cablogramma postumanista n.11 – congedo

Prendendo spunto dal questionario in corso su poesia2punto0.com, termino la serie dei cablogrammi e ringrazio. GiusCo

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Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Credo che al momento sia essenzialmente un rifugio emotivo per qualche centinaio di espulsi da altri contesti, un modo poco costoso per provare a dare un tranquillante all’ego e al proprio tempo che fugge senza lasciare traccia. Portato avanti in Italia, questo tipo di afflato suona patetico: pur in declino, siamo la decima economia del pianeta e i numerosi ammortizzatori sociali (famiglia, parrocchie, circoli culturali, reti piu’ o meno ideologiche) evitano i conflitti che si vedono altrove. Dirsi poeta in Italia e’ quindi un vezzo o una mania, come tirare con l’arco, fare birdwatching o giocare ai gratta e vinci.

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto?

Ho avuto un grosso periodo di fervore tra il 1994 e il 2004. Sostanzialmente ho passato i miei vent’anni cercando di fare un apprendistato leonardesco, meta’ scienze dure e meta’ umanesimo. Su quest’ultimo versante, e’ stata fondamentale la collaborazione col poeta siciliano Angelo Rendo. Ho poi pubblicato in modo clandestino o semi clandestino a partire dal 2003, come congedo nei riguardi della spinta e della vena che si stavano esaurendo. I primi librini, un ridotto teatrale a piu’ voci ed una plaquette personale, sono stati nel 2003 con Ass Cult Press di Pistoia, gruppo d’azione culturale affine a me ed a Rendo.

Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Molto per caso. Costi ridotti all’osso: spesi 40-50 euro in totale; autodistribuzione e nessun lancio, a parte una presentazione a Pistoia che mi fece capire di essere sostanzialmente inadatto a stare su un palco. Un’esperienza a meta’ fra uno scherzo e la seriosita’ di chi riteneva di star facendo qualcosa di importante per le patrie lettere. Credo ancora che, con Rendo, stessimo facendo qualcosa di rilevante, ma il mondo reale gia’ andava ed e’ infine andato da un’altra parte.


Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Se fossi un editore, lo sarei di vanity press. Inconcludenza per inconcludenza, ne avrei un profitto. I poeti si aspettano dagli editori qualcosa che nessuno puo’ dare e che tutti rifuggono: la percezione del proprio ridicolo. Per fare del proprio ridicolo un vanto o un mestiere ci vuole esibizionismo e anche questo non manca. In massima parte, come gia’ detto, il retrogusto e’ patetico e quindi alla lunga indecentemente insopportabile.

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Il web era partito per uno scopo ben preciso, di utilita’ fra elite della ricerca scientifica e militare. Quando e’ diventato un fenomeno globale, aperto all’interazione delle masse, ha portato tutto quel che alle masse si rimprovera: pressapochismo, ignoranza, palato facile, chiacchiericcio. Non credo che oggi si possa fare poesia dal web, se non riciclando materiali inerti e poco interessanti. Fare poesia sul web, invece, e’ ancora possibile perche’ ogni spazio e’ immagine di chi lo riempie e una certa dose di talento si puo’ ancora rintracciare qua e la’.

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Credo che questo tipo di domanda risenta di un pregiudizio ideologico che, in un’era di libero mercato alla deriva, la rende inutile. Ognuno per se’ e il diavolo per tutti, salire sulla giostra non e’ reato e qualcosa di buono, da individui singoli per altri individui singoli, ogni tanto si realizza.

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Il passato e’ passato. Vivere nel presente riscrive continuamente le regole, ma e’ il diverso grado di talento individuale a rendere tale riscrittura interessante o meno a chi legge. Talento che, a mia opinione, deve rimanere pesante, robustamente logico nel tenere le briglie ed educato a fornire un prodotto da mettere in circolo.

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Questa domanda, come l’altra di sopra e per lo stesso motivo, risente di un pregiudizio ideologico che la rende inutile.

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Rifuggo dagli evangelisti della poesia. Lasciate che sia, se deve essere, un incontro individuale, il piu’ possibile casuale. Autoeducazione, insomma. Mai e’ stata disponibile tanta poesia, buona e meno buona.

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta mi pare un osservatore che anticipa lo spirito dei tempi a venire provando a modellarne la forma linguistica. In questo senso, puo’ entrarci di tutto ma non credo ad un ruolo pubblico, ne’ verso il pubblico.

