SULFUREA, O DELL’AGRIGENTINO – Angelo Rendo

Nel primo occidente siciliano si fa ritorno. Sono risme di diavoli, invisibili, nascosti sotto terra, ma fumanti, a richiamarci.
Qui si viene per decrearsi e umettare gli angoli delle bocche sulfuree a chi vi abita. Qui l’uomo è zolfo, giallo, e distruttore di tutte le cose. Qui stranieri, baroni e gabelloti hanno sublimato all’inverso lo zolfo, annerendo terre e uomini. Disagio, depressione, decadenza, sciatteria, trascuratezza danno forma a Favara, e non basta il vivaismo culturale da Farm Cultural Park, roba per stranieri, baroni e gabelloti. Vezzo e ricreazione. Si è attratti dal ratto morto in pieno centro, non dai topolini dell’arte sloganistica e slogata, colorata e glamurosa.

Da Favara proseguiamo per Naro, imboccando la strada della diga Furore, punteggiata da vigneti, scaffe, avvallamenti, e monumentali discariche incendiate. Trentanove gradi. Naro, frontale, la fulgentissima, imponente col suo castello e il Duomo normanno propileico, un’ustione, fiammeggia e spara lingue di fuoco nell’etere. Il drago Naro.

Ma il mare non può essere spento. Imperterrito continua a prendersi le falesie di marna argillosa ed erode Eraclea, Giallonardo e la costa agrigentina tutta, solo Sciacca appare aperta, serena, forte, ognuno sembra stare al suo posto, sembra. Ancora per poco.

IL CORPO POETICO – Angelo Rendo

Il dono prelude alla guerra fra individui, tribù, popoli, quell’occhio instancabile ma chiuso. La giusta clausola, dunque, si adotti, poiché chi crede al proprio consistere teme il contagio. Facciamo in modo che le fondamenta di ogni istituzione vengano calate nel contro, nessun patrono senta la coda dell’insidia.

Apparentemente, la descrizione del rischio corso ricompone gli opposti fronti dell’ordine naturale. Oltre, i sentimenti non trovano posto, e solo la preoccupazione femminile discrimina le anime, operando leggera fra i resti.

La segretezza permette al mondo di manifestarsi senza alcun risultato. Una collera violentissima si apprende tutta intera a chi vi subentra per ridurlo a vivo, poi che riportare parole altrui stride e comporta uno scambio di funzioni fra cielo e tenebra.

Un ospite

La sua umanità tenera, maledetta
la sua innocenza: dolore,
perdita, conquiste da padrone.

Un disegno inattingibile, muto, desolato e senza proclami. Una traccia figurale assorta si espandeva, e umili riaffioravano torme di messaggeri. Trapassavano le palpebre, dilatando la durata del giorno, e, complici, danzavano con la forza soverchia dell’esistenza superna, fumosa.

Scende lento, come una piuma, il rigore, distinguendo cerimonia da testimonianza, e portando il peso fino in fondo. Estraneo all’uomo, e alieno dalle formule del fumo, acquista forza nel rotolare dei tempi; umanizza l’errore, disumanizza il vero.

Lacune geologiche, rotte da continui esempi poetici, a nulla valgono di fronte alla novità stilistica che il basso pesante muta in leggendario aiuto.

La territorialità dispone della terra, requisendola alla libertà antispecista, la forza speciale avoca a sé il bene. E noi cosa facciamo? Cosa conta? L’eloquenza anonima e sorda dei criminali, che, indistinti, tentano di limitare le esigenze e bloccare lo sviluppo, bisbigliando sacrilegi mentre le frecce anneriscono l’immenso disegno.

L’esame prevede si sia in grado di configurare i regni in una direzione fantasmatica. Abbandonata la valorizzazione, ai confini spingono decadenza ed eruzioni. La tesi esperita, incalzando sull’oscurità, e inibendo la dominanza, denomina la pena.

