In forma di lettera – Federico De Leonardis

[Ultima puntata di “In forma” (1993), pubblicato da Bacacay Edizioni – “casa editrice praticamente inesistente – in cento copie faticosamente tirate su una normale macchina rank-xerox e rilegate pazientemente dalla coppia autore-editore (il sottoscritto e Luigi Grazioli; e cento solo perché prevedevo che la sua diffusione, anch’essa a mano, non ne avrebbe richiesto di più e non, come penseranno i maligni, per rendere prezioso quel modesto sfogo epatico), pagine oggi disponibili su internet rivolgendosi direttamente a me (fededeleonardis@gmail.com) oppure attendendo la sua pubblicazione programmata a breve su www.nabanassar.wordpress.com.” FDL]

(Aperta)

                                                                                Veri sono solo i pensieri

che non comprendono se stessi

 T.W. Adorno

 Milano, 3 Gennaio ’93

Caro ***

ormai tre mesi fa, tanto è che rimugino l’intenzione, che cerco di dimenticarla, di soffocarla, incappo in un libro, un tuo libro, uscito dieci anni prima.

Non lo nominerò (le ragioni sono in questo scritto); è un libro di scarto, scaricato dall’industria culturale in uno dei tanti remainders che ci sono in giro. Son diventati loro i miei serbatoi, loro e le bancarelle; senza rigidezza, con eccezioni, ma in fondo un’abitudine: flâneur a Bocca di Serchio, dove arriva ogni tipo di ”ravatti”, anche questo; snobismo alla rovescia – mi piacerebbe nobiltà – o più probabilmente senso di soffocamento che mi dà sempre la cultura fresca di giornata, il rumore che dilaga su copertine fiammanti che vanno a ruba: ”à la page…, sensations…, surrogati della felicità offerta dal diverso sempre uguale” (il rombo della tua triste lucidità, Teodor W. copre ogni tanto il continuo rumore di fondo). Un amico di cui appena qualche mese fa è uscito un libro aveva la faccia, e il senso delle proporzioni, di dirmi che bisognerebbe inchiavardare i propri manoscritti e affidarli con testamento ai figli dei propri figli. Ho pensato alle piramidi.

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In forma di esercitazione accademica – Federico De Leonardis

Equazione della distanza

Voglio parlare di distanza anzi, per essere precisi, dell’oggetto della perfetta distanza.

Espresso in questi ultimi termini il mio proposito non può che sembrare astruso: come fa a esistere un oggetto della distanza, se questa è prima di tutto una misura? E poi anche ammettendo che esista non è azzardato e gratuito attribuirgli una qualche perfezione? Ma chi avrà la pazienza di arrivare fino in fondo a questo discorso si renderà conto che le mie intenzioni sono giustificate, perché le conclusioni che spero di raggiungere potranno tornare utili anche a lui. Quella della distanza è una questione importante per tutti, la distanza è una qualità, un concetto, un’entità, un… non saprei definire la sua sostanza, un qualcosa su cui comunque bisogna avere le idee ben chiare. Ripensandoci, questa mia indecisione a definirla deriva proprio dal fatto che la distanza non è un’astrazione ma un oggetto, qualcosa che ha un corpo e si offre a tutta la ricchezza dei sensi.

Prima di entrare in argomento, prima ancora di cominciare la passeggiata per arrivare a indicare quale è l’oggetto della perfetta distanza – perché esiste veramente e io lo conosco benissimo – voglio portare un esempio a sostegno di questa mia ultima affermazione e lo farò raccontando un episodio. Episodio è troppo, diciamo: cosa mi è successo proprio oggi; che tra parentesi è stato determinante a decidermi a prendere il toro per le corna.