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Retrospettivamente, credo che nei miei 15 anni di pratica abbia prevalso la spinta, lo stare sull’onda dettato dalla voglia di sperimentare un equilibrio frontale, in faccia al sole ed alla vita. Mantengo viva la spinta traducendo dall’inglese quel che mi restituisce lo spirito di quello stare in equilibrio.

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Trovo la comunicazione poetica in senso stretto del tutto casuale, soggetta a regole interne di economicita’. E’ come se attraverso la buona poesia si vedesse in controluce lo spirito di chi l’ha scritta e del suo tempo corrente. In questo senso, ha valore documentale e rimane -a mio modesto avviso- il miglior reperto storico a disposizione di chi verra’.

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Sostanzialmente nulla, ognuno di noi ha le proprie maniere e io, in passato, ero informato dentro questa.

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Non potrei fare della poesia un mestiere, lo trovo antitetico.

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Spero si possa dire che un tempo non lontanissimo c’era ancora la possibilita’ di fare poesia liberi dalle circostanze, in piena coscienza e in totale controllo sia della tradizione che dello spirito del tempo che da li’ a qualche anno sarebbe venuto. Quel tempo, pero’, e’ passato.

La pace interiore – intorno a “Tempesta” (Effigie 2011) di Luigi Grazioli

Luigi Grazioli, "Tempesta"
Luigi Grazioli, "Tempesta"

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Sono partito dalla fine, dall’indice, anzi dalla foto del retrocopertina: lo scrittore indossa un paio di occhiali posticci, sembrano essere stati aggiunti scherzosamente con Photoshop. A fine lettura ci si accorge che degli occhiali non c’è più traccia.

Due passi indietro e di nuovo all’indice, in cui i titoli sono rappresentati dalle lettere dell’alfabeto (dalla A alla Z). Provo sollievo. Una maniera spiccia e sequenziale di accomunare situazioni e parole senza gerarchia alcuna o guida di senso se non la temporalità alfabetica. Tanto, ci penseranno le avvolgentissime spire della sintassi, le enciclopediche accumulazioni e rutilanti a stringere il lettore, a subissarlo nei bagordi e nella sfrenatezza, che da un lato uniscono, da un altro separano (è la capacità di reggere le morse della vertigine a far selezione).

Con questo romanzo Luigi Grazioli ha scoperto “la capacità […] di dimenticarsi e diventare un altro!”, come se la cura consistesse in questo passaggio, apparentemente largo, in realtà velato da correnti dimentiche, che accolgono pensieri, azioni, accelerazioni improvvise e franta minutaglia sovrintesa da un monologare esclamatorio e percussivo.

Una stanchezza/vigore primordiale – sciolto da mano che scrive – si perde, permane nei meandri del romanzo; una pressione fortissima che, invece di trastullarsi affondando nel nero, trova la gioia del dire.

Prendere più strade, non pensare ad una sola cosa, darsi aria; del resto a ciò che è “sempregiovane” conviene corrispondere. Innalzare la posta, giocare nel campo avversario, scatenarsi, fare il bello e cattivo tempo, esser tempesta, mai pappamolle! Un narratore antidiluviano e apocalittico col sorriso stampato in faccia.

Il romanzo non sopporta lo si interroghi in profondità, non essendovi dimensione.

Ma la  misura di Grazioli non sembra essere nel/del romanzo. I personaggi di “Tempesta” servono a mettere a tacere la voce interiore, che fa capolino parenteticamente o di soppiatto. Prosaicizzarsi, rincorrere il romanzo significa avere durata, un incantesimo per la vita.

Il libro è umile, saturo di terra, infine evaporato.

Ogni parola un gesto preciso. Le parole (piccole menti) hanno un corpo, si materializzano e le animelle liete seguono. Tatuate. Una prosa ritmica, splendidamente meccanica, di un pensiero non più bisognevole di revisione, un non pensiero. Perfino dallo scherzo grasso fionda la sapienzialità.

La Tshala inseguita per tutto il libro è il desiderio spostato in avanti. Avanti e pedalare. L’altra vita.

 Forse ciò che ora è a perdere, varrà proprio in quanto perso, e quindi in qualche modo avuto…Ora è indifferente. Che sia perdere, va bene. [p. 116]

 Hai vicino ciò che cerchi, mentre il lontano insiste a pelarti.

Angelo Rendo, 24 maggio 2011, diritti riservati.

LA VERITA’ DEL NEGATIVO: “Sul vuoto” di Gabriel Del Sarto, Transeuropa, Massa 2011

La presa sul reale parte da una riflessione sul “niente”. Nell’epoca del nichilismo raggiunto e del disorientamento etico la poesia tenta una reazione spostando il proprio linguaggio allo stadio minimo della descrizione di esperienze che si accendono in un’atmosfera di raccoglimento, nei piccoli gesti quotidiani, nel comune formicolio delle esistenze e delle relazioni tra le stesse.