Ma tu, quando verrai? – Henri Michaux (trad. Angelo Rendo)

Quando verrai, Tu?
Un giorno, stendendo la mano,
sul quartiere dove abito,
nel supremo istante della disperazione;
o quando tuonerà,
e Tu mi strapperai con terrore e forza
dal mio corpo e dal corpo crostoso
dei miei pensieri-immagini, che universo da ridere;
e in me calerai la tua terribile sonda
la terrifica fresa della Tua presenza,
innalzando in un lampo sulla mia porcheria
la tua dritta e insormontabile cattedrale;
lanciandomi come un proiettile al cielo.
Tu verrai.

Tu verrai, se esisti,
attirato dal mio pasticcio,
la mia odiosa autonomia;
sortendo dall’Etere, da sotto
il mio io scosso, forse;
gettando il mio soffro nella Tua smisuratezza.
E addio, Michaux.

O cosa?
Niente? Eh??
Dimmi, o Grandissimo, dove vuoi dunque
cadere?

***

Mais toi, quand viendras-tu?

Mais Toi, quand viendras-tu?
Un jour, étendant Ta main
Sur le quartier où j’habite,
Au moment mûr où je désespère vraiment ;
Dans une seconde de tonnerre,
M’arrachant avec terreur et souveraineté
De mon corps et du corps croûteux
De mes pensées-images, ridicule univers ;
Lâchant en moi ton épouvantable sonde,
L’effroyable fraiseuse de Ta présence,
Elevant en un instant sur ma diarrhée
Ta droite et insurmontable cathédrale ;
Me projetant non comme homme
Mais comme obus dans la voie verticale,
Tu viendras.

Tu viendras, si tu existes,
Appâté par mon gâchis,
Mon odieuse autonomie ;
Sortant de l’Ether, de n’importe où, de dessous
Mon moi bouleversé peut-être ;
Jetant mon allumette dans Ta démesure,
Et adieu, Michaux.

Ou bien, quoi?
Jamais? non?
Dis; Gros lot, où veux-tu donc tomber?

Nella provincia la sensibilità non è funzionale alla teoria, la voce è un più antico nodo agonico, lontano dal groviglio elementare. Spesso bastano le parole della conciliazione per trasformare in chiacchiere i grandi viaggi verso il centro, i centri che risucchiano i mali delle nazioni, degli imperi. E li covano. Manca un rifugio, che a sé chiami i battiti del cuore, al centro.

Trentacinque gradi all’ombra; dentro ci si cuoce a fuoco lento, e i tre tomoni non stanno reagendo bene. È chiaro mi chiedano di volar via, uscire dalla casetta; si irrigidiscono, si incurvano e scricchiolano. Prendo in mano per primo quello che sta sotto, lo stringo forte, lo scuoto, lo metto in riga, lo drizzo premendo sulla copertina coi pollici, aprendolo al mezzo gli ridò fiato, lo compulso, e conforto; il terzo, quello con la copertina in similpelle rossa, è un duro, invece, e marcia dritto contro ogni pena, ed è il più vecchio; al centro il più giovane, ancora morbido, con segni di cedimento temporanei: è bastato accarezzarlo, e due volte ripassarlo alla vita.
Mi preoccupa il più grosso, allora, sotto; come ogni legatore di miriadiche spoglie letterarie e frammenti idiosincratici è salvo perché non poggia su altre parole, ma su intuizioni profonde, lontane da ogni fondamento.

Si concede che la pietà trovi formule sordide dopo essere stata disimparata. Poi si svela la volontà di liberarsi, il vento della sventura e della recriminazione che eccita il malinteso e una desolante eleganza. Così la timidezza scopre i suoi altari, affondando nell’idiozia, che allo scettico dispiace.

Possiamo pure decidere di interrompere i dialoghi non essenziali. La grazia è questa nave senza guida che anticipa il pensiero. L’identità si tiene vicina alla meraviglia, i tormenti stretti ai sintomi, quindi la curiosa tendenza al comico prelude a disegni scampati alla dimensionalità dei rapporti fra caratteri ed esiti mai raggiunti.

Da qualsiasi parte la si cerchi di afferrare, la critica non è mai conforme agli adempimenti di una statua. Quanto più si tende al rilassamento, tanto più l’ebbrezza che la anima annienta inesorabilmente il disordine, e ordina: che il potere sia temperato, che la mina venga ridotta dal silenzio.