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In forma di pamphlet (su Marcel Duchamp) – Federico De Leonardis

Guarda*, cinematografara Giacinta,
guarda bene quel che ha per naso l’elefante.
Guarda quel di cui abbiamo bisogno per sederci,
guarda la casa immensa che occupa colui che
                                                                    (chiamiamo re.
Guarda questa faccenda del dormire, alzarsi,
                                                              (dormire e alzarsi,
guarda la donna e l’uomo che contrattano di non
                                                                      (separarsi mai,
guarda il farabutto, signore del nostro globo,
guarda come il fiore tenero spunta dal suolo duro,
guarda come dal legno degli alberi
nascono commestibili aromatici.
Guarda come dal cielo puro ci arrivano
acqua, fulmine, luce, freddo, calore, pietre, neve.
Assurdo e mistero* in tutto, Giacinta

José Moreno Villa

Stimolo e trabocchetto dell’intellettuale è l’ambizione. Se guardo le dita raspose e le unghie a lutto delle zampe palmate che mi ritrovo per mani, considerarmi un intellettuale è un po’ azzardato. Occuparsi di Duchamp però non sfugge a un sospetto di ambizione, visto quello che è diventato agli occhi di tutti: non c’è testo d’arte visiva che non lo citi e spesso anche chi parla di musica o di letteratura fa riferimento a lui. La frase che si sente più spesso è che con lui bisogna fare i conti.

Facciamoli allora, una buona volta, anche se rischio di trovarmi sul lastrico.
Anche in questo non mi sento un intellettuale: odio le ghette di nonchalance con cui gira in mezzo ai mostri sacri senza mai osare discuterli. Preferisco essere tacciato di presunzione o di superficialità, preferisco sbagliare che sentirmi un pusillanime.

Nel mio caso il pericolo del trabocchetto è grande, perché confesso poco interesse per l’analisi verbale e l’equilibrio critico mi difetta. Ma la figura Duchamp mi sfida e non tanto come intellettuale quanto come operatore d’arte visiva. Anzi per la precisione a sfidarmi non è la sua opera; è soprattutto la mole di letteratura che lo ha accompagnato in vita e che gli è stata dedicata in seguito. Se Duchamp non fosse diventato un mito e se a fasi ricorrenti, che più o meno coincidono col volgere al freddo del barometro delle mode dell’arte, questo mito non venisse rispolverato e non rimpolpasse quella mole, non sentirei affatto il bisogno di occuparmene: la mia è semplicemente legittima difesa.
Quanto all’ambizione, ci si creda o meno, ho solo quella di continuare a fare il mio lavoro in perfetta autonomia, senza venire travolto dal duchampismo dilagante.

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“Controcanto” – Federico De Leonardis

In forma di saggio critico

 

Negli anni in cui lavora Giacometti, il Tempo ha già fatto irruzione nello spazio, da qualche decennio. Basta ricordare Proust, Cézanne, Bergson e i cubisti e i futuristi. Solo il primo aveva in proposito le idee particolarmente chiare; per tutti gli altri è ancora un dio positivo, il cui attributo principale è la dinamica, e Guernica è una descrizione: la storia, per quanto tragica, è un espediente per una dichiarazione di ottimismo. Non si esce dai limiti fissati dal positivismo.

Invece… “in noi dei cari inganni/non che la speme, il desiderio è spento”: questa è la saggezza dell’ ”architetto” Giacometti.

Giacometti aveva due mani. Non è da tutti.

La sua sinistra vuole, ricorda (volontariamente), aggiunge, costruisce, contrafforta il Tempo – col fil di ferro, la creta, il bronzo. La sua destra colpisce, cava, toglie, distrugge, in contemporanea.

Il risultato non sta nello spazio, lo attraversa – o ne è attraversato – bucato com’è dal Tempo.

A volte spunta un naso lunghissimo, totale, per una di quelle assurde intuizioni che spostano il centro in periferia.

Periferia:

l’uomo è l’eterna ossessione dell’uomo. Ma quando Giacometti guarda un uomo è come se lo guardasse un cane. La nostra presunzione di animale eletto ci fa perdere per esempio l’occhio del cane: la testa è piccola e lontana, questo animale padrone è sottile e verticale, solo i piedi mi sono vicini, sono a mia immagine e somiglianza.

Un cane che guarda un cane, poi, vede un cane, la sua fame.

Non so per quale ragione continuo ad associare le filiformi figure di Giacometti a quelle malate, possedute o abnormi che popolano il Malte. E’ lo stesso vuoto, la stessa operazione di scavo che le ha create.