Il tema fondante nella seconda raccolta di Gabriel Del Sarto è proprio la relazione: dalla dimensione lineare del “viale”, di una strada che si allunga, partendo dalle proprie origini, attraversando incroci, siamo condotti ad una inedita vastità, infinita proprio perché non ancora esplorata, quella del vuoto. “Sul vuoto” è la ricognizione di un orizzonte mutato, anche concettualmente, a cui si giunge da coordinate precedentemente vissute ma ineluttabilmente perdute. Il senza-dimensione che il vuoto simbolicamente rappresenta illustra lo spaesamento del soggetto lirico che continua a ritrovarsi nelle micro-percezioni relazionali che lo hanno formato anche attraverso le inevitabili cadute. Scoordinazione e relazione, macro e micro testo (macro e micro cosmo), dimensioni che si creano nella loro apparizione, sciolte da ogni determinismo.

A conferma di quanto esposto andiamo a osservare retrospettivamente l’incipit de “I viali”: “Radiosa, quest’ora,/ e violenta di luce”, sin dagli esordi è possibile notare la modalità di riflessione poetica di Del Sarto che è capace di cogliere l’accensione del reale nella presenza-assenza del soggetto poetico rispetto al contesto, in una posizione anti-dialettica: radiosa è l’ora nella sua violenza (l’aspetto negativo) ma in “Sul vuoto” troviamo: “I ricordi nella luce obliqua/ dalla porta a vetri, un vento leggero e un ritorno/ di senso, molecolare” (“I tigli”, p. 11, vv. 10-12), la luce da violenta diventa obliqua, il taglio verticale della stessa luce, correlativo della vista e della possibilità sensoriale del soggetto, si attenua in una percezione liquida e quasi tattile del reale, per questo sembra decadere l’affermazione della quarta di copertina sui toni più metallici della seconda raccolta rispetto alla precedente; piuttosto gli stessi toni aderiscono al panorama più vasto e spaesante e si abbassano in maniera ancora più decisa, rispetto all’humus relazionale che dominava “I viali”.

La poesia di Del Sarto, adesso, galleggia sul vuoto che si riempie di frammenti costituiti dai contatti basilari (familiari) che piano si innervano creando il tessuto di un racconto anche se provvisorio (la biografia presentata in esergo rappresenta, a mio avviso, l’unico approdo in un mondo senza storia).

La precarietà dei contatti è il tema che va a sovrapporsi ai su accennati motivi relazionali ed è nel resoconto degli stessi, che appaiono al setaccio della trama del racconto, che la ricerca di Del Sarto realizza i risultati più alti, in quella condivisione spazio-temporale della presenza, in una disposizione topologica e cronologica che ci immette nel territorio della scelta e, inevitabilmente, dell’etica.

Alcune citazioni da pensatori contemporanei possono aiutarci a comprendere la temperie culturale in cui sembra posizionarsi la poetica di Del Sarto:

«Il senso è abbandonato alla condivisione, alla differenza delle voci. Non è un dato anteriore e esteriore rispetto alle nostre voci, Il senso si dà, si abbandona. Non c’è forse altro senso nel senso se non questa generosità» (J. L. Nancy, “Narrazioni del fervore”, Moretti & Vitali, Bergamo 2007, p. 117),

la differenza delle voci, dei soggetti immersi nello spazio di una comunicazione che è presenza, crea un mondo con le sue nervature e interferenze (dinamica rintracciabile sin dalla prima poesia della raccolta, “La differenza”).

«Interesse viene dal latino interesse, che vuol dire “essere tra”, o anche impersonalmente “esserci una differenza tra”, e quindi “essere d’importanza”, “importare”. L’interesse è dunque etimologicamente connesso con l’intermedio e con la differenza. […] Noi non siamo affatto padroni del nostro interesse, perché esso non può essere determinato da noi. In qualsiasi situazione si trovi, l’uomo è sempre inter-esse, all’interno della dimensione dell’interesse; non esiste fuori gioco nella condizione umana. Anche il destino più umile sollecita una partecipazione, un amor fati, un interesse affinché si compia» (M. Perniola, “Più – che – sacro, più – che – profano”, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010, pp. 33-34).