Quatto quatto

Gli anni si sfanno ad uno ad uno
Questo è quello delle due
Sedie alte su tre
Piedi quattro
Quattro cinque

a zero.

Pioggia. Fastidi tremendi nel tempio. Piangete replicò la fanciulla. Il marito andava a cavallo, strane personificazioni dimoravano presso l’approdo, interdette le intelligenze spettrali.

La cifra più caratteristica di chi vive nei mondi conchiusi, è presto illuminata da un aneddoto, di cui mi viene in mente uno sfilaccetto che sa di brodo e poco. Sarà stato il 2002 – molta posta è morta e sepolta in qualche hard disk dimenticato – e a quel tempo capitava tastassi i poeti; una volta – non so quanta la mia impertinenza, o più semplicemente quanta la spontaneità – un poeta, che pensavo non fosse coi galloni, si rabbuiò, non si vergognò, anzi così s’incazzò: “Forse lei sta scambiando un cavallo per un pony”.

De Chirico che dipinge Andreotti e Andreotti che posa davanti all’Andreotti dipinto da De Chirico, entrambi simboleggiano. Bamboleggiano.

Unità, forza, coesione, ripresa, gallismo, nazionalismo, futurismo. Brum brum ciak boom vruum.

Il cavallo, De Chirico, Andreotti, le frecce tricolori appartengono al mondo simbolico, al mondo conchiuso. Finito.

Strumenti

Solo due dita mi servono
per scrivere, non una penna
non una matita, ma medio e indice
della mano destra. Del medio
la faccia piena e carnosa, dell’indice
la punta, l’unghia.

Chiuso il primo, desto
l’altro.

Fra coloro che abitano la terra, alcuni tentano l’ascesa a un sintomatico cielo, costoro desiderano disfarsi anzitempo di ciò che pervicacemente resta fra le trame.
Non so dire quanti siano, nessuno potrebbe dirlo. Solo si muovono in altra forma per altri sesti. Pur essendo in vita, ravanano fra le rovine di un sistema tombale. Un ripostiglio, la cui medusea altezza abbassa ancora un poco il tono grave della durata.

Il piede fuori di casa prima di aver finito la mezza boccettina di profumo che teneva fra lo specchio e la panca nella cavità color porpora incustodita del bagno mai lo metteva. Se sentivi quell’olezzo dolciastro e peccaminoso, potevi stare sicuro che era passata lei, con le sue fiamme rosse. Niente era lasciato al caso. La sua presenza, la sua scia funerea aveva da essere imposta. Così facendo nessuno avrebbe mai potuto esser colto in fallo, nessuno mai avrebbe osato parlar male di lei. Tutti avrebbero portato rispetto, tutti l’avrebbero onorata. Il lezzo la precedeva. Silenzio. Rimanere ad aspettarla o darsela a gambe levate.
L’arma guasta e urticante della seduzione, quanto di più simile ad una carogna ripiena di mosche ai bordi della carreggiata, non è in mano nostra, ma del tempo, per fortuna.

Viene dopo di noi
e noi vorremmo
dire dove sta:
nel seme
che del ricordo tiene
meno di quanto avanzi:
la troppa vanità
che regge nel gelo il vero

ditelo.

Quando ‘mi parte’ la poesia, sono spesso contrariato, appaiono delle tesserine luccicanti, di forma ineguale, alcune piccole, altre piccolissime, altre ancora minuscole; poi ci sono quelle che non si vedono, ma che stagnano nei pressi delle consorelle fra la testa e i piedi. Riempiono i vuoti e remano contro verso l’abisso. È un colpo di pistola, preciso e salvifico, uccide simile e dissimile, il colpo poetico.

 

Giacomo da Lentini, “Mi misi mpiettu Ddiu” (versione di Angelo Rendo)

Mi misi mpiettu Ddiu
Pi jiri mpararisu,
Nô puostu ntisu riri
spàcchia ioca rira.

Ci vuogghiu iri sì
Ma ca bionda faccia a risu.
Cuntignusa facci
e taliatura aruci.