Come guardando i cortometraggi e le fotografie del suo studio, ritrovo la ricchezza e la tenacia della vita comune appese ai muri sventrati delle case di Parigi. Sono qualcosa di aperto, senza difese, pulito perché promiscuo, senz’altra legge che quella della vita di tutti, e di tutti i giorni, coi suoi odori, i suoi sudori e le sue piccole sporcizie.

“Mio Dio, mi rammentai a un tratto: dunque, Tu sei. Ci sono prove della Tua esistenza”. Sono la bellezza, il cappello della domenica del cieco che vende i giornali, i chiodi duri piantati nelle Piazze, il sorriso che ci fa accettare la condizione che ci è data di ombre momentanee che non si incontrano.

Non si incontrano:

questa è la verità – non c’è arte senza verità – che Giacometti sembra mutuare direttamente da Proust: ”L’arte è l’apoteosi della solitudine… non vi è comunicazione, perché non vi sono mezzi di comunicazione”. Dirlo, caro Beckett, dire questa verità con le parole di un sia pur eccellentissimo saggio, non la smentisce; costruirlo in una Piazza è smentirla: quel piccolo quadrato di quaranta per quaranta mi ha fatto attraversare all’indietro d’un fiato tutta la Germania (l’avevo visto a Colonia), per rintanarmi nel mio studio a contenere l’emozione di quella verità sconfitta: la comunicazione era andata a segno, il mezzo della comunicazione esiste, perché non mi si dava una forma, ma un’agitazione.

Le figure di Giacometti hanno un che di comico e di antico. Mi ricordano le statuine dei nuraghi sardi, qualcosa dei carri assiri e dell’età del ferro, e anche il pagliaccio genovese Lasagna. Ma la loro comicità non si abbassa mai al sarcasmo dei busti di Daumier, come il loro arcaismo è solo una memoria (involontaria), la spina dorsale di qualsiasi opera d’arte che non voglia afflosciarsi nel giro di un’occhiata micidiale.

Forse è proprio nella prospettiva della distanza – il sempre stato è una distanza, al pari della comicità – che si rende possibile guardare.

Ma intendiamoci: la distanza dopo. ”Lasciate ogni passione” diceva Leonardo, trecento anni prima di Leopardi, e il suo è stato indubbiamente un occhio.

Il fratello Diego:

un modo di specchiarsi, l’autoritratto di una persona pudica che non vuole apparire e che non ce la fa a guardarsi. Per caso non siamo lui: veniamo fuori dallo stesso buco, apriamo gli occhi sulle stesse pareti domestiche, nello stesso paese, forse riusciamo ad avere con lui un rapporto più distaccato di quello che riusciamo con noi stessi. Lo vediamo di dietro e di profilo, e la scultura è centro, spazio che racchiude in circolo.

Giacometti diceva di Moore, che gli è sopravvissuto per molti anni, che una sua scultura sarebbe stata comodamente in uno dei vuoti delle mastodontiche figure dell’altro. Ma aveva torto: i suoi evanescenti fantasmi hanno bisogno di molto spazio intorno, perché si muovono: come Cristina Brahe, attraversano con passo lento la sala per sparire nel buio di una porta. Per questo sono così flebili. La loro incorporeità rimane nella stanza anche quando sono spariti e ce la portiamo dietro quando la cambiamo.

Giacometti naturalmente era esente dalle usuali fesserie a cui induce la venerazione della materia. Mi domando allora perché dalla creta al bronzo; anzi, non perché: come.

Il gesto dello scultore è movimento su un corpo, quello della materia sulla quale interviene. Questa materia ha una sua voce. Quella della creta è duttilità massima: non oppone resistenza di nessun tipo, si conserva nel tempo, a disposizione di qualsiasi capriccio e ripensamento, pronta a essere distrutta e a ritornare al suo stato originario, intermedio tra il liquido e il solido.

Forse proprio per questo, a un certo punto interviene una volontà di fissaggio, non una volontà, un’urgenza, un bisogno: che non vada persa tutta la storia (il Tempo) di quei continui ritorni, di quell’accumularsi di costruzioni e distruzioni, come fotografati su un unico supporto.