Partendo da queste coordinate concettuali in cui sembrano muoversi i testi di “Sul vuoto”, allora appariranno più chiare anche le scelte linguistiche di Del Sarto: l’intermedio dell’interesse che non crea semplice scarto ma, attraverso la lampante differenza degli essenti, rivendica nella presenza l’apparizione di una comunità in continuo movimento e senza confini, oltre quelli topologici del momento in cui si verifica il contatto, apre la possibilità di una parola umile, scabra, che riduce al minimo gli artifici retorici avvicinandosi alle modalità del parlato e, nell’apparente minimo sforzo paratattico, tenta il dialogo: “«Ma – mi chiedi – ma non ti viene mai/ la voglia di avere/ qualcuno per casa, con cui parlare almeno/ sfogarti?»” (“Meridiano ovest”, III, vv. 18-21, p. 25).

Anche solo nella transitorietà dell’evento rappresentato dalla voce dell’altro è permesso all’io poetante di ridefinirsi attore tra gli attori, in quanto l’alterità paradigmatica degli affetti dona senso all’esistenza e una, seppur fragile, nuova identità.

La composizione “Il senso”, che suggella la raccolta, ci dice proprio la speranza dell’esserci nonostante l’assenza di infrastrutture e di segni prestabiliti che guidino il nostro cammino sul “vuoto” spalancato:

Il senso

Il senso era qui, luminoso
e perduto, nell’attenzione improvvisa,
dei tuoi occhi mentre mi parlavi
di lui, del tuo sognare la sua morte
mentre accadeva. Eri qui. Lo sguardo
su te ora è sul vuoto e quella sedia
è come morte, altra morte ancora.
Siamo questa speranza
trafitta dalla cenere dopo la luce
di un gesto, come se avesse questa tua pazienza
ogni storia, o differenza, che sapevi
e raccontavi: così ascoltare era come
assaporare il tessuto che mi lega
al dolore di un padre e di un figlio.
 
Il resto, le guerre, è lontano da qui
e viviamo in un mondo ovvio,
che non si cura di noi, e lo chiamiamo
casa. Ma anche stasera dopo il pasto dopo
il cartone animato, i popcorn caramellati,
soffrire fonda la serietà della vita. Sono
gli infiniti che si raccolgono
nel sonno dei miei figli, sonde e respiri.
E non so quale notte poi,
dolce e infinita forse, è la forma
del racconto che da oggi ti comprende.
Se quel vento è intimità che salva.


«Un essere siffatto, che è capace di avere in sé la contraddizione di se stesso e di sopportarla, è il soggetto; e ciò costituisce la sua infinità» (G. W. F. Hegel, “Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio”, § 359),

infatti

«è la libera provenienza, la liberazione in sé, cioè a partire da niente, dall’ente in generale senza fine» (J. L. Nancy, “Il peso di un pensiero, l’approssimarsi”, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009)

che ci rende consapevoli della nostra “nullità” fino ad aprirci umilmente al senso dell’infinita presenza-assenza.

Come nella lettura di Giorgio Agamben de “L’infinito” (G. Agamben, “Il linguaggio e la morte”, Einaudi, Torino 1982 e 2008), in cui “il luogo della poesia è sempre un luogo di memoria e ripetizione” (op. cit., p. 95), la poetica di Del Sarto riesce ad annunciare l’importanza imprescindibile dell’unico mondo come sempre cara dimora.

Gianluca D’Andrea

Raccontiamo insieme le fontanelle d’Italia – di Toni Fachini

In occasione dei referendum del 12 e 13 giugno, doppiozero partecipa con entusiasmo alla campagna in favore dell’acqua pubblica invitando i lettori a inviare un testo che racconti di una fontanella pubblica che sta loro a cuore in territorio italiano.

Fontanelle scelte come simbolo di vita, d’accoglienza, di pulizia e freschezza, fontanelle come piccoli scrigni di storia, di ricordi.
Se l’acqua fosse privatizzata, cosa ne sarebbe di loro?
Ci interessano anche le fontanelle lasciate asciutte così come quelle che non ci sono più, sorgenti sepolte sotto colate di cemento.

Come partecipare

Spedite racconti, disegni, foto, audio e video all’indirizzo fontanelle@doppiozero.com
Sono benvenuti foto, disegni o brevi filmati delle fontanelle di cui si racconta. Date indicazioni dettagliate sulla collocazione della fontanella (paese, città, strada, piazza, territorio).
I testi non devono superare le 2000 battute.

[tratto da http://www.doppiozero.com/materiali/acqua-pubblica/raccontiamo-insieme-le-fontanelle-d%E2%80%99italia ]