Cuomu mi sintissi cunfurtatu
A virilla pi prima mpararisu.

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Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.

Manuale di scrittura decreativa – Angelo Rendo

Inventare non fa per me, nessun pensiero cosciente può essere così spudorato da disporsi in parole. Sperimentare non fa per me. Non ho tempo per scrivere ciò che il saggio esorta a non fare.

Osservatore come il padre e come il nonno, come la madre e come la nonna, non riusciremo a reinventarlo, scoprirà mano mano chi è stato, passando per chi sarà.

Potrebbe accadere nulla se il per caso prende possesso dell’azione deliberata? Questo ci si chiedeva mentre temperavo la matitina.

Ho dimenticato di scrivere quanto sia bello partire da qui per finire qui.

Un dialogo incisivo non s’è mai visto. Porterebbe a ragione un’idea.

Svelare il patto silente fra lettore e lettore è compito di ogni lettore.

Sfuturati è lo stesso che sfaticati.

Non sei tenuto a oltrepassare l’ostacolo che ti fronteggia.

Guarda, non ti arrabbiare, avvicinati, là ci sei tu ma non c’è lei.
Cosa?
Può darsi.

Il taglio dato alla pagina è inattendibile, lentamente fuoriesce l’inespresso per multipli di sei.

Tra il sotto e il sopra vi è una netta linea di confine. Essa attesta l’inevitabilità del prima e del dopo e di come bisogna disporsi affinché in breve si compia il viaggio.

Accorciare la distanza, la porta è chiusa.

Che sia di breve durata o lunga l’esautorazione, resti la regola che a un ritmo deciso si accompagni un silenzio perduto per sempre. Arso.

Osserva chi grida e chi sta in silenzio, imitali, prima che possano farlo loro.

‘Non si gioca con le parole’ sono le ultime parole.

Non aver fame di dare nome: passare senza risvegliare, riprendere dai candidi viluppi del filo.

Non imporsi nulla tranne l’attiva rimozione del segreto letterario.

Un’opera vasta la si lasci al mare, a tutte le intermittenti e conosciute dinamiche del compiuto.

Qui c’è il giogo, e la sua scomparsa.

Venera il sole, l’arte rimanga in attesa.

Fino all’ultimo, piega a metà le pagine scritte, ché la riga netti l’identità più estrema.

Nel 4000 non parleremo più.

Felicità, levità si chiede, alla luce del sole. Al suo colmo.

Il ricordo bussa alla porta, stretto a un bastone, claudicante, tossisce e prende gli odori alla stregua di un cane dallo sguardo altero e il naso all’insù. Pensa ma non sente, riprende il suo cammino all’indietro.

Quel che è avvenuto non sempre risponde, spesso si attarda al blocco di partenza.

Nel viaggio può capitare si riesca a sacrificare un appunto, è la cosa migliore tu abbia scritto.

Pensa al reale, quindi scordatelo, la fantasia è sparita.

Due parole, solo due parole, per suscitare la tempesta.

L’insofferenza si conferma tratto distintivo di chi vuol farla lunga, la smania di ogni autore, che sorveglia i percorsi sulla propria mappa.

Oltre a questa cornice da cui sporge, cosa avrebbe potuto sperare, signora? Di essere la creativa più in vista del villaggio? La verità è che l’élan ultimativo mal si adatta alla logica.

Certo, è vero, potremmo pure riscrivere questa puntata, o persino le precedenti, non perderemmo nulla. Dire poco, niente, e una sola volta.

Viviamo per l’immaterialità. Ogni creazione è immateriale. Raccogliamo oggetti, sentimenti e pensieri con l’intento un giorno possano farsi carne. Non è così.

È impagabile dalle altezze più grandi seguire il filo spezzato di ogni vita.

Non hai bisogno di enfasi, o, se proprio non puoi farne a meno, non seguire questo consiglio. Nessun consiglio giova.

Non puoi cavare nulla da chi esce dall’acqua completamente asciutto. Se ne parla come di un miracolo, ma è nel genio delle cose la solidarietà fra l’ordine della coscienza e il disordine della scienza.