Ecco perché si dice ”duro come il bronzo”.

Voglio spezzare una lancia in favore dell’attualità di Giacometti.

Senza di lui un Fontana e un Gordon Matta Clark non sarebbero mai esistiti. Le operazioni di Warhol e di Christo su di lui sono pleonastiche: troppo poco ”immagine” per il primo e troppo inafferrabile per il secondo. Quanti equivoci e quante esagerazioni del dio della dinamica dei movimenti artistici contemporanei si sarebbero potuti evitare, se lo si fosse guardato un po’ meglio!

Fra i cinque o dieci nomi del nostro secolo destinati a rimanere (non di più: la cultura di massa è lo specchio della sua presunzione) c’è quello di Giacometti Alberto, nato a Borgonovo nel 1901 e morto a Chur nel 1966.

Il suo funerale l’ho visto solo in due o tre fotografie: quattro gatti dietro il carro funebre in una giornata invernale. Le immagini mi calavano in una sensazione rassicurante: niente popolo dietro il feretro di questo grande.

Ma viva il dubbio e lo scetticismo, che mi hanno salvato dal precipizio romantico verso cui mi spingeva il mio disinteresse per le cronache: intere delegazioni di artisti, critici, sindaci e naturalmente mercanti erano stati tagliati fuori. Il tempio, momentaneamente evacuato dalla frustata dell’arte (fotografica), è subito tornato ai normali regimi, del resto condivisi dallo stesso protagonista. Così va il mondo, e sarebbe stupido aggiungere purtroppo: così è il mondo, così ci piace il mondo. E in questo mondo Giacometti era un maestro.

E noi ora?

Nietzsche diceva: cercarsi un maestro, per distruggerlo.

“Dichiarazione di dubbio” – Federico De Leonardis

In forma di manifesto

Dichiarazione di dubbio

Distinguo

Prima di tutto devo dubitare dei pittori che scrivono (di me stesso quindi, in questo momento). Perché scrivono? Sono ridicoli, sembrano sassi erratici, pietre di Bismantova cadute in mezzo alla pianura da chissà quale asteroide. Ma questa diffidenza verso chi decide di esprimersi con la penna, anche con la penna, quando ha sempre fatto un altro mestiere, è passatista, medioevale: fantasmi solo miei. Anche Lotto, anzi già Lotto leggeva Marco Aurelio e scriveva li Cunti e dopo di lui, ma anche prima di lui, diciamo dopo che l’umanesimo aveva nobilitato la figura di quelli che si sporcano le mani, è stato sempre più frequente e alla fine d’obbligo il pagamento d’un pegno: in segno di riconoscenza per tanta emancipazione.

Ma ora scrivere è diventato addirittura un segno di riconoscimento: un biglietto d’ingresso.

Per la Gheenna mercantile, direbbe Murphy.

Anche in questo Lotto si è dimostrato uno di noi: ha pagato il pegno senza essere nobilitato.

Non è solo per poter entrare anch’io che continuo, sia pure sospettoso e autosospettoso: dove vanno a finire queste pietre erratiche, cioè cos’è questa piatta pianura di questo pianeta qui, quello in cui vanno a finire?

Quelli che voglio provocare perché mi diano una mano la conoscono benissimo. Ma spero che tutto questo capiti nelle mani anche di qualche bambino, qualche ingenuo che conservi ancora un po’ di spazio per sognare. Il cosiddetto “mondo dell’arte” è prima di tutto qualcosa di favoloso, il luogo del bello, una specie di spiaggia ancora naturale. Ed è così: nel mio piccolo lo posso confermare. Penso che le cose andranno proprio male quando non ci sarà più nessuno che lo crede. Il cielo in un cavedio è bellissimo, basta che un solo uccello ci voli dentro. Certo, qui volano anche fucilate; sparano infatti, sparano che l’arte è morta, che nessuno conosce il linguaggio per la nuova cultura tecnologica, che siamo tutti sordi muti e ciechi. E sono i professori a farlo, il meglio dei professori.

