dalla bellezza di pochi dettagli preziosi che ha il vizio di confondere con i ricordi: il violino di Andrew Bird o la compagnia del consumato Will Oldham, ad esempio, che possono passare tranquillamente per scherzi di un’immaginazione troppo generosa. Il suo è un deserto macchiettato di fiori inattesi e scorci che sorprendono, popolato da un’umanità marginale ma dignitosa pronta a trascolorare nell’epica letteraria. Il taglio si conferma quello bozzettistico delle recenti prove solitarie. In confezione povera ma non miserevole, così da dare respiro alle proprie esigenze di disimpegno. Schizzi disadorni con occasionali affrancature jazz, ipotesi di canzoni che conservano pur sempre una loro compiutezza non preventivata e poco convenzionale. Gemme lacunose a bella posta, fantasie sghembe e disarticolate come il pianoforte di “The 3 Deaths Of Lucky”, che par quasi risuonare dal passato e guarnisce il duetto con la scozzese K.T. Tunstall di scheletrica ironia. L’intimismo non si chiude nel confino di uno sterile quadretto. E’ una mattonella umorale in superba armonia con quelle più prossime e con l’ambiente tutt’attorno, spoglio ma mai arido.
Non manca il teatro di sabbia, scaglie e detriti: la trapunta ghiaiosa dove prendono corpo i miraggi riverberati degli ultimi Giant Sand. I cui contrasti, tuttavia, restano attenuati da una visuale inedita e finalmente tersa. “An Extended Plane of Existence” vale come nuova declinazione di un verbo antico, e la sua delicatezza sa di placida resa al sonno. E’ una tranquillità domestica a quietare, appagandoli, i fantasmi e le ombre dei giorni che furono. Tradotto in moneta sonante, le spirali rumorose non sono più sporcature ma semplici scie, lasciate in dissolvenza dalla ragione che si rilassa. Il folk dell’erosione vive di queste correnti calde e minimali. Scolpisce i paesaggi di un’anima inquieta per temperamento ma mai così padrona di sé, prima d’ora. Anche nel buio feroce di un monologo interiore (“Picacho Peak”), nuovi bagliori risplendono. Dolci i coretti infantili, un velluto la scorta del piano, affilato il picking. Qua e là Howe recita più che cantare, a mezzacosta tra candido gospel straccione e rimasugli rock, dall’inesausto giacimento di “Chore of Enchantment”. I non-finiti in creta che prendono forma tra le mani sono ibridi dei suoi. Pungenti, amabilmente squilibrati, senza mete prefissate e senza ansie da prestazione.
Fin troppo facile, allora, regalare loro un soffio di vita, o la profondità che rivelano a uno sguardo più attento: gli basta aggrapparsi alle meraviglie di quella sua voce inconfondibile, da spirito notturno che mitiga e irretisce. E apporre in calce la propria smorfia di bronzo, naturalmente.