Al simile non rispondere facendo finta non ti riguardi, snaturerai il tuo nome. Cerca invece una stanza, dove il tu possa scambiarsi di posto col noi.

Alla storia non hanno riservato che testimonianze, memoria, mentre la vampa la fa cenere.

Chi parte ‘con l’idea di’ non ne farà mai a meno, eccetto che non si faccia largo nella sua mente un comando: fare presto e bene.

Lo spazio bianco non lascia presagire nulla di buono, arrivano le luci della storia.

Non sai perché? Levaci mano.

Non hai un piano? Ritirati.

La frase imbarca acqua, affonda, se l’aria ha voce nasale, rotta agli urti e famelica.

Prova a sentire la più piccola emozione – piccola, umile e fugace emozione – ricordati, non c’è più nulla di ciò che pensavamo ci fosse.

Non è un caso il fumo si spanda prima ancora che le parole arrivino a cottura.

Il marcio maschera il soffio sottile dell’inesperienza.

Gli esperti, dopo aver servito il piatto, si infilano due dita nel cannarozzo.

Rimanere rinchiusi nel letteralismo, prima che arrivi la persecuzione.

Tutti ricercano un premio, poiché vivono. Un taccuino, una rete ampia di contatti, un missile, una navicella, il neoliberismo, la religione.

Vedrete le parole più importanti, arrivano prima, e non se ne vanno più.

L’energia giunge al vertice – dopo aver circolato fra i sassi – durante la sepoltura. È un approccio vertiginoso al problema della forma. Vi è uno specchio sottoterra, e un nido: il debito, non la bulimia.

I PIÙ ALTI CANTI D’AMORE – Angelo Rendo

Vorrei scrivere tanto, ma sono troppo occupato dal rispondere al bisogno umorista, non mi serve scrivere. Certe giunture hanno iniziato ad assumere un’altra articolazione. Come se chi ci parla non dovesse più rincasare. Ma, a ben vedere, è lo stesso che un autore chiami chi non voglia essere chiamato. Lo spirito si perde sempre nei peggiori momenti della storia. Così dice chi non ha mai pensato al dicibile, a quale paradosso neghi la parola alla parola in un cortile. Nelle più aperte stanze della terra c’è chi lotta per chiudere una partita, mentre in ogni segreta corte i più alti canti d’amore.

È un’altra cosa. Un’altra cosa quella che voglio dirmi, magari non la si trova che nel giorno. O forse abbiamo paura che di giorno viva la notte. Non è che un’affermazione l’augurio che tutti noi abbiamo elevato ad essa.

Scriverei quel che non canto, solo fosse mortale quel mondo, la parola che lo scrive. Ma quel mondo non è che lo sguardo più delicato del destriero dell’ultima cosa rimasta.

Quale sia il panorama potremmo non più saperlo, o averlo visto dalla notte del tempo, benché l’acqua non fluisca se togliamo ogni nesso.

Dimentichiamo il peso, la coorte romantica che circonda le generazioni paghe di visioni.

UN CONTINENTE ALLA DERIVA – Angelo Rendo

[Naipaul, “Dolore”, nella nuova collana digitale ‘Microgrammi’ di Adelphi.]

Naipaul soppesa il lutto: il dolore ne è il precipitato. Esso non ha luogo, se non in quella soluzione chiamata vita. E non ha niente a che fare con la parola dolore questo dolore.

La parabola delle tre esistenze che nello scritto si incrociano oscilla sopra un regime vocazionale intriso di umorismo e astuzia. Che è poi lo stato assoluto di quel continente alla deriva chiamato Scrittura.

IL COLMO DELLA MISURA – Angelo Rendo

I giovani e i vecchi sono i più restii al suo cospetto. Gli uni non la conoscono, gli altri, che la sanno, hanno gettato il metro. Il metro rimette ogni cosa al proprio posto, livella. E misura la distanza fra inerzia e sparizione. La misura è il presentimento, il nodo insolubile, l’apparizione violenta della quiete. Chiedersi cosa si prova e non saperlo dire. Ecco il colmo.