Ma l’ultima cosa che vuol essere questo piccolo scritto è uno sfogo di rabbia. Sul tavolo del mio studio c’è una pallina nera di gomma, anzi un cilindretto non più grande di qualche millimetro; su questo stesso tavolo sono passate e ho buttato via milioni di cose; non capisco come mai quel cilindretto, che non serve a niente e non so nemmeno cosa sia, stia sempre là.

Non basta? Lo spiegherò in altro modo. Un vecchio poeta, un tedesco, anzi per la verità un praghese (quanti praghesi!) aveva scritto anche storie per bambini: ce n’era una intitolata: “Un’associazione nata per un sentito bisogno”.

Non c’entra? Allora diciamo che aveva inventato degli occhiali. Scriveva: “Magico potere di una piccola luna” e riusciva a vedere in una stanza buia. Non credo che pensasse alle astronavi, perché conosceva Orazio: quid sit futurum cras, nisi quaerere, che tradotto in italiano vuol dire: il mio futuro (futurum cras) al massimo sono (sit) i miei figli, usciti da quella macchina strana che è la donna che me li ha fatti: alta tecnologia (nisi quaerere).

Qualcuno dice (continuano a sparare): dopo l’Uccello (non quello del cavedio), il Piero, Tiziano e forse Van Gogh, ci sono solo io. No, non qualcuno; sono in tanti a dirlo e possono avere ragione tutti: in arte non si applica la matematica e di dissacrazione si sente sempre tanto bisogno. Non appena scoperta e riconosciuta, l’arte diventa sacra; anche quella recente.

Anche quella di oggi.

La chiesa dell’arte è stata definita, se non ricordo male, come la progressiva stratificazione delle eresie. Ho preso gli occhiali per la luna e ho guardato nel cavedio quel quadrato in alto: stanotte niente luna; ma c’erano le stelle cadenti: è estate. Ho pensato: che cosa vorrà dire stratificazione?

Ma basta con i resoconti, con i bambini. Devo procedere con la provocazione. Allora farò la mia dichiarazione. Continua a leggere

Introduzione a “In forma” – Federico De Leonardis

Non mi posso soffrire 

Montaigne, Saggi II

Sentirsi in forma, essere in forma. Che vuol dire, chi è in forma e per quale impresa?
In realtà questo linguaggio da palestra mi è completamente estraneo: odio lo sport e la parola in bocca a chiunque la pronunci seriamente mi fa drizzare le antenne a scopo difensivo. Accetto che qualcuno possa farsi una nuotata sistematica o possa inseguire un pallone in mutande curando la forma del proprio corpo e tutto il resto, ma deve avere vent’anni o giù di lì. Se supera quell’età, lo guardo con sospetto: gli deve mancare una rotellina. Dopo di ciò è facile capire cosa posso pensare di quelli che si appassionano alla forma degli altri.
So perfettamente che queste mie affermazioni mi renderanno antipatico alla stragrande maggioranza di quelli che le leggeranno. Continua a leggere

“Cancellazione” – Federico De Leonardis

[Presentiamo questo racconto di FDL – risalente ai primi anni Novanta – pubblicato nel 1992 nel libro dal titolo “In forma” dalle Edizioni Bacacay di Luigi Grazioli, in tiratura limitata a cento esemplari illustrati. “Cancellazione” è il quarto di sei capitoli.

Su Nabanassar appariranno a puntate anche gli altri, in forma rendomica.

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Esperienza di immersione totale nelle rapide del pensiero, la forma lievitata rilascia alla stretta pietre dal brillio in apparenza opaco, irriconoscibile; un groviglio estenuante che appaga cancellandosi e ritornando nel colore al quale siamo destinati. A. R.]

 

Mi è capitato di veder succedere qualcosa.

Fra me e questa cosa vista succedere voglio inserire una pausa di riflessione, una pausa comunque. Quanto è successo, quanto ho visto succedere è successo così rapidamente, che una pausa, un distaccarmene per cercare di dirlo, è l’unico modo per mettere ordine, per calmarmi. Continua a leggere